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Perfidie di Stefano Torossi

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Couture Sculpture

Post n°339 pubblicato il 13 Luglio 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

  13 luglio 2015

   COUTURE SCULPTURE


Azzedine Alaïa, poverino, sarà alto un metro e quaranta, ma quando prende forbici e filo, diventa un gigante. E', come tutti sanno (tranne noi), un famosissimo stilista tunisino, naturalmente trasferitosi, appena gli è riuscito, a Parigi, anche perché a Tunisi, con tutto il rispetto, non crediamo che si possa fare molta strada nella moda.

Bene, il 10 luglio siamo invitati alla Galleria Borghese per il mondanissimo cocktail di presentazione della sua collezione "Couture/Sculpture", Moda/Scultura.

Titolo quanto mai azzeccato perché i suoi abiti, davvero bellissimi, hanno la stessa possibilità di essere indossati da una normale femmina umana che il Cavalier Serpente ha di essere scambiato per il Discobolo di Mirone.

Pura magica perfezione. E' un po' il rapporto che aveva con la realtà la più famosa delle sue clienti: Grace Jones, della quale tutto si poteva dire ma non che fosse umana; un felino nero, elegantissimo e irreale.

Eppure fra il pubblico giravano un paio di modelle (robot non umani?) magicamente e perfettamente infilate in questi capi. I quali, e qui bisogna dare ragione al titolo della collezione, si armonizzavano perfettamente con le sculture (vere) dell'altra collezione: quella di Casa Borghese.

L'evento è risultato un cocktail fatto di due ingredienti. Gli elementi non umani: i vestiti, i quadri e le statue romane e barocche accumulati nelle sale con la frenesia di collezionisti bulimici, come evidentemente erano stati i vari membri della famiglia Borghese (e bisogna dire che reggere il confronto con le madonne di Caravaggio o le Proserpine di Bernini non è davvero facile, eppure gli abiti non sfiguravano, anzi). E poi, scendendo invece un po' più verso terra, tutto il pittoresco sciame gay della moda, rappresentanti della nobiltà romana (coté frivolo), e naturalmente un agguerrito battaglione di cocorite strizzate nei loro modelli Alaïa opportunamente slargati qua e là, e irrimediabilmente invereconde per le bocche canottate, gli occhi fessurati, gli zigomi antigravità.

Pericolosa offerta, su e giù per lo scalone d'ingresso, di fragole e champagne, una mistura esplosiva in un pomeriggio a quaranta gradi.

Ma siamo sopravvissuti e, anzi, abbiamo approfittato della circostanza per ripassarci gli infiniti capolavori radunati sui piedistalli e appesi alle pareti. Il risultato, come dicevamo prima, di secoli di immutata smania di collezionismo, senza dubbio corroborata dal fatto che i nobili Borghese avevano un sacco di terreni in cui scavare e recuperare, un sacco di quattrini per comprare i pezzi migliori, e di sicuro la possibilità di fare le opportune pressioni per costringere graziosamente qualunque poveraccio che non fosse un papa, un principe o un cardinale a mollare un osso appetitoso capitatogli per caso sotto il piccone.

Nientedimeno che alla Sala Casella della Filarmonica Romana l'amico pianista e compositore Antonio Di Pofi, insieme al Quartetto d'archi Pessoa, ci ha invitati sabato 11 a un programma di rivisitazione dei brani più famosi dei Beatles, da lui arrangiati per la succitata inconsueta formazione.

Anche in questa occasione abbiamo verificato per l'ennesima volta un fatto: i loro temi sono talmente belli che funzionano in qualsiasi salsa. In questo caso poi, la salsa era particolarmente delicata e usata con parsimonia, quindi nessuno stupore.

La sala è bassa e stretta. Saggiamente il quartetto è sceso dal palco e si è piazzato insieme al pianoforte contro la parete lunga creando un informale salotto con tutto il pubblico seduto intorno. Una disposizione da musica da camera a corte, diremmo, con il maestro concertatore che garbatamente presentava, anche con qualche inedito aneddoto, ognuno dei notissimi brani.

Pubblico stranamente misto. In gran parte noi dell'epoca, ex figli dei fiori settantenni o giù di lì; e un buon numero di ragazzi e bambini che conoscevano perfettamente il repertorio, tanto è vero che alla fine hanno cantato intonati e quadrati "Hey Jude".

Bella serata e buona esecuzione. Così potrebbe finire la nostra recensione.

Invece no. Perché noi c'eravamo, all'epoca, e nulla meglio della musica riesce a far rivivere i ricordi. Belli, malinconici ricordi. Ricordi di un'epoca che, ovvio, straovvio, non ritorna.

Che cosa avevamo di diverso cinquant'anni fa? Beh, intanto cinquant'anni (di meno). Poi avevamo i Beatles che allora erano una novità, non un capitolo di storia della musica come adesso. Avevamo tanto altro: ancora poche delusioni, il tempo per fare programmi a lungo termine, un futuro sul quale proiettare i nostri ideali; avevamo ottima salute, potevamo andare a dormire alle cinque del mattino dopo un pacchetto di sigarette e tre o quattro whisky e svegliarci come boccioli di rosa. Portavamo vestiti variopinti e frequentavamo ragazze simpatiche.

E i capelli? Lunghi, tanti. Ricrescevano furiosamente insieme a baffi e barbe.

Beh, non lamentiamoci troppo. Siamo ancora qui, anche se con un programma esistenziale assai meno articolato. Certo, la parte divertente è diventata minoritaria, ma siamo ancora qui.

D'altra parte l'alternativa non ci sembra un gran che allettante.



                                          



 

 
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Il ruspante

Post n°338 pubblicato il 06 Luglio 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

6 luglio 2015

 IL RUSPANTE


Vostro Onore, lo confessiamo: al concerto ci siamo andati con in testa i peggiori preconcetti contro questo signore, che sappiamo padrone della voce, ma parlata, non cantata. In più il tipo si presenta un po' troppo ruspante. Un sapore forte per il nostro inguaribile snobismo. Ecco come è andata.

La lochèscion (ruspante, abbiamo detto, no?) è gradevole: uno dei grandi cortili dell'ex mattatoio, di cui molto abbiamo parlato ultimamente, fresco e circondato da buoni stand di cibo e bevande. L'ora, ancora meglio: fra le nove e mezza e le dieci; si parcheggia con calma. Il programma di "Io vendo le emozioni" annuncia canzoni originali, qualche cover e un ospite: Enrico Ruggeri.

Dunque, per onestà diciamo subito che siamo rimasti stupiti dalla qualità del gruppo musicale, che forse un po' ci aspettavamo, e dalla invece inaspettata musicalità del protagonista: quadratura impeccabile, padronanza degli attacchi e, naturalmente (è la sua arma professionale) della voce. Per questo capo di imputazione chiediamo lo stralcio.

La quale voce, però, probabilmente gli da troppa sicurezza, e a volte, nel registro basso che forse vorrebbe ricordare un Barry White de noantri, esce piuttosto come un rutto (d'accordo, intonato).

Discutibile è invece la presenza in scena. Forse per scarsa esperienza, timidezza, o magari per una furbesca scelta di rappresentare il personaggio semplice e sprovveduto, si abbandona a eccessi di fisicità, che se lo avesse visto Sinatra (o, senza andare troppo lontano, anche Dorelli...) Beve acqua a garganella, si agita, parla con i tecnici, si toglie e rimette gli occhiali, sfoglia il suo brogliaccio, suda e si asciuga continuamente faccia, collo, nuca, testa con un enorme accappatoio (bianco, quindi visibilissimo).

Forse per far simpatia al pubblico, in coppia con la moglie, che lo chiama Frenk, si butta in una cover casareccia del mitico "Parole parole" (Mina e Alberto Lupo). Seguita da una melensa canzone da papà amoroso dedicata al figlioletto che dovrebbe essere fra il pubblico e che lui saluta alla voce (applausi frenetici dalle mamme presenti). Poi una conversazione bamboleggiante con la chitarra elettrica che gli fa il verso. E per chiudere, un omaggio con imitazione vocale alla buonanima di Manfredi in "Tanto pe' cantà".

Per quest'altra imputazione chiediamo un periodo di rieducazione forzata.

Un peccato, Vostro Onore, perché in fondo, per non essere un professionista del ramo, non è neanche male, e i suoi forse sconsiderati, certo audaci tentativi di cantare Jannacci, Gaber o De Gregori meritano, se non proprio il nostro sostegno, almeno l'indulgenza della corte.

Per noi il concerto finisce quando Francesco Pannofino (sì, è proprio lui), dopo aver invitato sul palco Ruggeri, ci annuncia che si assenterà il tempo necessario per cambiarsi la camicia, che "è proprio zuppa".

Anche noi ci assentiamo. Definitivamente.


Apprendiamo con vivo stupore dalla stampa:

che nei prossimi giorni, siccome farà molto caldo, tutti, ma in particolar modo anziani e bambini, dovranno mangiare leggero, bere molta acqua e poco vino, dovranno stare possibilmente in ambienti freschi (suggeriti i supermercati, ignorate le chiese), non sedersi al sole per ore e soprattutto vestirsi leggeri.

Una bella delusione per chi aveva in programma di mettersi un loden pesante e scendere alla trattoria tirolese dietro l'angolo per un piattone di polenta e gulasch e un gagliardo fiasco di Chianti. 

Certo, senza i giornali non sapremmo davvero come cavarcela.


Apprendiamo, stavolta con vivo piacere, sempre dalla stampa:

che il Teatro dell'Opera ha chiuso il 2014 con un attivo di quasi 5.000 (cinquemila) Euro rispetto a un passivo dell'anno precedente di dodici milioni. Naturalmente la cifra fa ridere, ma suggerisce un pensiero: non è vero che certi enti sono sempre pozzi dove sparisce il denaro pubblico. Dipende dai cialtroni a cui sono affidati, che non sanno fare il loro presunto mestiere di amministratori.

Insomma, come sosteniamo da sempre, conta l'uomo e non la struttura. Il mago è, diciamolo perché lo merita, il sovrintendente Fuortes, che già aveva fatto veri miracoli al Parco della Musica.


Una Top Ten gastromusicale:

Avere una trattoria con i tavoli all'aperto sotto le finestre di casa è un dubbio piacere ma una indubbia comodità. E in più ci offre la possibilità di compilare, basandoci su una media di almeno tre esecuzioni a pranzo e molte di più la sera, e con formazioni diverse: clarinetto solista, sax, chitarra e canto, trio di fisarmoniche, eccetera, una affidabilissima top ten dei brani di successo presso i posteggiatori romani.

Ecco la hit parade. 1°: "My way", bel tema di Paul Anka, che vorremmo aver scritto noi, ma diventatoci odioso per l'indigestione. 2° e 3°: gli inevitabili "Torna a Sorrento" e "O sole mio" (siamo in Italia e i turisti li pretendono). 4°: "Quando quando" (ci scuserà l'amico Tony Renis se ogni volta che lo sentiamo gli mandiamo un accidente). 5°: "Il padrino" (Nino Rota, pace all'anima sua). Sorprendentemente "Arrivederci Roma" sta in coda insieme agli altri.

E non ci si può sbagliare a fare i conti, perché ogni posteggiatore esegue i brani secondo la sua scaletta fissa, con gli errori, sempre gli stessi, ripetuti anche loro con implacabile regolarità e protervia.


                                           

 

 
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Ferrari Cavalcade

Post n°337 pubblicato il 28 Giugno 2015 da torossis

 

 

   

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

29 giugno 2015

  FERRARI CAVALCADE


Per andare a ritirare una raccomandata in giacenza si passa dalle parti del Mausoleo di Augusto. Il 25, giovedì, mentre eravamo diretti appunto alla Posta Centrale, siamo stati colpiti da una visione irreale. Almeno un centinaio di scintillanti, colorate, sgargianti Ferrari erano parcheggiate tutto intorno alla fossa (chiusa da anni da una cancellata, che neanche Guantanamo) ormai fangosa e maleodorante in cui è immerso come un Titanic colpito e affondato, ma ancora coronato di cipressi e oleandri, uno dei più insigni monumenti di Roma, la tomba di Augusto, il suo mausoleo, l'Augusteo insomma.

Non si può fare a meno di notare sbirciando attraverso i ferri della suddetta cancellata la palude da cui emergono i muraglioni romani, piena di canne, potenziale nascondiglio forse di coccodrilli e piranha, certo di ranocchi e libellule. E zanzare. Neanche terzo mondo, qui ci troviamo in un ambiente selvaggio da documentario del National Geographic.

Possedere una Ferrari è senza dubbio un indicatore. Di successo economico, certo; di gusto, non sappiamo. Ma nello stesso tempo, secondo noi, è una gran seccatura: come avere un Van Gogh appeso in salotto, o dei bei vasi etruschi rimediati da qualche ambiguo mercante. C'è da preoccuparsi dei ladri che ti entrano in casa, dei carabinieri che cercano di recuperare i reperti, degli scemi che ti rigano l'auto, o dei maldestri che te la abbozzano in parcheggio. Anche della cacca di un piccione, notoriamente corrosiva. Insomma, una vita d'inferno.

Un'idea ce l'avremmo: ognuna di quelle Ferrari, quasi tutte modelli unici o comunque vintage varrà come minimo trecentomila euro. Sono cento macchine. Totale trenta milioni. Basterebbe un dieci per cento per ripulire, restaurare, rendere decentemente frequentabile il rudere imperiale. Ma chi e come glielo chiede ai proprietari? Non funziona così, vero?

The Beatles, ovvero c'ero anche io all'Adriano.

