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Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 07 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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"Mi sono perso."
Presi dal contenitore qualche tovagliolo di carta e mi asciugai la fronte.
Il juke-box era spento, lei era ancora lì.
Tramortita su una sedia, guardava davanti a sè masticando una gomma americana.
Si alzò, raccolse il suo cartone di latte dal bancone e salutò il ragazzo.
Sulla soglia di fermò.
"Io passo lì davanti, se vuole..."
Mi misi dietro ai suoi passi sotto il sole cocente.
Indossava una maglietta viola e una gonna corta verde ramarro, ai piedi un paio di sandali di fettucce variopinte a tacco alto, sopra ai quali le sue gambe magre si affannavano sgraziate.
Il latte lo aveva infilato in una borsa patchwork dalla tracolla lunghissima che le arrivava quasi al ginocchio.
Non badava a me, camminava veloce senza mai voltarsi, strascinando i piedi sullì'asfalto dissestato, troppo attaccata ai muri, fino a sfiorarli.
Si fermò davanti a una saracinesca.
L'officina era chiusa, un foglietto ingiallito tenuto da un nastro adesivo diceva che avrebbe riaperto di lì a un paio d'ore.
Pensai a tua madre, dovevo avvertirla del contrattempo.
Dalle tempie il sudore mi colava dietro le orecchie, lungo il collo.
Eravamo fermi in mezzo alla strada.
Lei si era voltata solo con la testa, mi guardava, gli occhi socchiusi dall'afa e dalla luce.
"Ha un pezzo di carta sulla fronte."
Cercai tra il sudore quell'avanzo di tovagliolo da bar.
"C'è una cabina telefonica?"
"Deve tornare indietro, non lo so se funziona, però: qui sfasciano tutto."
Aveva ancora in bocca la gomma americana, le sue guance si muovevano con foga.
Con la mano si riparò la vista dal sole.
I suoi occhi, che allo scoperto si rivelavano di un grigio pallido, mi percorsero fulminei.
La fede al dito, la cravatta forse la rassicurarono,anche se non aveva l'aria di una che temesse gli estranei.
"Può telefonare da me se vuole, sto qui dietro" e allungò il collo verso un luogo imprecisato sull'altro lato della strada.
Attraversò senza guardare.
La seguii lungo una discesa sterrata, dentro un dedalo di fabbricati sempre più spettrali, fino a un palazzo ancora in costruzione ma già occupato.
Travi di metallo nude dove avrebbero dovuto posarsi terrazzi, aperture spalancate nel vuoto, tappate con le reti da letto rovesciate.
"Prendiamo la scorciatoia" disse.
Camminavamo tra i piloni di cemento di quello che sembrava un immenso garage abbandonato, e finalmente il sole di lasciava in pace.
Poi ci infilammo in un androne buio infestato di scritte spray, dove stagnava un puzzo da vespasiano insieme a un vento di frittura che arrivava da chissà dove.
L'ascensore era spalancato, dai pulsanti scoperchiati si vedevano i fili.
"Saliamo a piedi."
La seguii lungo le rampre di una scala attraversata da grida improvvise, lampi di vite infernali e di televisori accesi.
Sui gradini luridi erano sparse siringhe usate che lei oltrepassava con i piedi nudi nei sandali senza farci caso.
Volevo tornare indietro, Angela, mi voltavo a ogni rumore, temendo di veder saltare fuori qualcuno, pronto a rapinarmi, a uccidermi forse, un complice di quella donna volgare che avanza davanti a me.
A tratti il suo odore mi raggiiungeva, come il tonfo della sua borsa che sbatteva sui gradini impolverandosi, un miscuglio caldo di cosmetici che si scioglievano e sudore.
Sentii il fruscio della sua voce: "Fa schifo, ma si fa prima", come se avesse indovinato i miei timori.
Era una voce con una lieve inflessione meridionale, cadeva cupa su certe sillabe, e altre le abortiva, se le lasciava smorzare in gola.
Si fermò una rampa più in su.
Si diresse rapida nel terriccio di quel piano verso una porta metallica.
Infilò la punta delle dita nel buco dove mancava la serratura e tirò il pesante battente verso di sé.
La luce mi arrivò in faccia così violenta che dovetti ripararmi con un braccio: il sole sembrava velocissimo.
"Venga" disse, e vidi il suo corpo inabissarsi.
E' pazza, sto seguendo un'inferma di mente, mi ha rimorchiato in quel bar solo per farmi assistere al suo suicidio.
Mi affacciai su una scala esterna, di sicurezza, una spirale ripida di ferro.
Lei scendeva senza paura, dall'alto vedevo la ricrescita nera dei suoi capelli gialli.
Adesso sembrava incredibilmente agile sui tacchi, come un bambino, come un gatto.
Mi avventurai nel giro di quella scala incerta, stretto al corrimano di tubi e bulloni arrugginiti.
La giacca mi si impigliò, tirai e sentii la stoffa che si strappava.
Un rombo improvviso mi aveva raggiunto.
Davanti ai miei occhi, vicinissimo, c'era un grande viadotto.
Oltre il guardrail le macchine sfrecciavano veloci.
Non riuscivo più a capire dove fossimo, mi guardai intorno.
La ragazza era alle mie spalle, già abbastanza distante, si era fermata su uno spiazzo sterrato.
I capelli gialli, il volto pesto di trucco, la borsa multicolore: sembrava un pagliaccio scordato da un circo.

 
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