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Post N° 24

Post n°24 pubblicato il 10 Agosto 2005 da unaqualunque_s
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Sai, tesoro, non entro per pudore.
Perchè se te ne andrai non voglio aver sorvegliato gli ultimi colpi della tua vita in circostanze indecenti.
Voglio ricordarti come un padre, voglio non aver veduto il tuo cervello pulsante nudo, voglio ricordare i tuoi capelli.
Quei capelli che ho carezzato di notte chinato sul tuo piccolo viso stretto nel broncio del sonno, mentre nascevano tanti pensieri per te.
Uno era il giorno del tuo matrimonio, ho immaginato il tuo braccio chiaro sulla mia manica scura, quella passeggiata in fondo alla quale ti avrei consegnato a un altro.
Sono ridicolo, lo so.
Ma la verità degli uomini è spesso ridicola.
Qui fuori c'è silenzio, c'è silenzio su queste sedie vuote davanti a me, c'è silenzio sul pavimento.
Qui fuori potrei pregare, potrei chiedere a Dio di entrare nelle mani di Alfredo e di salvarti.
Solo una volta l'ho pregato, molto tempo fa, quando ho capito che non ce l'avrei fatta e non potevo arrendermi.
Ho alzato le mani imbrattate verso il cielo, e ho intimato a Dio di aiutarmi perchè se la creatura che avevo sotto i ferri moriva, con lei sarebbero morti gli alberi, i cani, i fiumi, e persino gli angeli.
E tutto quello che di creato c'è.
Li ho visti in ritardo, quando già non potevo sottrarmi.
Li ho visti quando ho avuto paura.
A metà del corridoio, poco prima della radiologia.
Due poliziotti accanto a una porta, braccia grigie sulla divisa, pistole nel cuoio.
Ascoltano un terzo, vestito in borghese, che parla a bassa voce, muovendo appena le labbra, scure come se avesse succhiato liquirizia.
Sposta le pupille verso di me, quasi prendendo la mira, due sfere di materia vitrea che mi saltano addosso nel vuoto estivo dell'ospedale.
L'uomo mi guarda, e anche uno dei poloziotti adesso si volta verso di me.
L'ascensore è oltre le loro spalle, un pò più giù, sull'altro lato.
I miei passi continuano, svuotati come quelli di una marionetta.
E' passata una settimana dalla nefandezza di quel pomeriggio, da quell'alcol bevuto digiuno.
Non conservo memoria certa dei fatti, tutto si era svolto attraverso una parete di colla.
Ma lei no, lei non doveva aver dimenticato.
L'avevo lasciata contro quel muro, un nodo di membra sconfitte nell'ombra.
Usata e lasciata come un preservativo.
Forse era al di là di quella porta celata dal dorso dei poloziotti.
Se l'erano portata dietro per il riconoscimento.
Adesso, che ero quasi accanto a quel disgustoso individuo olivastro, lei sarebbe uscita allo scoperto.
Senza viso, bassa, con la sua cesta di rafia in testa, avrebbe allungato il braccio verso di me: è lui, prendetelo.
La sua zampa di blatta aveva attraversato la periferia, risalito i quartieri buoni, e mi aveva raggiunto.
Mi avrebbero fermato, come si fa nei luoghi pubblici per non creare panico, con una stretta salda sul braccio, e la voce calma.
La prego di seguirci.
Invece, Angela, nessuno mi sfiorò.
Il dito sul pulsante rosso, aspettavo che si aprisse l'ascensore.
Loro erano ancora lì, immobili, non li guardavo ma li vedevo, tre sagome scure nella sezione laterale di un occhio.
Entravo in ascensore e non ero più io.
La camicia incollata alla schiena, sorrisi a una donna e a un bambino che salivano insieme a me: "Prego" come un animale scimunito.
Non ho fatto niente io, signora, vede?
Sono un uomo gentile, glielo dica lei a quei brutti tipi lì sotto.
Intanto i piani andavano intorno a quella scatola di latta argentata.

 
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