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Post N° 45

Post n°45 pubblicato il 23 Ottobre 2005 da unaqualunque_s

Il mio membro era già piccolissimo, ingoiato dentro le cosce.
Vano come quello di un bambino.
Mi guardò, la resina dentro i suoi occhi si era fatta più spessa.
Ora aspettavo che mi chiedesse qualcosa.
Mi passò una mano sulla faccia per strapazzarmi, per disturbare quel mio sguardo bisognoso fisso nel suo.
No, non aveva nessuna voglia di complicarsi quel momento di abbandono.
Di lì a poco si addormentò.
Rimasi a fissare il soffitto di legno, senza rimpianti.
Avevo condotto mia moglie oltre le rapide dei miei fantasmi, fino alla sponda di rena calda dove si era sciolto il suo piacere.
Ora lei riposava, sarei andato a camminare lungo la strada di roccia.
L'indomani, in una mattina di cristallo, entreremo insieme in un negozio con una piccola donna davanti a un grande telaio.
Tua madre sceglierà i fili viola e porpora per la sua sciarpa, li vedrà avvolgersi sul subbio di legno.
La porterà per tutta la vacanza, la guarderà nella luce, e nella notte, per vedere come cambiano i colori.
Navigherà nella nostra vita quella sciarpa, scordata, ripresa, finchè un giorno, Angela, finirà intorno al tuo collo, s'infitterà del tuo odore.
Al rientro, quando scendemmo dall'aereo, ritrovammo quell'aria infuocata.
Elsa posò la valigia, s'infilò il costume e nuotò verso Raffaella.
In quei giorni cruciali di agosto, il paese si popolava senza criterio in maniera convulsa, e tutti, anche il nostro alimentarista, o il giornalaio, perdevano un pò della loro cortesia.
Solo un bar rimaneva quasi spopolato, una baracca con un tetto di iuta e pochi tavoli sparsi sulla sabbia.
Era attaccato alla foce, dove il mare puzzava e per questa ragione la spiaggia era deserta dai bagnanti.
Il proprietario si faceva chiamare Gae, un vecchio ragazzo con un corpo da Cristo coperto solo di un pareo stinto.
Era stata una scoperta casuale di quell'estate durante una passeggiata fino alla foce.
Non c'era altro che un cantiere di rimessaggio per le barche, con due polacchi sudici che smontavano i motori, poi la spiaggia finiva.
Elsa aveva trovato quella baracca deprimente e poco pulita.
Io le avevo dato ragione, ma poi avevo preso l'abitudine di spingermi laggiù quasi ogni giorno.
Al mattino prendevo un caffè e leggevo il giornale.
Al tramonto Gae si scapricciava nella preparazione di aperitivi densi e alcolici, che dopo pochi sorsi ti lasciavano stordito.
La compagnia era modesta, i polacchi si ubriacavano, parlavano a voce alta, Gae si sedeva al mio tavolo e mi offriva uno spinello che io rifiutavo.
Eppure mi piaceva quel posto.
Lì il mare, forse a causa del fondo algoso, acquistava dei riverberi diversi.
Un pomeriggio mi trovai circondato da una colonia di handicappati che, con l'aiuto di grucce o spinti in sedia a rotelle, sbucarono sulla spiaggia lasciando sulla sabbia i solchi del loro passaggio faticoso.
Occuparono i pochi tavoli del baretto e ordinarono delle bibite.
Uno degli accompagnatori cavò fuori dal una sacca una radio, e nel giro di pochi minuti si diffuse nell'aria un sapore di sagra paesana.
Una donna anziana con una faccia da oppossum e le spalle grassocce scottate dal sole si mise a ballare sulla sabbia.
Provai un senso di disagio, mi alzai e mi diressi verso la baracca per pagare la consumazione e andarmene.
Ma poi il mio sguardo corse su un ragazzo con un viso ebete, le braccia magrissime irrigidite in uno spasmo, le dita allargate a rastrello.
Muoveva il capo al ritmo della musica per quanto gli riusciva, e intanto guardava una compagna in carrozzella che gli sorrideva con denti aguzzi e isolati come quelli di un pesce.
La ragazza aveva nel viso il segno di una vita ottusa che procedeva adagio, e sui lobi due orecchini di plastica.
Ricambiava lo sguardo dello spastico in un modo che mi tolse il fiato.
Non badava alla sue movenze strappate, lo guardava negli occhi.
Lo amava, semplicemente lo amava.
Dovevo sbrigarmi, il sole era già tramontato, Elsa mi aspettava per la cena, avevo bevuto almeno mezzo bicchiere di uno di quei micidiali aperitivi di Gae, contavo di smaltirlo nella passeggiata di ritorno.
Ma, con il gomito appoggiato al banco e diecimila lire in mano, penso che volentieri lascerei il mio posto nella schiera dei sani per essere guardato così, come quella povera offesa guardava lo spastico, almeno una volta nella mia vita.
Allora, figlia mia, Italia fece un breve ingresso nella mia pancia, l'attraversò come un sommergibile.

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