Il 26 e il 27 alla Discoteca di Stato (che adesso si chiama ICBSA, Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi. Chissà perché burocratizzare cambiando il vecchio nome che andava così bene?) Gianfranco Migliaccio ha organizzato una due giorni nostalgica del "c'ero anche io" ai concerti che i Beatles tennero a Roma. Inevitabilmente una riunione di reduci: basta un veloce calcolo. Dal '75 sono cinquant'anni; chi c'era ne aveva più o meno venti, quindi in platea (e anche sul palco) eravamo tutti almeno settantenni, spesso ultra.

Un paio di cover band opportunamente abbigliate e imparruccate hanno suonato come tutte le cover band che si rispettino: impeccabilmente e senza permettersi sghiribizzi. Bene, ma sempre cover, e in più, se lo strumentale è inappuntabile, non lo è altrettanto la pronuncia dei testi. Ma, in mancanza dell'originale...

C'è stata la sfilata dei testimoni: belle ragazze del Piper, poi in carriera artistica, come Mita Medici, giornalisti che con vari incarichi avevano seguito la faccenda e l'hanno raccontata a immagine e somiglianza del loro carattere.

Fabrizio Zampa sdrammatizzando con gustosi aneddoti; Claudio Scarpa in bilico tra il fan e lo storico musicale; Adriano Mazzoletti, miniera di infinite informazioni, e capace di ricordare giorno, ora e luogo di tutto quello che racconta; Dario Salvatori con il piglio sicuro del conduttore di professione, ma anche con l'autoironia che gli sprizza da tutti i pori (e anche dai capi di abbigliamento).

Ci teniamo per ultimo Gianni Bisiach, il quale dopo essere stato tutto il tempo ad aspettare, sornione come un gatto in agguato, appena arrivato il suo momento è scattato.

Chi non lo ha mai ascoltato non può rendersi conto dell'implacabile macinare dei suoi racconti. Comincia da vent'anni prima, divaga su ogni nome, parentela, collegamento; divaga sulle divagazioni, salta da un argomento all'altro, ma ritrova sempre il filo. E non lo molla.

Dopo alcuni minuti di micidiale logorrea di questo inarrestabile novantenne abbiamo notato la appena accennata insofferenza del conduttore e degli altri ospiti trasformarsi man mano in una specie di allarmata preoccupazione. E poi arrivati alla mezz'ora diventare vera e propria disperazione, finché la battuta di un coraggioso: "Gianni, ti stacchiamo la batteria!" ha bloccato l'incontinente.

Danilo Rea al piano ha commentato nel suo modo elegante, giocando con i temi dei Beatles, alcuni quasi invisibili filmati muti e in bianco e nero dei concerti. Più che immagini, ectoplasmi.

Era ora di pranzo quando siamo usciti nel sole e nel benedetto vuoto dei sabati romani d'estate. Tutti al mare, e noi in città, finalmente soli!



                                      

 

 
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La Pelanda (e altri fatti)

Post n°336 pubblicato il 23 Giugno 2015 da torossis

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

      22 giugno 2015

    LA PELANDA (E ALTRI FATTI)



Nel 1888 l'architetto Ersoch costruisce un moderno mattatoio in uno spazio immenso ai piedi del Monte Testaccio, antica discarica romana dove nei secoli si erano ammucchiati fino a un'altezza di sessanta metri i cocci delle anfore che servivano per trasportare a Roma l'olio iberico. Una volta svuotate, inservibili per altri usi, le rompevano e le scaricavano (già allora c'erano i vuoti a perdere) in quel prato che poco alla volta era diventato una collina.

Il mattatoio continuò nella sua funzione fino al 1975 quando, dismesso, degenerò in una serie di capannoni e cortili fatiscenti; poi, poco alla volta le belle strutture in mattoni, ferro e ghisa vennero recuperate e riutilizzate per la cultura.

Della vecchia destinazione non era rimasto più niente, se non un vago odore di stallatico e i nomi di alcuni padiglioni: lo Stabilimento di Mattazione, il Mercato del Bestiame, il Macello dei Capretti, la Tripperia e, arriviamo a noi, la Pelanda, sulla cui funzione non ci pare necessaria aggiungere spiegazioni.

In questo spazio di archeologia industriale, con ancora sospesi in aria i binari di ferro su cui scorrevano attaccate a ganci le carcasse del bestiame dirette alle vasche per essere scottate e poi scuoiate, si è inaugurata qualche giorno fa una mostra di disegni di Sergio Staino. Noi c'eravamo e bisogna dire che un po' per l'ottimo restauro, un po' per la presenza di gigantografie multicolori, quello che in origine doveva essere un ambiente macabro e sanguinolento si era trasformato in una bella fiera colorata. Presenti molti amici dell'epoca. Aria nostalgicamente sessantottina, o appena post. Una specie di rimpatriata poco politica e molto personale e umana. Divertente.

Leggiamo sui giornali che nei giorni scorsi il gioco si è rinnovato con concerti di vari gruppi musicali, per concludere mercoledì 17 con l'esibizione di una piccola formazione: Michele Staino (il figlio), al contrabbasso, Cantini alla tromba, Mocato al piano e Coscia alla fisarmonica. Sergio Staino (il padre) a fare gli onori di casa. Ci è dispiaciuto non esserci, ma avevamo altro da fare.



E precisamente puntare verso Macerata dove ci aspettava:

Il Festival di Musicultura.

Un'occasione annuale che non perdiamo, cadesse il mondo. E' un festival di musica e di poesia ad alto livello, che a ogni edizione trova il modo di laureare qualche artista nuovo e speciale. L'organizzazione è amichevole e impeccabile, e l'ambientazione fa sì che oltre che ai concerti e alle presentazioni ci si incontri continuamente in giro per le tre strade, le tre piazze, i bar e le trattorie della piccola città. Un salotto colto, mondano e informale.

Ormai che frequentiamo il festival da parecchio e lo abbiamo collocato bene in alto nella nostra stima, ci è stato facile compilare una lista delle Costanti che ritroviamo anno dopo anno. Eccole.

La Costante meteo. Almeno una delle tre serate allo Sferisterio, che si trova, come tutti sanno, all'aperto, è funestata dalla calata dei venti glaciali del Polo Nord. Non si capisce perché, mentre il giorno si suda sotto il sole, la sera queste brezze gelate debbano convergere con assoluta precisione su Macerata. Abiti scollati per le signore, camiciole per i gentlemen a inizio spettacolo, poi poco alla volta spuntano sciarpe, maglioni, eskimo imbottiti e addirittura coperte, finché il pubblico elegante dell'inizio si trasforma in una divisione di alpini alle grandi manovre.

La Costante sicurezza. Fabrizio Frizzi, presente a presentare da tempo immemorabile. Garbato, rassicurante, educato, misurato: nello stesso tempo fanciullesco e padronissimo della scena. Quello di cui nessuna festa può fare a meno: l'amico Frizzi.

La Costante noia. Quest'anno la faccenda ha superato ogni aspettativa. Quasi quaranta minuti di Capossela in tenuta da rabbino. Una tortura gravemente lesiva dei diritti dello spettatore. Letture bisbigliate di sue pagine demenziali, seguite da cantatine indefinibili, altrettanto bisbigliate e altrettanto insulse. Qualcuno dovrebbe dirgli che se ci se la tira troppo, poi si rompe. Impressione (nostra) di una certa malcelata insolenza nei confronti degli spettatori. Da parte loro (gli spettatori), applausi scroscianti. Mah.

La Costante sorpresa. Xiao He, un cinese molto suggestivo che ha suonato strano, e cantato ancora di più, con vocalizzi di profondità abissale e fischi glottici. E poi, nella migliore tradizione occidentale, lo Gnu Quartet, tre archi e un flauto. Finalmente niente batteria, né chitarre elettriche. Un suono classico, impressionistico e ricco nelle armonie inizio novecento, ma anche swingarolo e jazzistico della migliore qualità. Secondo la nostra vecchia fissazione un gruppo così dovrebbe onorare l'alto livella della propria musica suonando in frak. Invece, salvando la flautista, carina ed elegante in lungo, gli altri tre, che non sono particolarmente carini né eleganti, niente da fare: magliette e jeans sformati (eppure su quelle teste abbiamo visto parecchi capelli grigi che dovrebbero sconsigliare troppa disinvoltura giovanilistica). Anche qui, mah?

E per concludere, la Costante imbarazzo. Che prende noi che arriviamo in questa piccola Macerata, che di cose belle ne ha, ma sono niente rispetto a Roma che ne è piena. E l'imbarazzo è nel vedere che qui i cassonetti non traboccano di immondezza, che le strade sono pulite, che in terra le cicche sono pochissime (qualcuna ce n'è, non siamo mica in Svizzera), che le auto sono parcheggiate bene, ecc. ecc. Insomma che è tutto normale, come dovrebbe essere. E invece da noi...

Segnaliamo, come riflessione, una vena di sadismo nei confronti dei cantanti da parte di chi ha scelto la sigla di apertura e chiusura. Sinatra, la sua voce di assoluta perfezione, e "The lady is a tramp" in uno di quei favolosi arrangiamenti dell'epoca (Nelson Riddle?). Sarà datato, sarà che lo swing non è più di moda, ma è come mettere un pittore appena uscito dall'Accademia davanti al Giudizio Universale di Michelangelo. "E adesso datti da fare". Come si sente?



                                 


 

 
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In mutande

Post n°335 pubblicato il 15 Giugno 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

Perfidie di Stefano Torossi

15 giugno 2015

IN MUTANDE


Archeo inferno. Malgrado tutta la prosopopea del nostro passato imperiale di SPQR, della Veneziana Serenissima Repubblica, dei Magnifici Medici Toscani, del Primato Spirituale del Papato, di Leonardo, Michelangelo, Bernini, eccoci qua, noi italiani eredi di tanta gloria: in mutande.

Ce lo ha confermato un tristissimo "tour del brutto" che abbiamo seguito domenica 14, sotto la guida di Mario Tozzi, commissario del Parco dell'Appia Antica, e Roberto Ippolito, giornalista, nell'archeo inferno della Via Appia. Domenica, abbiamo detto. Ci sarebbe un rigoroso divieto di transito, tutti i giorni festivi, dalle 9 alle 18. Naturalmente neanche un vigile in vista, e traffico da terzo mondo, con i poveri turisti, come noi sfiorati da auto e moto a tutta velocità, perfino ambulanze a sirena spiegata sui sampietrini sconnessi e rumorosi.

E' ovvio che non possiamo aspettarci pecore, pastorelli e la romantica solitudine della campagna romana dei secoli passati, ma non sembra giusto né intelligente trovarci addosso, nello spazio di neanche un miglio un'autocarrozzeria, un deposito di carburante, due orridi viadotti, uno ferroviario, l'altro automobilistico, mucchi di immondezza dappertutto, muri pericolanti o crollati, ristoranti annidiati dentro sepolcri imperiali, proprietà private sotto esproprio da decenni, che rimangono private; e così via sottolineando il disprezzo per elementi che, presi da soli, sarebbero sufficienti per attirare carovane di turisti, figuriamoci tutti insieme.

Alla stupidità di chi dovrebbe rendere fruttuosa questa magnificenza di arte, natura e storia (un capitale che con due colpi di scopa, un dipendente in divisa a sorvegliare il traffico e il buon esempio da mettere sotto gli occhi dei cittadini maleducati, potrebbe diventare un conto in banca sempre in nero per la città) si aggiungono obiettive difficoltà: vere, questa volta. Due soprintendenze, tre comuni, l'onnipresente naso del Vaticano ficcato in mezzo alle mappe, competenze sovrapposte, servitù militari, Comune, Provincia, Regione, e così via burocratizzando quello che con un po' di buon senso potrebbe essere semplicissimo.

In più, e questo ci sembra talmente meschino da poterlo definire quasi criminale, ci è stato raccontato da Tozzi in persona che la soprintendenza archeologica non ha gradito, anzi ha dichiarato che "l'Appia Antica non ha bisogno del tour del brutto".

Come dire che i panni sporchi si lavano in famiglia. Nobile pensiero di tipo mafioso.


In mutande (segue).

Visto che siamo in argomento (mutande e scempiaggini), abbiamo notato che si ricomincia a parlare di olimpiadi a Roma nel 2024. Evidentemente non basta come esempio la bancarotta in cui è precipitata la Grecia a causa delle spese folli per le sue del 2004.

Aggiungiamo a questo pensiero tutti quei bei casi di onestà e correttezza spuntati come fiori dal letamaio dello sport, che ci fanno ben sperare, come cittadini italiani, che i pochi spiccioli che ci rimangono in tasca sarebbero in buonissime mani se affidati a coloro per cui l'unica cosa che conta è la fratellanza e la partecipazione. Mica i soldi.

L'altro giorno passeggiavamo per il Foro Italico, magnifico (lo diciamo sul serio) monumento costruito dal fascismo per celebrare lo sport italiano.

Le strutture sportive, insieme a quelle civili: uffici postali, municipi, città della bonifica, case dei mutilati, università e ospedali sono davvero la dimostrazione che ogni tanto anche i regimi, se sanno scegliere bene i propri uomini, sono capaci di produrre un'architettura coerente, omogenea, moderna; insomma, bella.

Poi, mentre facevamo il giro dello Stadio dei Marmi, alzando gli occhi, ci siamo trovati davanti un campionario quasi infinito dei protagonisti della nostra giornata: uomini in mutande.

Mutande di marmo, di bronzo, di corda, o addirittura inesistenti.

E ci è venuto in mente che questi magnifici omoni, opera di scultori, alcuni più bravi o famosi di altri, ma tutti graditi al regime e quindi conniventi con questo stile imperiale e retorico, è possibile che siano stati usati all'insaputa, appunto, del regime, il quale, assordato dal rumore dei suoi stivali e accecato dallo scintillio delle sue baionette, di nulla si accorgeva, come messaggeri per gli italiani: "Attenti: rischiate di finire in mutande!"

Il che è poi puntualmente accaduto.



                                                      

 

 
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Invidia

Post n°334 pubblicato il 07 Giugno 2015 da torossis

 

 IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

8 giugno 2015

 INVIDIA



Proprio così, l'invidia è stata il primo inconfessabile sentimento che ci è montato nella strozza quando, giovedì 4, siamo approdati sulla terrazza della Fondazione Scelsi a Via San Teodoro. E non è difficile capire perché. Quello che appare nelle foto è solo metà del panorama che si vede da lassù. A sinistra, niente di meno che il tempio di Antonino e Faustina, quello dei Dioscuri, quello di Romolo e la Basilica di Massenzio. A destra, niente di meno che la chiesa di San Teodoro e la rupe del Palatino, con mura dirute e cipressi. L'altra metà del panorama è dietro le nostre spalle, e comprende, sempre niente di meno che, il Campidoglio, l'Altare della Patria, e poi il Foro e la colonna di Traiano, l'arco di Settimio Severo, tetti, cupole, campanili, terrazze fiorite e rondini in volo.

Da schiattare, perché, per di più, il sole tramonta nel quadrante giusto e così facendo illumina di quella speciale luce dorata di Roma i monumenti. E il relatore.

Eccolo: Giancarlo Schiaffini, esimio compositore, trombonista e tubista, da sempre compromesso con la Musica Contemporanea. Ci aspettava per parlarci di "Improvvisazione per scrivere, scrivere per improvvisare, improvvisare per improvvisare". L'uomo è un paradossale (come si può facilmente dedurre dal titolo dell'incontro), garbato e interessante affabulatore. Ci ha tenuti incatenati alle sedie per quasi due ore, con l'aiuto del panorama, certo, ma anche di quella che Alessandra Carlotta Pellegrini, direttrice della Fondazione, ha definito presentandolo, la sua capacità di "snocciolare con semplicità tutta la sua conoscenza ed esperienza".

Ci ha offerto un bel ripasso di storia dell'improvvisazione nella musica colta occidentale: dalla pratica sei-settecentesca del basso numerato con il solista al timone di comando, poi decaduta e passata dalla totale libertà di prima all'imbalsamazione di tutto l'ottocento, alla rinascita a inizio novecento nel jazz, e al definitivo riemergere, a metà del secolo, nella Contemporanea.

Da buon maestro ci ha messo in guardia contro la faciloneria degli incompetenti e ci ha ricordato che anche in musica puoi avere grandi idee, ma se non hai la tecnica in mano non farai certo grandi cose. Neanche se improvvisi.

E poi ha imbracciato un euphonium (una specie di basso tuba in formato ridotto) e ci ha suonato "Maknongan" un brano di Giacinto Scelsi, il padrone di casa, da tempo dipartito, a cui la fondazione è intitolata.

Il glorioso tramonto romano, sui cui colori ci siamo già soffermati, avvolgeva il solista abbracciato al suo lucido strumento. Il quale, e non ce ne voglia l'amico Schiaffini, per sua natura (dello strumento, non di Schiaffini), e specialmente come solista (sempre lo strumento), non può che emettere, sotto il soffio dell'esecutore, sonore, talvolta vellutate, magari anche melodiose pernacchie.

Tutto intorno alla terrazza, nel dorato tramonto, volteggiavano sghignazzando i gabbiani.

Anche su questo termine, non fraintendeteci. Il verso del gabbiano, scientificamente chiamato "Larus cachinnans", uccello sghignazzante, non ha evidentemente alcuna connotazione critica. E' nella natura del larus emettere un richiamo che alle nostre orecchie suona come una sghignazzata.

Lui, ne siamo certi, non se ne rende conto. E soprattutto è garantito che non ha alcuna competenza sull'improvvisazione nella musica contemporanea.

A fine esecuzione si è alzato l'immancabile ponentino (altra pregiata esclusiva di Roma), e la fondazione Scelsi, oltre al panorama, di cui non ci stancheremmo mai di parlare, (che nel frattempo si era tinto di lilla, e poi di ombre azzurre) ci ha fatto omaggio di qualche calice di ottimo prosecco ben gelato.

Non volevamo più andarcene.



                               

 

 
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Archeotanatologia

Post n°333 pubblicato il 31 Maggio 2015 da torossis

 

 IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

1 giugno 2015

ARCHEOTANATOLOGIA


Archeotanatologia e tanatoprassi. E poi antropopoiesi e tanatosemiotica: i termini con cui ci hanno bersagliati nell'interessante incontro di studi "Archeologia e antropologia della morte", il 20, 21 e 22 maggio, prima all'École française de Rome, e poi nei sotterranei dello Stadio di Domiziano.

Sappiamo che ciò che non deve mai abbandonarci lungo tutta la vita è proprio il pensiero della morte. E' quello che dà un significato alla vita stessa, che altrimenti sarebbe un insignificante seguito di insignificanti eventi, senza neanche un finale degno della rappresentazione. Poi, per quanto riguarda il dopoteatro, le teorie sono tante. Meglio lasciare che ognuno, da solo, si cerchi l'antidoto alla paura del vuoto.

E quindi, anche perché è opportuno cominciare a prepararci, abbiamo risposto volentieri all'invito, trovandoci il primo giorno in una sala che, per mancanza di condizionamento e per il torrido clima di fuori, era peggio di una fornace infernale (anticipo della punizione eterna?), per sprofondare il giorno successivo, con la sopraggiunta anomala ondata di freddo primaverile, nell'umido gelo dei meandri ipogei dello Stadio, che poi sarebbero le cantine di Piazza Navona.

La morte è l'unica storia che nessuno di noi può raccontare; è un atto biologico che ritrasforma l'essere vivente in materia con un processo che da sempre la cultura tenta di alterare, contrastare, annullare attraverso mille sotterfugi rituali. Il convegno vuole cogliere l'essenza di questa frontiera, spiegare l'insieme dei gesti e delle emozioni che ne accompagnano il passaggio. Tutto questo attraverso testimonianze, spesso esili, di genti preistoriche, storiche, contemporanee, non solo analizzando i rituali cosiddetti normali, ma anche quelli deviati.

Il gran numero di relatori, la maggior parte noiosi, ansiosi o impacciati (con un'eccezione: un professore francese, tal Henri Duday che ci ha intrattenuti per quasi un'ora con funambolismi vocali, gesti e accento alla De Funès pur parlando di cadaveri smarriti, sepolture anomale e simili argomenti tutt'altro che comici, ma efficaci se raccontati comicamente), non stavano al microfono per una disanima filosofica o religiosa del concetto di morte, ma per raccontarci come le popolazioni nordeuropee dell'Età del Bronzo ritenevano di onorare lo spirito dei loro defunti con sacrifici umani, o con quanto amore i mesoamericani precolombiani ricavassero dai femori dei loro cari uno strumento musicale: l'omichicahuaztli. Appunto, testimonianze di archeotanatologia.

Ci siamo divertiti? Anche. Quel ch'è sicuro è che, per quanto scabro e spaventoso il fatto, non è certo facendo le corna che lo si allontana dalla mente. C'è: tanto vale affrontarlo. Come: dipende da noi; di sicuro non tappandoci occhi e orecchie o cercando di spaventare gli spiriti maligni con le raganelle.


Il povero Borromini. A proposito di morte (violenta) e di Piazza Navona (chiesa di S. Agnese in Agone) capita  a fagiolo il nome di Borromini, alla cui memoria e sulla cui tomba in San Giovanni dei Fiorentini, sabato 16, è stato superbamente eseguito dall'ensemble Festina Lente diretto da Michele Gasbarro, l'Officium Defunctorum di Tomàs Luis de Victoria.

Francesco Borromini, coetaneo ed eterno (ed eternamente sfortunato) rivale di Gian Lorenzo Bernini. Quest'ultimo, brillante conversatore, frequentatore di salotti, sacrestie e palazzi, pieno di soldi e di successo, certamente con un carattere capace di adattarsi a seguire i capricci di papi e cardinali, traendone, s'intende, gli opportuni vantaggi. L'altro, rancoroso, scorbutico, perennemente alla rincorsa di commissioni che spesso il rivale gli soffiava; probabilmente antipatico, comunque un rompiscatole, quindi evitato da chi invece avrebbe potuto aprirgli la via del successo.

Alla fine, amareggiato dal suo ruolo di eterno secondo, e in più tormentato da turbe mentali, insonnia e rogne varie pensò bene di infilzarsi con la propria spada e di andarsene all'altro mondo, mentre Gian Lorenzo continuava soavemente a portare a casa onori, fama e quattrini.

Collaborarono, anche, al baldacchino di S. Pietro, per il quale Bernini si prese tutto il merito e quasi tutti i bajocchi, lasciando all'altro le briciole. "Non mi dispiace che abbia hauto li denarii - pare che abbia dichiarato, deluso e deriso il Borromini - ma mi dispiace che goda l'onor delle mie fatiche".

Difficile decidere chi era il più bravo: uno capace di fare "del marmo carne", l'altro architetto audace e innovativo.

Ci guadagniamo noi che abbiamo ereditato da quei due litiganti una città piena di meraviglie.

 

P.S. Sincronismo mancato. Non è strano che la musica sia così in ritardo rispetto alle altre arti? Ci abbiamo pensato ascoltando l'Officium. Sappiamo tutti che Luis de Victoria è decisamente più vicino ai nostri anni di Michelangelo, Leonardo, Raffaello. Eppure la sua arte, comunque magnifica, è arcaica, scrive per strumenti non evoluti: un cornetto, un trombone senza campana, un organo di legno, un violone (naturalmente, più le voci); e anche la composizione è ancora lontana dagli sviluppi trionfali che invece l'architettura, la scultura, la pittura, già saldamente inoltrate nel barocco, hanno raggiunto e addirittura stanno per superare.

E' come se la musica fosse ancora sprofondata nell'infanzia (un'infanzia piena di promesse, d'accordo) mentre il resto del mondo artistico è già più che maturo.

Inspiegabile mancanza di sincronismo.


PPSS. Questi due meravigliosi teschi capelluti e incoronati d'alloro ghignano sulla tomba del Cardinale Imperiale Josephus Renatus nella chiesa di Sant'Agostino a Roma.


 

                                       

 

 
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Traduttori

Post n°332 pubblicato il 24 Maggio 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

    25 maggio 2015

    TRADUTTORI



A parte il gusto discutibile, non si può negare a questa vetrinetta entomologica un suo tono irrispettosamente divertente (osservare con attenzione l'esemplare spillato al centro).

E' uno dei giochetti (arte?) che abbiamo visto esposti alla mostra "I Belgi, barbari e poeti" inaugurata il 14 maggio al MACRO. Ridere, i giochetti fanno ridere, o magari solo sorridere. Stupire, stupiscono (ci sono scheletri che ballano il tango, quarti di bue appesi, inquietanti teste di gufi impagliate). Insomma, se uno non va proprio a cercare l'appagamento estetico, si può accontentare. (Fra le piacevolezze offerte, c'erano all'ingresso due ragazze della Ferrero che porgevano, anche a chi come noi è entrato, uscito, rientrato e riuscito più volte spinto dalla gola, deliziosi cioccolatini).

Poi però, più che sorridere, abbiamo sghignazzato delle didascalie scritte in grande sui muri, in un italiano da peracottari.  Ci corre l'obbligo civile e morale di denunciare i responsabili, traduttori, presumiamo, dal francese. Ecco i nomi, ripresi dal catalogo: Nicole Gesché-Koning e Lorenzo Van Elsen. Complimenti! Se il MACRO si fosse rivolto a un qualsiasi italiano di passaggio a Via Nizza, l'operazione sarebbe riuscita meglio.


"Art" in francese è maschile. "Arte" in italiano, invece no. Lo sanno un po' tutti. Tranne, evidentemente, i Sigg. Gesché-Koning e Van Elsen.




Qui viene fuori la grandeur: "Noi non ci facciamo parlare dietro da nessuno. Nella parola "disagio" basterebbe una sola "g"? E noi ce ne mettiamo due, crepi l'avarizia e vive la France!"



Di fronte a questo ermetico "se tant'è". Siamo rimasti senza parole.

Certo che, per essere una mostra ufficiale, ospitata in un grande museo italiano, un bel quattro meno meno per le prodezze linguistiche se lo meritano.


Il povero Carravagio

Tanto per rimanere in argomento, qualche giorno fa, fendendo eroicamente le transumanze turistiche, spinti dal desiderio di rifarci gli occhi, ci siamo intrufolati nella chiesa di San Luigi dei Francesi che ospita in una cappella defilata uno dei cicli più famosi di Michelangelo Merisi, la Conversione di Matteo.

Sono tre capolavori da cui la chiesa trae giusto orgoglio, tanto che per illuminare il buio vano che li ospita (senza elettricità sono praticamente invisibili), e per trarne anche la giusta mercede, fa pagare un euro per pochi secondi.


Per l'acculturamento dei visitatori hanno piazzato nei pressi tre grandi pannelli (in inglese, francese, italiano) che spiegano la struttura, il significato e la simbologia delle opere.

Purtroppo le traduzioni nella nostra lingua sono anonime, altrimenti sapremmo chi ringraziare per queste perle; tante che a infilarle ci verrebbe fuori un bel girocollo.

Ecco il primo pannello, con il nome del famoso artista scritto in una grafia che possiamo senz'altro definire fantasiosa.


E, nel secondo pannello, il futuro santo che esita a presentarsi con l'altra mano, il dubbio che il personnaggio sia bene quello di Matteo, e la scena che si svolge nell'instante, eh!?


Nel terzo, poi, abbiamo addirittura un nuovo elemento: la finestra a crociata a forma di croce.


Dalla gran folla che ci stava intorno, facile calcolare che ogni giorno questi capolavori letterari finiscono sotto gli occhi di qualche migliaio di persone. Una bella figura davvero.




La biscia striscia. Alla Dante Alighieri, 20 maggio ore 18. Presentazione, nella magnifica Galleria del Primaticcio, di "L'ospedale della lingua italiana - Dove le parole usurpate dalle omologhe americane trovano cura e conforto", libretto di Roberto Nobile.

Nobile iniziativa, scherziamo sul cognome dell'autore, e un testo anche divertente; però si tratta di un altro (il milionesimo?) tentativo di demonizzare l'uso di parole straniere nella nostra lingua.

E' inutile brontolare. La lingua non è una mummia e per rimanere viva (sia quella in bocca, sia quella sulla tastiera, o, per i più stagionati, nel pennino) deve continuare a guizzare come una biscia. Lo ha sempre fatto. E guizzando, inevitabilmente molla la pelle vecchia e mostra quella nuova che, se poi le rimane addosso, vuol dire che è abbastanza elastica e confortevole da durare.

Muffa rimpiangere le vecchie espressioni, snob e sciocco ridere di quelle nuove.

Comunque per fortuna la biscia striscia senza dar retta ai lamenti di nessun saccentone.



                                         

 

 
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Proprio come gli animali

Post n°331 pubblicato il 17 Maggio 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

   18 maggio 2015

PROPRIO COME GLI ANIMALI



Gli straccioni del Medio Evo.

Riflessione generale: tranne qualche caso di risparmio (scoiattoli, criceti) puramente istintivo, tutti gli animali arraffano solo l'osso o la ghianda che gli serve al momento. E poi, visto che non progettano (e soprattutto non hanno il frigorifero), neanche gli passa per la testa l'idea di conservare qualcosa per un futuro vicino o lontano.

Riferimento specifico: siamo nel Medio Evo. Il miserabile Medio Evo degli straccioni affamati di Roma (e d'Europa naturalmente) che più tardi saranno sostituiti da ricchi cardinali, papi o principi, anche loro ladri del passato.

Per ora fermiamoci agli anni bui. Manca tutto, e per di più non c'è nessuna capacità di organizzarsi per produrre e conservare quello che serve, proprio come gli animali.

E allora che si fa? Si va a frugare nella discarica della storia. L'unica cosa a buon mercato è la mano d'opera. A un lavoratore basta mezza pagnotta al giorno. E diventa conveniente (anche criminale, ma questo è un pensiero posteriore) metterlo con mazzuolo e scalpello a violare i mirabili monumenti romani (così ben costruiti che, malgrado gli attacchi dei secoli, molti di loro sono ancora in piedi) per recuperare le staffe di bronzo che tengono insieme i blocchi della muratura .

Proprio come gli animali, senza pensare al futuro distruggono capolavori del passato per arraffare un miserabile pezzo di metallo che serve al presente. E non solo quello. C'è bisogno anche di calce per tirare su le stalle in cui queste bestie vivono con i loro simili, e a portata di mano c'è tutto quel meraviglioso marmo. Basta spaccarlo a mazzate, buttarlo a cuocere in una calcara: capolavori di scultura, lastre, cornicioni, che stupido spreco! ed ecco la miglior calce del mondo. E la più costosa. Non per loro che la materia prima ce l'hanno gratis, ma per noi del futuro che non l'avremo mai più.

Naturalmente, siccome non c'è la tecnologia per salvare, si distrugge indiscriminatamente con lo scopo di recuperare fra le macerie quel poco di riutilizzabile che rimane. Ce lo testimoniano i segni di un disastro progettato, e per qualche fortunata circostanza non avvenuto, nel tempio di Antonino e Faustina al Foro Romano. Le magnifiche colonne monolitiche di cipollino già preparate con le scalpellature dei solchi in cui far passare le corde, attaccarle a un paio di buoi e tirare giù tutto. Con quale terribile, e soprattutto inutile danno, si può immaginare.

Tanto sono templi pagani, non hanno nessun valore; questa furia è autorizzata, addirittura incoraggiata da una religione rozza, egoista, antistorica. L'ISIS del nostro Medio Evo (che per noi fortunatamente è passato; per loro, a quanto pare, ancora no).



Il Martirologio. Per legittimare questa rapina in serie spuntano le leggende dei martiri. Schiere di vergini innocenti ed eroici catecumeni massacrati da feroci imperatori: Diocleziano, Massenzio, Nerone, Domiziano.

S. Stefano Rotondo a Roma. All'interno, tutt'intorno, una quarantina di colonne unite da un muro. E su questo muro c'è un gustoso campionario di fantasiosa macelleria a uso della Chiesa per l'edificazione dei semplici: il Martirologio.

Si tratta di una serie di affreschi attribuiti al Pomarancio che raccontano, con viva attenzione al macabro dettaglio, le più ingegnose torture che quei cattivoni dei romani infliggevano (e allora ci si può ben vendicare, no?) ai poveri cristiani.

A ogni quadro sono abbinate didascalie in cui al fedele che non avesse capito bene il senso del messaggio vengono meglio spiegati i tormenti rappresentati.

Seguendo questo elenco di posizioni, una specie di Kamasutra sacrificale per il vero cristiano, i martiri sono:

1.      Appesi per i polsi, stirati da un macigno fissato ai piedi, e arsi dalle torce di molti soldati.

2.      Con la bocca piena di piombo fuso versato da un crogiolo.

3.      Dati in pasto a un branco di leoni con buffe facce da gatto (il pittore non doveva avere mai visto un leone vero).

4.      Decapitati; ma anche dopo che la testa è rotolata per terra, loro rimangono in ginocchio, con regolamentare fontanella di sangue dal collo, le mani giunte in devota preghiera.

5.      Lapidati con bei sassi artistici della misura giusta.

6.      Crocefissi a testa in giù sopra un focherello acceso.

7.      Bolliti nell'olio o nell'acqua (il testo spiega la differenza di cottura).

8.      Bruciati (vivi, naturalmente).

9.      Sepolti (vivi, naturalmente).

10.  Bambini sgozzati a mucchi.

11.  Mani, lingue, nasi tagliati.

12.  Schiacciati fra due enormi lastre di pietra.

13.  Affettati a tranci come il tonno al mercato del pesce.

14.  Cavato un occhio, bruciate le mani, trafitta la gola, rosolati in graticola, ecc. (tutto diligentemente chiarito nelle scritte).

15.  E finalmente il più pittoresco: un nutrito gruppo di santi e sante, tutti insieme a mollo in una zuppa di pece bollente con la prescritta faccia beata degli eletti dal Signore, mentre un satanasso di carnefice in piedi sul bordo della vasca li rigira con un mestolone.

Vedere per credere. Chiesa di Santo Stefano Rotondo, Roma.



                                        

 
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Il mesiodens

Post n°330 pubblicato il 11 Maggio 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

    11 maggio 2015

   IL MESIODENS



Visto che la nostra non è una rubrica medica, questo titolo esige un'immediata spiegazione.      Eccola. L'abbiamo sceneggiata un po'.

E' un afoso pomeriggio di anticipatissima estate, il 6 maggio, e noi ci stiamo recando alla Sala della Crociera per affrontare il rischio di una conferenza, con mostra, su Michelangelo e Vittoria Colonna.

Contrariamente alle aspettative, la nostra sete di sapere e la speranza di un buono spunto per le perfidie del Cav. Serpente saranno entrambe appagate in pieno.

La sala è magnifica, come tutte le biblioteche della Roma barocca. E' annidata dentro il grande isolato costruito quattro secoli fa dai gesuiti per ospitare l'immensa chiesa di S. Ignazio, il Collegio Romano, sale, alloggi e uffici vari (oggi Ministero dello Spettacolo), e la specola piazzata in una torretta alta sul tetto, dalla quale Roma, fino a non molto tempo fa, riceveva ogni giorno l'ora esatta.

La mostra è fatta di incisioni piccole, libretti piccolissimi, e medaglioni minuscoli in bacheche; roba che con la poca luce a disposizione (si sa che per non danneggiare i libri secolari, le biblioteche storiche sono ambienti in perenne penombra) praticamente non si vede.

Ma non importa. Perché quello che rende impagabile la nostra partecipazione all'evento è la presentazione da parte del professor Marco Bussagli, titolare della cattedra di Anatomia Artistica all'Accademia di Belle Arti di Roma (poi capiremo l'importanza di questo ruolo), del suo libro "I denti di Michelangelo". E' un testo di quasi duecento pagine tutto avvitato su una scoperta del professore: Michelangelo dipinge i personaggi che lui ritiene predestinati (al bene o al male, e non tutti i suoi soggetti, certo) con un dente in più: il mesiodens.

Si tratta di un'anomalia fisiologica, conosciuta fin dai tempi di Savonarola, e da quest'ultimo, insieme ai suoi superstiziosi contemporanei considerata una manifestazione del sovrannaturale, tendenzialmente maligno. Come altri simili difetti congeniti (rovinosi per la simmetria, simbolo della perfetta presenza del divino nell'umano) di cui il portatore non ha naturalmente nessuna colpa.

Il mesiodens, ovvero il dente di mezzo, è un incisivo supplementare che cresce dove non dovrebbe, cioè fra i regolamentari due superiori. Niente di grave, o forse anche sì: il suo possessore ha 33 denti, e siccome ci nasce è ritenuto un predestinato. Una delle prime esternazioni di questa simbologia, che il Maestro mantenne sempre segreta (per farla scoprire mezzo millennio più tardi dal professore) è sulla Sibilla Delfica. La quale, se uno va proprio a scrutarla maleducatamente da vicino, ha effettivamente un dentone supplementare che appare sotto la punta del labbro, in mezzo ai due incisivi a cui tutti siamo abituati.

Sul libro c'è la lista dei mesiodentati di Michelangelo: da Giona ai diavolacci, ai dannati, ai risorgenti, ai predestinati. Sono centinaia; perfino il Cristo della pietà Vaticana mostra fra le labbra dischiuse nella morte il mesiodens. Anche qui bisogna andare scortesemente vicino per vederlo, e probabilmente ci arresterebbero. E' una scoperta importante? Un'inutile scemenza? Non siamo in grado di dirlo. A occhio e croce saremmo per la seconda ipotesi, ma, per citare qualcuno più in alto, chi siamo noi per giudicare?

Riconosciuto a Bussagli il ruolo di star indiscussa di questo pomeriggio, nulla ci impedisce di procedere con l'aggiunta di qualche nuovo elemento al ritratto che andiamo completando dell'altro oratore che ha preso e fatto buon uso della parola dopo di lui: Claudio Strinati.

Studioso, storico, ricercatore: di lui siamo da sempre ammiratori per come parla. Le cose che dice sono interessanti, si sa, ma nel suo modo di raccontarle abbiamo intravisto un nuovo dettaglio. Lui gesticola poco, parla pacato, a tratti rallentando pensoso come se non riuscisse a trovare qualcosa: esita, si ferma quasi; poi eccola, la parola, che più giusta non potrebbe essere, esce da sola e sul suo volto si distende un'espressione quasi di stupore, quasi di piacere per il parto così ben riuscito.

Che naturalmente si trasmette al pubblico rinnovando l'attenzione e rinfrescando il discorso.

Dono naturale, abilissima tecnica affabulatoria? Non lo sappiamo e non ce ne importa. Certo l'effetto è quello di un'esitazione musicale, quasi un accenno di pericolosa deviazione che crea un sottile disagio in chi ascolta, per poi portarlo al condiviso sollievo della perfetta risoluzione.




Fiorenzo Carpi. 7 maggio, Parco della Musica. Presentazione del libro "Ma mi" su lui, la sua vita, la sua musica. Ci uniamo agli altri per rendere omaggio a un compositore raffinato e colto, morto poco meno di vent'anni fa e poi man mano svanito, molto immeritatamente, nella penombra.

Testimonianze piene di ammirazione e amicizia da parte di colleghi: Mazzocchetti, Piovani, Morricone; di Gregoretti che ha raccontato con la consueta arguzia qualche aneddoto, di Rigillo che ha letto bene, di Stella Casiraghi e della figlia Martina Carpi, cocuratrici del libro.

E poi finalmente, noi e il pubblico dei meno informati ci siamo chiariti il mistero delle due famose canzoni della tradizione popolare, portate al successo da Ornella Vanoni e Gabriella Ferri, e sempre vagamente associate (da noi meno informati) al suo nome, senza che nessuno sapesse precisamente come e perché.

"Ma mi": canzone tradizionale della mala milanese? "Nossignùr, t'el dis mi!"

"Le mantellate": canzone tradizionale della mala romana? "Manco pe' gnente!"

In realtà sono brani originali, su testo di Giorgio Strehler, composti da Carpi nel '52 e nel '59.

Ma talmente giusti che sembrano la vera voce del passato popolare.  




P.S. Una nostra attenta lettrice ci ha scritto a proposito della somiglianza fra il Papa e Stan Laurel a cui avevamo accennato, anche se proprio non serviva, nell'articolo della scorsa settimana. E' un'osservazione che vorremmo avere fatto noi, e di cui la ringraziamo per la finezza e la poesia. "Stanlio e Francesco sono uguali. Hanno anche la stessa ingenuità di "spalla": uno di Ollio, l'altro di Dio".



                                          

 

 
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Barbecue sul Gange

Post n°329 pubblicato il 03 Maggio 2015 da torossis

 

 IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

 4 maggio 2015

 BARBECUE SUL GANGE



In un bell'articolo del 30 aprile Giampaolo Visetti descrive le migliaia di pire accese in riva al fiume Bagmati, sotto il tempio di Shiva, per le esequie dei nepalesi morti nel terremoto. Incenso, fiori, legni odorosi, olii essenziali versati sulle braci, offerte di cibo e monete, insieme ai profumi della cremazione, per accompagnare il morto e le sue ceneri nel viaggio sulle acque verso l'aldilà. In un silenzio rispettoso e drammatico.

A proposito di profumi: 1973, eravamo appena arrivati a Benares, la città più santa dell'India. Quella dove ogni buon fedele desidera concludere il suo viaggio terreno. Schiere di dignitosi vecchi santoni, ma anche di mendicanti, storpi, malati dei più ributtanti morbi: lebbra, elefantiasi, infezioni; moribondi che si trascinavano verso l'accesso alla vita futura, il Sacro Fiume dei roghi. Un'orda orribile, forse troppo identificabile con lo stereotipo, eppure vera (di sicuro non era uno spettacolo messo su per noi stranieri) e drammaticamente angosciosa.

Ci mettemmo a seguire il flusso. Ormai vicini al Gange ci salì al naso un certo qual profumino di braciolette alla griglia (piuttosto fuori luogo secondo il nostro pensiero di impreparati fricchettoni, oltretutto obnubilati da fumi di altro genere, in un paese principalmente vegetariano e implacabilmente affamato) che aumentava sempre più. Finché, arrivati ai ghat ci rendemmo conto che effettivamente c'erano fuochi accesi e carni che bruciavano, ma non si trattava di un barbecue all'aperto, bensì dello spazio riservato alle pire funebri dei bramini. Membri di casta alta, quindi meglio nutriti degli altri indiani; superiore la qualità della legna delle cataste e anche quella degli olii rituali, le braci ben calde: ecco spiegato l'equivoco olfattivamente appetitoso.

Naturalmente sempre con tutto il rispetto per le credenze altrui.



Da che pulpito... Titolo su La Repubblica, pagina 28: "La battaglia di Francesco per la parità delle donne - Scandaloso pagarle meno". Siamo tutti d'accordo, è ovvio, sull'argomento, sull'ingiustizia della situazione e sulla necessità di trovare una soluzione.

Un po' meno nel constatare che questo accorato appello viene dal capo di una istituzione che le donne non pensa nemmeno a lasciarle entrare, se non con qualifiche di bassissimo livello.  Probabilmente il massimo a cui una femmina può aspirare in Vaticano è il ruolo di cuoca di qualche cardinale, di cameriera che rifà il letto al Santo Padre o, vogliamo esagerare? di segretaria in ufficio. Non ci pare un gran che.

NB. I due signori in fotografia non sono la stessa persona.

 

 

Fuori tempo massimo. Facciamo un passo indietro (di calendario) e scendiamo un gradino (di argomento). MACRO, 16 aprile, inaugurazione di una mostra di Nakis Panayotidis "Guardando l'invisibile". Opere degli ultimi dieci anni. Vetri rotti, sedie coperte di stracci e questa bella carriola piena di sveglie.

Presentazione fantozziana: microfono spento con conseguente vana agitazione degli addetti, incapaci di farlo funzionare; infelice ubicazione dell'evento sul pianerottolo accanto a un ascensore che fa din don a ogni apertura di porta. E altre piacevolezze tipiche della nazionale incapacità di organizzare anche un piccolissimo evento. In compenso, buone le cibarie e le bevande del rinfresco (almeno questo...)

Il perché del nostro titolo? Queste trovate ce le presentavano già anni fa, raggiungendo spesso  l'obiettivo di scandalizzare il pubblico dei benpensanti per aprire la strada a nuove correnti. Riesumarle oggi come frutti tardivi di inizio terzo millennio: questo ci sembra fuori tempo massimo.

Come obsolete erano le numerose, canute code di cavallo (maschili) in giro per le sale.



Quotazioni. Tanto per rimanere nel campo, abbiamo fatto un salto ai magnifici Musei di S. Salvatore in Lauro: chiostri, saloni, sotterranei, scale e scalette, per finire in un giardino segretissimo chiuso da alte mura.

Cocktail di presentazione dei quadri in vendita all'asta dalla Christie's.

Non facciamo parte del mercato dell'arte, e questo di sicuro spiega la nostra ignoranza, ma ci hanno davvero stupito gli abissi che separano l'una dall'altra le quotazioni di artisti italiani più o meno contemporanei e per noi più o meno dello stesso valore estetico, e quindi (ingenui!) anche commerciale.

600.000 euro per un taglio di Fontana, media grandezza, 150.000 per un Severini più grande (e più bello). Inspiegabili 300.000 euro per un Paolo Scheggi (mai coverto), e 30.000 ciascuno per due oli di Vedova e Capogrossi. Mah!

Non avendo né il contante né l'intenzione di acquistare, per fortuna ci è rimasto, come in molte altre situazioni simili a Roma, il piacere di andare in giro per spazi bellissimi e spesso inaccessibili al pubblico.

E gratis.


                                       


 

 
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Anastilosi

Post n°328 pubblicato il 26 Aprile 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   27 aprile 2015

   ANASTILOSI


Anastilosi: s.f. In archeologia, ricostruzione di edifici ottenuta mediante la ricomposizione, con i frammenti originali, delle antiche strutture.

21 aprile, Natale di Roma. Brezza tiepida, sole scintillante. Notizie lette qua e la ci dicono di un programma di anastilosi sulle colonne del Tempio della Pace, due delle quali dovrebbero essere visibili proprio oggi.

L'idea di ritrovare in piedi monoliti che giacciono da secoli sdraiati e a pezzi ci fa saltare sulla sedia, e usciamo di corsa.

Folla di turisti chiassosi e distratti. Incomprensibile attenzione dei più su insignificanti scemenze: il ragazzotto accovacciato a terra con musica tecno che dipinge orribili paesaggi con le bombolette spray, il chitarrista che rifà a modo suo i Pink Floyd, e poi, se avanza qualche neurone, un'occhiata al Colosseo.

Di anastilosi si intravvede appena un accenno. C'è un'impalcatura con un alto tendone che copre e scopre, a seconda della brezza, un paio di cilindri di granito che potrebbero essere le famose colonne, e da cui provengono rumori di attività.

Suoni artigianali che fanno pensare alla bottega di Mastro Geppetto piuttosto che a un cantiere in grande stile, ma in ogni caso qualcosa si muove e prima o poi porterà a un risultato.

In compenso ci sono i papaveri nuovi che a nostro parere stanno benissimo insieme ai marmi vecchi. Della brezza abbiamo parlato, del sole anche. Ci pare proprio che per festeggiare il compleanno di Roma non serva altro.



Un concerto informale ".in my life." 23 aprile, Parco della Musica

Un evento di Contemporanea è normalmente considerato un'occasione molto seriosa (e spesso molto noiosa). Noi invece ci siamo fatti un sacco di risate.

In primo luogo perché siamo arrivati alla biglietteria già dotati del propedeutico Negroni che al bar dell'Auditorium preparano così bene. Poi perché l'atmosfera che ci ha accolto era davvero informale: l'amico Enrico Marocchini, compositore in forza a Nuova Consonanza, anche senza Negroni era al meglio delle sue caratteristiche di sublime cazzeggiatore. Fausto Sebastiani, uno degli autori in programma, inappuntabile e garbato maestro di cerimonie, è stato capace, durante la performance del suo bel pezzo per chitarra ed elettronica, di buttarsi a sedere sul pavimento per manovrare le manopole del cassone tecnologico.

Il decano Marcello Panni presentando il suo brano che chiudeva la manifestazione, scritto, come usava negli anni Sessanta in forma di gioco colorato ad arbitraria disposizione degli esecutori (omaggio alla Settimana Enigmistica) ne ha dette tante, e divertenti, fra cui una che facciamo nostra per la sua indiscutibile, sorprendente verità. "La musica aleatoria è l'unica veramente fedele al pensiero del suo compositore. Perché, se un mezzoforte scritto da Beethoven in partitura sarà inevitabilmente interpretato dall'esecutore in un modo forse giusto per lui stesso, ma non necessariamente corrispondente all'intenzione dell'autore, l'esecuzione, appunto aleatoria, proprio perché ogni volta diversa, coincide esattamente con quanto indicato dal compositore con l'uso di questo termine".

A noi è sembrato ineccepibile. Forse il Negroni?



Risotto al barrito. Abbiamo gustato questo insolito piatto al tramonto di lunedì 20 nella sede dell'Associazione dei Veneti a Roma.

Eravamo invitati a un incontro su Ercole Venetico e l'eredità politica di Ottaviano Augusto, nonché alla presentazione di un libro; il tutto seguito da una degustazione.

L'argomento im­pegnativo e la temperatura tropicale in sala (finestre ermeticamente chiuse: pubblico in età) a un certo punto ci hanno suggerito di sgattaiolare fuori e rifugiarci nella adiacente magnifica ter­razza con affaccio sulla jungla (vedi foto).

Dal folto della quale hanno cominciato a salire terrificanti  barriti, ruggiti paurosi e altri inquietanti richiami non identificabili, ma di sicuro esotici e primordiali.

Finita la conferenza (noi sempre in esterno e colpevolmente assenti agli applausi), è apparso il rinfresco promesso: pentoloni fumanti di risotto tipico veronese. Mentre i selvaggi ululati aumentavano, uno dei cuochi ci ha soccorso nel nostro smarrimento: "Nol se preocupi, siòr, xe l'ora del pasto e i animali del zoo, che i ga fame come noialtri, i fa un gran bacàn".

Insomma, niente Salgari, siamo a Roma: sul retro del terrazzo e precisamente in Via Al­drovandi ci passa il tram, e, di fronte, la foresta pluviale altro non è che gli alberi rigogliosi di Villa Borghese.

E le bestie feroci ci sono, sì, ma nelle gabbie del Giardino Zoologico.



                                       

 

 
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Mah!

Post n°327 pubblicato il 12 Aprile 2015 da torossis

 

IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

 13 aprile 2015

   MAH!

    LA CRONACA CHE CI PERPLIME


29 marzo, GP di Motociclismo del Qatar. Vafortino Rossi, 36 anni, vince in modo entusiasmante e sale sul podio insieme ad altri due italiani: festa grande, inno nazionale. Baci e abbracci e la regolamentare doccia di champagne. Poi leggiamo che lo champagne è analcolico.

Qui c'e qualcosa di leggermente ridicolo, pur con tutto il rispetto delle tradizioni locali. Quelli vanno a 300 all'ora, si prendono a spallate sulla pista, rischiano la pelle e qualcuno ce la lascia; però lo champagne è analcolico. Mah!


8 aprile, Esagerazioni. Arrestato il boss Giovannone De Carlo, uno dei protagonisti di Mafia Capitale. Gli trovano in casa, dice il titolo dell'articolo, un tesoro in orologi. Andiamo avanti a leggere e scopriamo che il tesoro consiste in cinque Rolex. Va bene, ammettiamo che ognuno di questi preziosi oggetti del desiderio costi dieci, quindicimila euro; ci pare comunque una somma un po' ridicola per un boss così importante.

Come ridicoli sono i menù tipici di altri malavitosi di spicco, sempre riportati con una sorta di stupore ammirato, da poveracci, dalla cronaca (naturalmente parliamo della nera, quella a basso livello letterario, da principianti).

Questi sventurati fuorilegge, per tener fede al loro potere e alla loro ricchezza mangerebbero continuamente ostriche e aragoste bevendo solo champagne. Una dieta che, oltre  a essere esiziale per la salute, ci sembra anche piuttosto noiosa. Soprattutto adesso che la pajata è stata riammessa sulle tavole. Mah!


9 aprile, Iconoclasti. Amal Alamuddin in Clooney appare in un articolo di colore che riferisce, fra i suoi importanti incarichi di avvocato, quello conferitole dal governo greco per riavere dall'Inghilterra i marmi del Partenone, portati via da Lord Elgin nell'800, e da allora al sicuro al British Museum.

 Non ci sembra che l'iniziativa, preceduta da altre in passato, abbia avuto successo. Per fortuna. Chissà che fine avrebbero fatto altrimenti quei capolavori se lasciati sul posto, visto che nel '600, sotto la dominazione turca, il Partenone era stato trasformato in polveriera (regolarmente esplosa durante l'assedio veneziano), e anche dopo il botto, i pezzi non bruciati nelle calcare erano un mucchio anonimo di calcinacci. A noi sembra più che giusto che l'arte riposi, naturalmente a disposizione di tutti, presso chi la sa riconoscere e difendere.

Qui è inevitabile, parlando di iconoclasti, citare l'ISIS, sollecito promotore di video in cui si vedono scalmanati che demoliscono a colpi di mazza statue e fregi sumeri o ittiti (non ricorderemo mai la differenza, perdonateci). Per non sottovalutare la proverbiale astuzia levantina, non vogliamo credere che i miliziani non abbiano capito che vendere quella merce sul mercato del contrabbando d'arte sarà anche poco ortodosso dal punto di vista della vera fede, ma è certo molto redditizio dal punto di vista più banalmente economico.

Tanto più che in tutti quei video le statue e i fregi si polverizzano in maniera molto sospetta sotto i colpi, e spesso e volentieri permettono di intravvedere intelaiature di sostegno, proprio come nei modelli di gesso che troviamo negli studi dei nostri amici scultori.

Che abbiano effettivamente messo da parte per venderli i marmi veri, e a noi abbiano fatto vedere (anche un po' ingenuamente, bisogna dire) le copie distrutte? Mah!


Ridacchiare sotto i baffi. Questo ce lo permette, con la sua inesauribile fornitura di materiale, Facebook.

"La causa primaria del cancro fu scoperta nel 1931 da Otto Warburg, ma pochissime persone in tutto il mondo lo sanno perché questo fatto è nascosto dall'industria farmaceutica e alimentare."

"10 aprile. Nelle ultime ore i settori nordoccidentali dell'Italia sono sotto un massiccio attacco chimico. Dalle immagini satellitari della NASA si evidenziano chilometriche scie chimiche persistenti che si estendono dal Ponente Ligure a Piemonte e Lombardia. Se nelle prossime ore avvertite difficoltà a respirare, dolori ossei, febbre, rossore agli occhi, non è la primavera; basta alzare gli occhi al cielo per capire..." Eccetera eccetera.

Qualcuno ce l'ha con noi? Mah!


9 aprile. Sorridere del lapsus. Conferenza di presentazione della mostra "Barocco a Roma". La curatrice Mara Grazia Bernardini parla con toni così flautati e leggermente soporiferi da provocare frequenti richieste di "voce!" dai presenti. Ma il momento bello dell'incontro arriva quando la signora, dopo avere esposto le innumerevoli fatiche affrontate per la realizzazione della mostra, comunica al pubblico il suo piacere nel "poter dare inizio alla prima di questa serie di sofferenze".

Naturalmente corregge subito il "sofferenze" in "conferenze", ma ormai l'ha detto.

Deve aver sofferto davvero tanto a mettere in piedi la baracca.



                                           

 

 
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La bici è un'arma impropria

Post n°326 pubblicato il 06 Aprile 2015 da torossis

 

 IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

   6 aprile 2015

       LA BICI E' UN'ARMA IMPROPRIA

 

                                                               

Non c'è che dire: sulle prime pagine è tornato, prepotente, il ciclista. Ma non quello povero di una volta. E neanche quello sportivo del Giro. Si tratta di sindaci, Ignazio Marino, o ministri, Graziano Delrio (e la sua ci pare una di quelle loffie, con la pedalata assistita), comunque gente che in bici non ci va per necessità, ma per ideologia, e un po' anche per opportunismo politico.


 Evitata per un pelo, proprio stamattina a Corso Vittorio mentre camminavamo a filo marciapiede, la collisione con un ciclista velocissimo, silenziosissimo e aggressivissimo (perché, sicuramente ci avrete fatto caso, chi è convinto di rappresentare l'Ideologia perde ogni tolleranza verso il prossimo), ci è venuto spontaneo riesumare impressioni di un tempo lontano, ma perfettamente trasferibili a oggi.

 La prima volta fu ad Amsterdam. Credevamo di averle viste tutte, dopo molti decenni di viaggi e molti chilometri in auto, moto, e altri mezzi. Dalle piste del Sahara ai vicoli di Napoli. Ma stavolta eravamo a piedi, e fu il panico, quando ci trovammo circondati dai ciclisti. Prepotenti e senza campanello. Sbucavano da tutte le parti, veloci, silenziosi e implacabili, come sa essere l'austera gente del nord quando ha a che fare con i cialtroni del sud. Niente dubbi, i padroni erano loro.

Da quella esperienza ci nacque nel cuore un bel gomitolo di incomprensione e ostilità, naturalmente inconfessabili (sarebbe stato come prendersela con la foca monaca, una innocua creatura del Signore, e per di più, ci dicono, in via di estinzione). Il ciclista rappresenta la ribellione al mondo delle macchine, la purezza dell'aria e dei sentimenti, il ritorno al buon tempo antico; si potrebbe quasi dire la natura incontaminata.

Una vera icona new age che non si può odiare. Bisogna rispettarla (ok) e amarla (già più difficile) per quello che fa, non sempre con le migliori maniere, per la salvezza dell'umanità.

Ma chi non ha mai provato un soprassalto, in auto, di notte, in quelle strade poco illuminate della periferia, nel vedersi a pochi millimetri davanti al paraurti la ruota posteriore di una bicicletta, cavalcata da un kamikaze vestito di scuro, rigorosamente sprovvista di qualsiasi segnalazione luminosa, che procede ai suoi sacrosanti venticinque all'ora, mentre in automobile, anche chi è prudentissimo va almeno al doppio.

E i ruderi di biciclette incatenati a un palo sul marciapiede, che nessuno porta via? Spesso sdraiati a terra con una ruota a forma di S, cannibalizzati dei pezzi asportabili, rimasti solo telaio, ma con punte micidiali sulle quali inevitabilmente ci si strappano pantaloni e polpacci.

Volendo fare una classifica, i nostri amici ciclisti li potremmo dividere in tre gruppi: quelli di basso profilo (normali giacconi e niente spocchia), gli sportivi (la domenica in aderenti, ridicole, multicolori tute da pagliaccio che nessun adulto indosserebbe in situazioni normali) e i radical-chic che pedalano in giacca e cravatta. Con qualche volta l'optional di pipa, o più spesso mezzo toscano in bocca.

Intendiamoci, andare in bicicletta a Roma è ben diverso che farlo a Bologna o a Rovigo, dove gli automobilisti sono abituati a conviverci, con i ciclisti, e i dislivelli sono zero. Molti di questi nostri amici, efficacemente rappresentati dal sindaco e ora anche dal ministro dei trasporti, vivono la bici più come principio, che come mezzo, visto che, in questa città di salite anche ripide, spesso si arriva prima a piedi.

E poi, perché senza fanale davanti e catarifrangente dietro? "Perché ci siamo dimenticati di comprare le batterie; perché fa più fico; perché comunque sono gli automobilisti che devono stare attenti; perché se mi prendono mi ripagano come nuovo". Sarà, ma non ci sembra una gran pensata.

Rimane il fatto che spesso il ciclista ideologico (non certo quello per necessità, che ancora esiste, anche se quasi esclusivamente extracomunitario) è un integralista fanatico, e come tale non ascolta, rivendica.

Piste ciclabili, sacrosante; ma se non ci sono, via sul marciapiedi a zigzag fra i pedoni, a tutta velocità e soprattutto in un letale silenzio. Proprio come successo a noi, stamattina a Corso Vittorio.

Lo ripetiamo: attenzione, la bici è un'arma impropria.



                                       




 

 
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Minuetti e pennelli

Post n°325 pubblicato il 30 Marzo 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

  30 marzo 2015

   MINUETTI E PENNELLI



Bibì e Bibò in Sala Stampa

Chi non conosce Bibì e Bibò può passare direttamente al prossimo capoverso.

Chi invece se li ricorda, sa che si tratta di due monelli che da più di un secolo abitano in un fumetto con la loro mamma, la Tordella, il Capitan Cocoricò (che potrebbe essere il di lei fidanzato, ma nessuno lo sa con precisione) e l'ispettore, un piccolo signore pieno di autorità che dice sempre la sua.

Sala Stampa Estera, martedì 24, presentazione del "Galateo della Corrispondenza". I due autori, Laura Pranzetti Lombadini e Michele D'Andrea, sono Bibì e Bibò. L'Ispettore è invece il moderatore, Claudio Ligas. Per questa volta la Tordella e il Capitano rimangono fuori della storia.

Naturalmente il libro è, al contrario dei due ruspanti ragazzini, il massimo del garbo, con punte di elevata raffinatezza se non di snobismo (la sottolineata superiorità, ora e sempre, della penna stilografica, possibilmente di marca e obbligatoriamente d'annata, rispetto a tutti gli altri arnesi da scrittura). Ovvio, in un manuale che insegna a corrispondere con l'idraulico o con il Presidente della Camera (o la Presidente, forse la Presidentessa, o magari la Presidenta). Comunque la si giri emerge il fatto che, essendo la lingua un organismo ben vivo e agitato, è impossibile tenerla ferma. Magari si accovaccia un momento sulla tua scrivania ma si sa che prima o poi scappa.

Il parallelo con i fratellini terribili prende vita quando i due autori, pungolati e a volte rimessi in riga, sempre garbatamente s'intende, dall'Ispettore - moderatore, nel corso della presentazione cominciano a battibeccare, si danno sulla voce per gioco, mettono finti bronci dopo aver sparato sberleffi e ripetono a pappagallo uno le frasi dell'altra.

Un minuetto elegante, simpatico, un po' narciso e a momenti a rischio leziosità. Ma divertente perché ben condotto, neanche i due fossero attorcomici professionisti. Non abbiamo ancora letto il Galateo, ma siamo certi che, arrivati all'ultima pagina, avremo imparato qualcosa che farà di noi dei cicisbei migliori.

 

Merisi è in città!

Venerdì 27 nel piccolo teatro dell'Associazione ERA DEA, dalle parti del Panteon, cioè precisamente nel quartiere in cui venne ad abitare poco più di quattrocento anni fa, sceso dal nord, il pittore Michelangelo Merisi, è andata in scena la seconda serata del ciclo "Il sotterraneo di Caravaggio". Rosa Di Brigida: idea e narrazione, Francesco D'Ascenzo: regia e recitazione, Rosa Balivo: egregia presenza in scena. Scene e costumi, strepitosi, del Laboratorio Era Dea Studio.    

        All'epoca (come fino a pochi anni fa, prima che esplodessero le ridicole quotazioni di milioni di dollari per squali in formalina o statue iperrealiste di Jeff  Koons e Cicciolina) gli artisti erano dei poveracci che dipendevano dalla nobiltà per commissioni, vitto e alloggio. E protezione, che per il nostro, dato il suo carattere rissoso, era fondamentale. 

       Come latitante per un presunto omicidio, fa una capatina alla metropoli più vicina, Venezia, dove, già che c'è (e ci pare con un certo profitto) studia i grandi pittori del momento.

       Eccolo a Roma; qui si piazza a casa di Monsignor Pucci di Recanati. Per l'alloggio va bene, per il vitto un po' meno, tanto è vero che il pittore soprannomina il prelato "Monsignor insalata".

Dopo non molto cresce di livello e passa al Cardinal Del Monte, ma trova il modo di bruciarsi le amicizie anche qui, prendendo a bastonate un nobiluomo, come lui ospite del Cardinale. E' chiaro che Caravaggio era uno che con il galateo non aveva molta dimestichezza, neanche quando gli sarebbe convenuto. E infatti gli va male perché un artista dell'epoca, per quanto famoso, proprio non si poteva permettere di bastonare un nobile.

Altre risse, altri arresti. Tira un piatto di carciofi in faccia a un garzone di osteria, che lo querela. Nel 1605 ferisce un notaio. I suoi nobili protettori riescono a insabbiare tutto, finché, nel 1606 uccide Ranuccio Tomassoni, con cui aveva già litigato varie volte, pare per i favori di una delle prostitute che frequentavano.

Evidentemente questa è l'ultima goccia, perché lo condannano, fin troppo severamente, alla decapitazione. Curiosamente, dopo questo fatto, nei suoi quadri i vari Oloferne e Golia cominciano ad avere i suoi stessi lineamenti.

Trova ancora la famiglia Colonna che lo protegge nella sua fuga a Napoli, a Malta, in Sicilia; una peregrinazione segnata da altre risse e duelli. Poi sappiamo come va a finire. Un vero spreco di un talento così miracoloso, solo perché il suo proprietario non riusciva a tenere a mente le semplici e utili regole del galateo.

Torniamo alla rappresentazione di venerdì. L'Associazione ERA DEA lavora ad alto livello, con lo stesso sprezzo del pericolo di Caravaggio, scegliendo come lui di rimanere fuori delle regole, pur non ricorrendo alla spada o al pugnale, e sì che ce ne sarebbero i motivi: la costante mancanza di attenzione delle istituzioni, e in più una città che pare abbia perso il nobile spirito giocoso che aveva tirato fuori all'epoca delle indimenticabili estati romane, l'effimero al potere. E chi ne risente di più sono naturalmente i piccoli.

Ma quando il talento c'è, anche se procura solo l'insalata, non bisogna mollare, ecco tutto.

 

 

                                         

 

 

 
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Il buon tempo andato

Post n°324 pubblicato il 22 Marzo 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

 23 marzo 2015

  IL BUON TEMPO ANDATO



 Certo, i polli che arrivavano in tavola erano ruspanti e non di batteria, ma erano in pochissimi a mangiarli. Gli altri, qualche crosta di pan secco e acqua di pozzo. Certo, alle mense dei ricchi c'erano cacciagione, spezie e vini; poi però avevano tutti la gotta. Certo, nei quadri di Caravaggio i cesti sono appetitosi, ma se si guarda bene, sulla mela c'è il buchetto del verme che invariabilmente si trovava dentro ogni frutto.


In questi giorni siamo alle prese con due libri: il "Viaggio in Italia" di Montaigne, del 1580, e "Il profumo" di Süskind, contemporaneo ma ambientato nel '700.

E' quasi incredibile come sono cambiate le cose da allora.

Una citazione dal secondo: "Nel '700 nelle città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame e rifiuti, i cortili interni di urina e feci, le scale di legno marcio e sterco di topi, le cucine di cavolo andato a male e grasso rancido, le camere da letto di lenzuola bisunte e vasi da notte. La gente puzzava di sudore e di vestiti sporchi, le bocche di denti fradici e i corpi di pustole e scabbia; il contadino puzzava come il prete, puzzava tutta la nobiltà. Perfino il re puzzava come un animale e la regina come una vecchia capra, sia d'estate che d'inverno. Insomma, non c'era attività umana che non fosse accompagnata dalla puzza".


La primavera è appena arrivata e con lei i primi richiami pubblicitari a viaggi e vacanze: tutto facile, economico, veloce e tranquillo. Oggi.

Invece, nel sedicesimo secolo, ecco a cosa andava incontro uno sconsiderato come Montaigne che avesse deciso di viaggiare non in territori inesplorati, ma semplicemente dalla Francia all'Italia, due paesi civili della civile Europa del tempo.

Il tempo: non ore o giorni, ma mesi, anni. I mezzi: a piedi, a cavallo, oppure, massimo del lusso, su una portantina a spalle di due uomini, con altri due di scorta. Un calesse o una carrozza erano pensabili solo per brevi percorsi perché le strade erano poche. Il resto, sentieri. E si viaggiava solo di giorno perché il mondo era buio, fuori e nelle case.

Oggi ci piacciono le cenette a lume di candela che ci isolano in un cerchio magico, tutto intorno la penombra. Ma quello che funziona per i nostri momenti romantici non era affatto comodo per la vita quotidiana delle famiglie. Si andava a dormire al tramonto e ci si alzava all'alba. L'unica luce era quella del camino. I pochi che leggevano col moccolo ci rimettevano gli occhi e la salute (vedi Leopardi).

In viaggio, un gentiluomo come Montaigne si portava dietro, oltre al proprio cavallo, un mulo per il bagaglio, un cameriere, un mulattiere e due lacchè a piedi. Più, molto spesso, materassi, biancheria e coperte, stoviglie e provviste. Perché le locande erano infami, gli osti imbroglioni, e non c'era da scegliere. Finestre senza vetri, solo con gli scuri. Piatti di legno o terracotta, spesso sporchi. Tavolacci su cui dormire senza lenzuola, federe o pagliericcio (sistemazione spesso considerata igienica perché scongiurava la presenza di cimici e pulci).

Si stupisce il nostro gentiluomo viaggiante per il lusso di un albergo in cui trova teli smontabili appesi ai muri accanto al letto per "non insudiciare la parete quando si sputa". E' smarrito in una infima locanda dove, avendo chiesto all'oste dove sgravare il corpo, questo gli risponde: "In cortile - sì, ma dove? - dove vuole".

Brevi tappe percorse ogni giorno, per di più calcolate in misure diverse da luogo a luogo: lega di Guascogna, lega di Francia, lega tedesca; miglio italiano (ce ne vogliono 5 per farne uno tedesco), spanne, piedi, braccia, cubiti, lance, passi.

Si viaggia con il contante in borsa (e ne serviva davvero tanto), scambiandolo, chissà con quale criterio, in una girandola di valute locali: scudi, fiorini, soldi, lire, talleri, reali, giuli, zecchini, paoli, grossi, denari, baiocchi. Niente assegni o carte di credito, chiaro, quindi continuo rischio di rapina.

E naturalmente ognuno degli innumerevoli staterelli da attraversare richiede passaporti, bollette di alloggio denuncianti il numero di signori, servitori e bestie in transito, senza le quali non si riesce a trovare da dormire e da mangiare. Qualche volta servono anche le bollette di sanità, se si arriva da dove c'è o si crede che ci sia qualche pestilenza.  E nel bagaglio vengono attentamente controllati, e al caso sequestrati, anche i libri, oggetti rari, costosi e all'epoca molto sospetti, soprattutto di eresia.

Dopo la testimonianza, incredibilmente distaccata per i nostri orecchi (ma all'epoca il fatto doveva essere assolutamente normale) di due esecuzioni capitali a Roma, una per impiccagione e successivo squartamento, l'altra con taglio delle mani, uccisione a colpi di mazza e sgozzamento del colpevole, Montaigne riferisce, con uno stupore che noi avremmo trovato più appropriato ai fatti precedenti, una cena al palazzo di un cardinale, in cui "tutti si sono lavati le mani prima del pasto".

Possiamo chiudere con una sua definizione di Roma, che va bene anche oggi: "tutta nobiltà e corte", e con la citazione, tanto per sapere come regolarsi, della migliore locanda d'Italia, che è "La Posta" di Piacenza, e la peggiore: "Il Falcone" di Pavia, dove si paga a parte la legna per il camino, la biancheria e il materasso. Forse, essendo passati quattro secoli e mezzo non sono più indicazioni tanto attendibili.


Oggi è molto più semplice: il biglietto lo fai on line, viaggi comodo e sicuro. In poche ore giri il mondo. Arrivi bello tranquillo al tuo albergo, ti cambi, doccia, scendi a fare due passi, poi vai al museo, e, certo, può essere che lì trovi qualcuno che ti spara. Ma fino a quel momento è stato tutto molto carino.



                                         


 

 
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Un'orgia di vernici

Post n°323 pubblicato il 15 Marzo 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

    16 marzo 2015

                                                UN'ORGIA DI VERNICI                                                      


           (Non quelle a smalto che servono per dipingere i mobili; parliamo di inaugurazioni)


Lunedì 9 marzo. "Roma moderna, i Fori e la città". Istituto Nazionale di Archeologia, saletta strapiena: un centinaio di persone. Visto l'argomento, l'ambiente più giusto per la conferenza sarebbe stato forse Piazza Venezia, lo stadio Flaminio, o ancora meglio, l'intera città, perché invece di cento, i presenti dovevano essere tre milioni; insomma tutti gli abitanti di Roma.                                                                                                                                                      

Il progetto caldeggiato dal Sovrintendente Adriano La Regina: smantellare Via dei Fori Imperiali e aprire finalmente a tutti il più grande, il più importante, il più universale parco archeologico del mondo.

In passato: anni di tentativi. Momenti fortunati, piccoli passi avanti con sindaci lungimiranti; altri di oscuramento e fermate obbligatorie a causa della politica ostile. E naturalmente il trimillennario cialtronesco disinteresse dei romani per casa loro. Oggi finalmente, grazie alla progressiva eliminazione del traffico di superficie e alla costruzione della Metro C, forse si capirà che la famosa Via dell'Impero, trofeo del fascismo, non serve più a niente. Noi probabilmente non ci saremo, come ci siamo detti con Adriano, a causa dell'avanzato traguardo anagrafico raggiunto da entrambi, ma siamo stati d'accordo sull'opportunità di lavorare anche per gli eredi della città, che, in fondo, oltre a essere LA nostra e la loro capitale, è anche IL nostro e il loro capitale.


Mercoledì 11. Da Roma antica a quella (relativamente) moderna. Al Museo dell'Ara Pacis: "EUR, una città nuova, dal Fascismo agli anni '60", interessante mostra sul progetto e la realizzazione, forzatamente incompleta, dell'E 42, quella che doveva essere la grande esposizione della Rivoluzione Fascista a celebrazione del ventennio 1922 - 1942.

Invece ci fu la guerra con il capitombolo del Fascio, l'esposizione non si fece e il quartiere cambiò parzialmente destinazione e nome, diventando EUR, Esposizione Universale Roma, più tardi sede di molte manifestazioni delle Olimpiadi del '60.

Cinegiornali dell'epoca completi di voci stentoree e marcette guerresche, plastici, piante, foto, e qua e la l'infido baco della stupidità che sta sempre in letargo nel nocciolo di ogni regime; poi per fortuna si risveglia e a forza di gonfiarsi lo fa scoppiare.

Si legge per esempio, nel bando di concorso, che gli artisti invitati a partecipare devono dichiarare di aderire ai principi ispiratori del progetto (e questo è ovvio e sacrosanto), ma devono anche dichiarare di non appartenere alla razza ebraica (e qui fa capolino il baco).

 

Stesso giorno, Galleria Nazionale d'Arte Moderna - Addirittura quattro mostre di cui una davvero importante e soprattutto attesa e dovuta da tempo. Le altre, puro contorno. Eccole: Uno "Studi d'artista": foto e filmati. Poco interessante. Due "Azioni antiche": libri, fogli, copertine, forse belli da tenere sulla scrivania, ma scarsamente entusiasmanti da guardare in bacheca. Tre "Bengt Kristenson, vibrazioni dal nord al sud": nella confusione non siamo neanche sicuri di averla visitata.

E quattro, "La scultura ceramica contemporanea in Italia": questa sì, una cosa seria. Una rassegna molto ampia di un numero inaspettatamente alto di scultori che lavorano la ceramica, materia tradizionalmente snobbata dalla critica e dal pubblico che la considera roba da souvenir: piattini col ritratto del papa o daviddimichelangelo da vetrinetta.

Molto pubblico, molti nomi, molte opere, molte sale,  una delle quali interamente dedicata a Leoncillo Leonardi, un artista che colpevolmente noi stessi avevamo ristretto nella serie B della scultura, e che finalmente ci ha obbligato a ricrederci, fare il mea culpa e riconoscerlo (per quello che può contare il nostro giudizio) artista di prima grandezza. Un vero scultore, insomma e non "solo un ceramista".


Giovedì 12. Accademia di San Luca. Salone d'onore: soffitto di quercia nera, pareti tappezzate di damasco rosso, pavimento di parquet scuro, una cripta più che una sala. Su Achille Perilli, pittore quasi novantenne, ma ancora vivo, eccome! si proietta un documentario che, al contrario di molti filmati del genere, è divertente per l'arguta grinta del protagonista sulla cui lunga intervista si snoda il racconto di una vita. Ci ha fatto sorridere l'accenno alle tradizionali risse a pugni e schiaffi fra gli astrattisti e i figurativi, e ci ha fatto sogghignare la chiamata in causa dell'odiato Guttuso, da Perilli definito senza tanti complimenti un mafioso siciliano che approfittando del potere che gli dava il PCI di cui era l'artista ufficiale, aveva fatto di tutto (quasi riuscendoci) per tagliargli le gambe.


Venerdì 13. MACRO. "Limits" della spagnola Amparo Sard, che nella nota autobiografica si definisce una "puntinista fisica".

Disegni, video e un enorme oggetto a forma di ciambella appeso al soffitto.

Il tutto pieno di buchi. L'effetto gruviera è garantito, ma il materiale usato, plastica e carta, rigorosamente bianco su bianco dà anche una bella sensazione di leggerezza e di trasparenza: luce e aria attraversano i buchi e traboccano dovunque.

Niente di nuovo, intendiamoci. Ma bello.



                                         

 

 

 
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The Elephants Cemetery Jazz Band

Post n°321 pubblicato il 08 Marzo 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

9 marzo 2915

       THE ELEPHANTS CEMETERY JAZZ BAND


In realtà il nome vero della formazione che il 26 febbraio ha suonato alla Sala Casella della Filarmonica Romana è "New Roman Jazz Orchestra". Ma noi ci siamo permessi la leggera modifica che vedete in alto, e qui di seguito si capisce il perché.

 La serata del secolo (anzi, dei secoli) era organizzata da Adriano Mazzoletti e Mario Cantini.

Ecco la formazione, in ordine di età:

I Seniores: Ivan Vandor, sax: anni 83; Mario Cantini, pianoforte: anni 82; Gianni Sanjust, clarinetto: anni 81.

Gli Juniores: Guido Pistocchi, tromba: anni 78; Giorgio Rosciglione, contrabbasso: anni 76. Di Michele Pavese, trombone e di Lucio Turco, batteria, non abbiamo i dati anagrafici, ma siamo assolutamente certi che non sono minorenni.

Pubblico di fascia alta (di età, naturalmente).

Nella foto vediamo i fiati in pausa (l'altra metà sta lavorando, ve lo garantiamo). Certo, un riposino ogni tanto...A parte gli scherzi, la band ha suonato appassionatamente, con qualche scivolata nella tenuta dell'insieme, soprattutto nel finale dei Marching Saints, che chiudeva anche il concerto. Questo succede a un gruppo che, pur composto di eccellenti solisti, non prova abbastanza. Avranno di meglio da fare.

Ma, come diceva (ci pare) Rubinstein, suonare la nota sbagliata è poco importante, mentre suonare senza passione è imperdonabile. La passione c'era. Quindi, tutto bene; ci siamo molto divertiti, anche nella cena dopo concerto, nella quale si è abbondantemente scherzato su malattie, coccoloni e, inevitabilmente, imminenti funerali.


 

Richiami

Venerdì 6 marzo. Sole scintillante e vento gelido a cento chilometri l'ora. Impavidi ci siamo spinti di buon passo fino al Museo Canonica di Villa Borghese per l'inaugurazione della mostra "Richiami" (il significato del titolo ci sfugge), opere degli allievi dell'Accademia di Belle Arti. Lavori decisamente brutti presentati da studentesse invece graziosissime.

Con questo chiudiamo l'argomento.

Ma lo riapriamo subito per parlare della Fortezzuola, così è chiamato il casale, probabilmente del '600, poi rifatto secondo la moda dell'800 nelle forme di un finto castello medievale. All'epoca era conosciuto come il Gallinaro e serviva per l'allevamento di struzzi e pavoni destinati alle partite di caccia dei principi Borghese.

Finché lo scultore Pietro Canonica, verso il 1930, chiese e ottenne di andarci a vivere donando in cambio, alla sua morte, le proprie opere allo stato perché in quella casa ci facesse un museo. Non si sa chi dei due abbia fatto l'affare, probabilmente lo scultore perché il posto è davvero speciale. Una villa in mezzo ai prati, con un giardino di agrumi circondato da un muro merlato: insomma proprio un piccolo castello in città.

Il museo permanente conserva i suoi marmi, bronzi e gessi, in uno stile retorico ma anche patetico e intimista. Molti, quelli retorici naturalmente, realizzati su commissione degli Zar di Russia; altri, per commemorazioni in giro per il mondo: Queen Victoria a Buckingham Palace, Ataturk in Turchia, Simon Bolivar in Colombia, perfino Don Bosco in Vaticano.

 Insomma, un insieme di cose davvero non memorabili, anche se ricche di una notevole abilità tecnica, e di sicuro aderenti al gusto dell'epoca. Comunque, decisamente gradevole la mattinata, bello il posto (e le studentesse) e gli alberi del giardino pieni di splendide arance mature.



Irresistibile

BRAHMS E SCHUMANN PAPPANO CARBONARE.

Abbiamo trovato e poi sintetizzato questo miracoloso titolo a pag. 8 del programma di marzo del Parco della Musica di Roma. Quando il destino ti offre un simile bocconcino su un vassoio d'argento, sarebbe un vero sacrilegio rifiutarlo.

Calma, sappiamo anche noi che non si tratta di un invito a unirsi ai due famosi musicisti per una degustazione di piatti tipici romaneschi, bensì dell'annuncio di un concerto, il venti marzo alla Sala Sinopoli.

Musiche di Brahms e Schumann, orchestra diretta da Antonio Pappàno (ricordarsi di spostare l'accento) con la partecipazione del noto clarinettista Alessandro Carbonare.

Troppo facile? Forse. Comunque ci autoassolviamo perché siamo sicuri che nessun altro al mondo avrebbe resistito alla tentazione.



                                         

 

 
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Antipatici e simpatici

Post n°320 pubblicato il 01 Marzo 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

 2 marzo 2015

ANTIPATICI E SIMPATICI


Tutta colpa di Berio

E' stato piuttosto buffo, mercoledì 18 alla Dante Alighieri, seguire le variazioni di tono dei relatori: all'inizio di rispettosa circospezione, poi (pur esprimendo stima per l'artista) un po' più esplicito, e alla fine francamente critico. Insomma, come musicista sarà stato grande, ma come Sovrintendente dell'Accademia di Santa Cecilia, ha proprio toppato. Stiamo parlando di Luciano Berio, il quale risulta reo confesso del fatto che la "Santa Cecilia" del Parco della Musica, con i suoi 2.800 posti, sia l'unica grande sala del mondo senza un organo da concerto.

L'occasione di questa condanna è stata il convegno "Un organo per Roma" organizzato da Giorgio Carnini. Il maestro Carnini, battagliero organista, lavora da tempo perché anche Roma abbia un vero grande organo laico. Ce ne sono, organi, nelle tante chiese della città, ma in disuso, perché, a quanto pare, al dignitoso, austero, mistico organo i parroci preferiscono le suorine con le chitarrine (integrandole nelle occasioni importanti con formazioni di chierichetti con i bonghetti).

Insomma, il grande organo monumentale a Roma manca, come abbiamo visto, proprio dove dovrebbe esserci. E' successo nel 2002, quando era tutto pronto: Renzo Piano nel suo progetto aveva previsto lo spazio, critici e musici erano in trepida attesa, e pare che ci fossero perfino i contanti. Berio, fresco di nomina, mise il veto, anzi, un arrogante veto (parola di Paolo Isotta). Perché? Nessuno lo sa. Fra le feroci critiche dell'epoca, e forse in loro risposta, spunta una lettera che lui scrisse a Italia Nostra. Sembra la giustificazione di un alunno di prima media.

"Cara Italia Nostra, sì, avrei dovuto spiegare meglio le ragioni che mi hanno portato a sospendere il progetto organo...bla bla...decisione assai sofferta...bla bla...la tragica indifferenza del Vaticano alla musica in genere e all'esecuzione del grande repertorio organistico nelle chiese (vuol dire che era proprio il momento giusto per realizzare un organo laico - nota del Cav. Serp.)...bla bla...l'Accademia sarebbe felice di contribuire alla diffusione del grande repertorio organistico in condizioni più intime di quelle offerte da una spettacolare sala di 2.800 posti concepita per altri usi (in poche parole, secondo Berio la sala è troppo bella e grande per l'organo - altra nota del Cav. Serp.)...bla bla...". Per chi non lo sapesse l'imputato era l'ultimo di una stirpe di organisti.

Naturalmente affrontare il problema adesso, anche lavorando in agosto quando il Parco della Musica è chiuso, o di notte, è non solo molto più costoso ma anche burocraticamente complicato.

Philip Kleis, rappresentante di un'antica ditta di organari, che era presente, ci ha mostrato una serie di progetti uno più fantastico dell'altro. Funzionali e anche decorativamente bellissimi.

In chiusura abbiamo saputo, con un certo brivido, che un organo nuovo costa sui tre milioni...

A questo punto, visto che era il momento di sdrammatizzare, Carnini, confessando la sua appartenenza alla tifoseria giallorossa, ha invitato Totti perché, dopo l'inaugurazione del nuovo stadio della Roma, passi dalle parti dell'Auditorium per dare la sua benedizione anche al nuovo organo.


Ciao Gianni

Venerdì 20 al Teatro Studio, una serata di amici per ricordare Gianni Borgna, morto un anno fa. Elenco foltissimo di invitati. La serata, bisogna dirlo, si è trascinata; un po' per la mosciaggine del presentatore Barlozzetti, un po' per la discutibile idea di affidare ad attori, anche se bravi, lunghe, troppo lunghe letture di poesie e pagine di libri, alcuni dei quali decisamente sul funereo. Basti dire che per ultimo è stato scelto un brano del "Pasticciaccio". Già Gadda in generale è pesante, immaginarsi la dettagliata ricognizione, a inizio romanzo, del commissario Ingravallo sul cadavere della vittima.

Ci sfugge proprio ogni possibile nesso con Borgna e il suo sorriso.

Per fortuna ci ha consolato qualche buon intervento musicale; soprattutto la voce di Miranda Martino, che, anche se ha un'età veneranda che non vi sveliamo, mantiene tutta l'intonazione, il calore, il colore e soprattutto la potenza di una volta.

Ma la curiosità di tutti, fortemente venata di malignità, era di vedere con che faccia si sarebbe presentato il Presidente della SIAE, Gino Paoli, atteso come ospite d'onore per cantare in duo con Danilo Rea. C'era chi sosteneva che mostrandosi avrebbe testimoniato la propria estraneità ai fatti che sappiamo. E chi invece che non farsi vivo era un segno di estrema cautela, se non di vera e propria coda di paglia.

In ogni caso il Maestro non si è fatto né vivo né morto, e Rea ha suonato, peraltro benissimo come il suo solito, ma da solo. Crediamo che nei prossimi giorni ne vedremo delle belle. O delle brutte.


Un fenomeno

Classe 1938. Una voce più precisa di un bisturi. Interpretazione e ironia che sfidano il mezzo secolo, e oltre. Un repertorio di canzoni che avevano già in partenza tutte le doti per diventare quei successi che sappiamo: temi orecchiabili, astuti riferimenti a stagioni e piccoli fatti personali che non perdono mai di attualità. Infatti a ogni estate torna "Abbronzatissima", a ogni inverno "Sul cocuzzolo", e dovunque ci sia una festa, "I Watussi".

Lunedì 23 eravamo al suo concerto al Teatro Roma. Sul palco, anche la ex moglie, ex compagna di successi, ora ritornata a cantare con lui: Wilma Goich, più un bel gruppo di solisti. Due ore intense che ci hanno lasciato senza fiato e pieni di ammirazione.

Il nome? Scommettiamo che non serve.

 

 

                                             

 

 
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Quell'anima nera di vinile

Post n°319 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

  23 febbraio 2015

   QUELL'ANIMA NERA DI VINILE


           Quell'anima nera di vinile

       8 febbraio, Music Day, mostra mercato del vinile. Lo abbiamo già scritto: il collezionismo, in generale, è un fenomeno per noi incomprensibile. Va bene raccogliere futuristi italiani o ceramiche etrusche (avendo i soldi) perché, se non si è tanto paranoici da chiudere tutto nel caveau di una banca, significa mettersi in casa un sacco di belle cose da guardare. Ma i vecchi LP!? Il disco è un supporto tecnologico che quando non è più nuovo funziona male, fruscii, scrocchi e salti di solco che rendono il suo contenuto inascoltabile. Allora si collezionano le copertine? Certo, le copertine dei vecchi LP, quelle sì, erano opere d'arte. A due, anche tre facce. Quell'anima nera di vinile che gli dorme dentro forse non è altro che una scusa.

Certo è un po' una raccolta fantasma: il materiale sta piazzato su uno scaffale, di costa, e lo si tira giù di rado, per un minuto, per riguardarselo, per mostrarlo a qualche amico fidato o a qualche rivale da ingelosire. Per non rovinarlo, probabilmente il collezionista neanche osa ascoltare il suo amato, raro vinile. E poi non ne avrebbe il tempo. Abbiamo calcolato che per suonare venticinquemila LP, che è il folle traguardo raggiunto da alcuni nostri amici maniaci, servono dodicimilacinquecento ore, ovvero cinquecentoventi giorni, quasi due anni senza fermarsi mai.

Gli basta sapere di averlo, l'amato vinile. Lì, al sicuro dentro la sua bella copertina.

Detto ciò, partecipare a questo evento che Francesco Pozone organizza due volte l'anno è un divertimento. Si rivedono amici e colleghi e si è informati delle novità di un mondo che, anche se vive nel passato, è gestito da giovani. E ci si stupisce delle incredibili valutazioni di alcune edizioni che a suo tempo noi abbiamo avuto fra le mani, e poi abbiamo regalato o addirittura buttato. (Meglio che non si sappia in giro: una notizia del genere potrebbe provocare un coccolone a qualcuno. D'altra parte se non ci fosse gente come noi, le rarità non sarebbero rarità, ma oggetti comuni).

Giovanni Tommaso e Bruno Biriaco hanno presentato il nuovo cofanetto del mitico Perigeo. Tommaso, che come sappiamo è il nostro migliore contrabbassista, è anche quello dei jazzisti italiani che ha più la faccia da americano, un po' maledetto. Una di quelle facce che starebbero bene in una foto anni cinquanta/sessanta, vicino a Dizzy, o a Charlie, in qualche Jazz Club semibuio.

Poi abbiamo festeggiato tutti insieme l'ottantesimo compleanno di Edda Dell'Orso. Timida e umile come persona, stratosferica come apparato vocale, è lei che ha dato un'impronta inconfondibile a centinaia di colonne sonore; più famosa di tutte: "Giù la testa".

C'erano anche Claudio Simonetti, Fabio Frizzi e Stelvio Cipriani, quest'ultimo noto fra gli amici per la sua narcisistica incontinenza verbale. In pochi secondi ci ha raccontato che negli ultimi tempi ha composto la musica su parole del Vangelo (Cipriani - Gesù di Nazaret), di Michelangelo (Cipriani - Buonarroti) e di Giovanni Paolo II (Cipriani - Wojtila).

Lya de Barberiis

Torniamo all'attualità. Martedì 17, ore 16.30. Le giornate si sono allungate un bel po', e ancora non c'è un accenno di buio. Anche se siamo a metà febbraio, ci sono diciotto gradi e l'aria è cristallina e balsamica. Nel centro di Roma da qualunque finestra ti affacci inquadri un capolavoro. Vicinissima la cupola di S. Maria di Loreto, un po' più in là, la Colonna Traiana e la Loggia dei Cavalieri di Rodi; sullo sfondo i Colli Albani, una ventina di chilometri e li puoi quasi toccare. Da un altro angolo, ma sempre con la Colonna sullo sfondo, questo tipaccio ci guata.

Siamo arrampicati al quinto piano del Palazzo delle Assicurazioni a Piazza Venezia. Qui l'Associazione Civita organizza oggi un incontro per presentare un libro sulla pianista Lya de Barberiis.

Si apre con un filmato d'epoca. Il nostro occhio pignolo è colpito da una trasandatezza frequente in queste manifestazioni: dopo, e anche prima del film, incombe dietro il tavolo dei relatori la inutile proiezione del salvaschermo del computer, in questo caso la classica collina verde sotto il cielo blu con nuvolette. E' brutto, e non è neanche difficile spegnerlo. Un click. Basta ricordarselo.

Apre l'incontro la forbita, perfetta introduzione di Gianni Letta, del quale siamo convinti che condivida con Padre Pio un dono soprannaturale: la bilocazione. E' dappertutto nello stesso istante e con la stessa inappuntabile eleganza e garbo. Naturalmente a un certo punto svanisce (questa volta, ci racconta, per raggiungere il Papa e il Presidente della Repubblica in Vaticano).

Fra un ricordo e l'altro dell'illustre scomparsa trova posto il doloroso sfogo del musicologo Agostino Ziino, al quale ci associamo in pieno, che denuncia lo scandalo dell'archivio musicale Rai. Di che si tratta è presto detto: la maggior parte delle registrazioni delle orchestre che agivano nelle sedi Rai e fuori (ora abolite, altro scandalo nello scandalo) sono state semplicemente buttate. La giustificazione di questo sacrilegio? Non c'era abbastanza posto sugli scaffali. Non siamo al livello dei nazisti (e adesso dell'ISIS) e dei loro roghi di libri, ma poco ci manca. Risultato, la drammatica rarefazione del repertorio italiano del '900: Malipiero, Casella, Petrassi...

Malgrado tutte le nostre cupole, le colonne e i fori, rimaniamo un Belpaese da terzo mondo.

Dopo un non indimenticabile concertino, a chiudere l'incontro ci pensa il cielo di Roma.

Le nuvole tiepolesche cominciano a diventare viola, l'azzurro si incupisce, le terrazze si accendono e i gabbiani si abbandonano alle loro volgari sghignazzate.

Il gabbiano reale, quello grande, che è arrivato negli anni '70 dal nord Europa e si è piazzato, trovandosi benissimo, anche da noi, si chiama "Larus Cachinnans". Il cachinno, come molti sanno è lo sghignazzo. Ed è proprio quello che il larus fa: sghignazza. C'è chi si chiede cosa avrà da sghignazzare, dato che si accoppia solo una volta all'anno e mangia rifiuti. Ma tant'è. Evidentemente a lui va bene, e sghignazza. Noi intanto scendiamo a livello strada, e ce ne torniamo a casa.


                                                

 
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