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A volte, quando si è un grande scrittore, le parole vengono così in fretta che non si fa in tempo a scriverle... A volte. (Snoopy)

 
 
 
 
 
 

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mostra evento di Costantino Giovine presso Il trittico - Roma Piazza dei satiri - inaugurazione sabato 26 febbraio alle 18.30

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Il presidente della giuria, Luigi Bernardi, ci comunica che

   The winner is Paolo Zaffaina

La motivazione:

Statale 61 è un bel racconto giocato su molteplici livelli, tutti resi con stile adeguato.
I continui cambi di prospettiva, fino allo scioglimento finale, ne fanno un testo godibile ed estremamente accattivante.
Un bel saggio di scrittura al servizio di un'ottima idea.

adesso rileggiamolo iniseme >>>clicca qui

Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli (E. Salgari) 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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da parte di Kremuzio

Post n°222 pubblicato il 18 Dicembre 2010 da tuttiscrittori

Foto di kremuzio

 

Quando sono calmo e rilassato, invece di usare il computer, tiro fuori dal cassetto una penna stilografica e mi metto a scrivere su fogli di carta a righe od a quadretti. Ma non è più così facile come una volta. Le dita si sono abituate a picchiare sui tasti, almeno 8 di esse (i mignoli si rifiutano e restano alzati come canne da pesca intente a sondare i mari del pensiero o come antenne biologiche per acchiappare idee). Invece con le penne è questione di polso.

Poi ci sono i problemi di inchiostro, che per chi come me si incaponisce a riempire le cartucce con la siringa, vuol dire stare con le dita sporche per un paio di giorni.

Ma cominciamo dall’inizio: A casa scrivevo con la matita, o lapis come si diceva una volta. In prima elementare i banchi di legno avevano inglobato un calamaio che veniva riempito dal bidello, di un profumato inchiostro blu. Veniva con un bottiglione e versava senza sporcare, cosa che facevamo noi con le nostre bacchette e pennini. Si intingeva allungando il braccio e si scriveva sui quaderni in bella calligrafia, lettere enormi e piene di fronzoli. Stavamo attenti a non sbaffare passandoci sopra con il braccio, stando pronti con la carta assorbente, pronta a rimediare alle gocciolone che il pennino rilasciava a tradimento. Si usava l’angoletto del foglio assorbente, la punta che veloce si risucchiava il piccolo lago scuro. I mancini erano sfortunati, dato che passavano subito col polso sopra lo scritto e trascinavano le lettere come in una stampante laser col tamburo difettoso. Per pulire il pennino c’era il nettapennini comprato o fatto dalla nonna con gli scampoli delle stoffe. Poteva avere la forma di un pupazzetto o di un fiore o informe addirittura. Lasciava spesso i pilucchi sul pennino che si metteva per sbieco sulla punta, invisibile fino al momento in cui andavi a scrivere, e diventava un pennello grande, di un pelo solo ma molto gonfio di liquido. Ed era un continuo delirio, visto che le gomme che volevi usare per cancellare gli orrori macchiavano e strappavano i fogli. Quanti guai col pennino, si tornava a casa con le mani sporche, la bocca sporca, il fiocco del grembiule sporco, il grembiule stesso sporco ma non si vedeva, dato che era nero. Ma il resto era macchiato di blu.

Poi venne il tempo delle stilografiche. Avevo una bellissima penna, una Parker 51 regalatami da un mio zio meccanico per il battesimo, col pennino d’oro, che non potevo toccare perché preziosa. Non aveva lo stantuffo, ma un pezzetto di gomma che premevi e risucchiava qualche goccia di inchiostro per volta, rilasciandolo. Ripremevi e dalla punta faceva le bolle che scoppiavano e macchiavano. Bisognava farci la mano e ripulire bene la punta che quando la impugnavi macchiava falangine e falangette. Mica la potevo portare a scuola. Sarebbe caduta e rotta. Solo a casa, ed è stato bene così, ed ancora oggi la uso. Ma a scuola usavo delle Pelikan o altra primaria ditta, con lo stantuffo che faceva uno strano rumore quando lo usavi e si riempiva pericolosamente come una siringa per le esecuzioni capitali. Purtroppo tutte queste penne cadevano di punta, ed i pennini si rompevano o piegavano ad X come un becco di piccione malato. Cercavo di rimetterlo a posto con i denti, ed a volte ci riuscivo, anche se il risultato non era perfetto. E la bocca si sporcava e mi tenevo il sapore dell’inchiostro per tutta la giornata. Non era poi così male.

Non mi sono mai piaciute le cartucce di ricarica perché quando finivano, spesso non avevi il ricambio, o erano compatibili solo con quelle dei compagni antipatici che non te l’avrebbero prestata se non gli avessi dato in cambio qualche figurina “valida”.

Ogni tanto mi compro una stilografica vecchia, a poche lire, nei mercatini. Le porto a casa, le lavo, ci faccio un pieno di inchiostro nero, do un po’ di sgrullate per vedere il pennino che prenda colore e rilasci qualche schizzo sui fogli candidi. Metto in bocca la punta se non esce fuori il nero, e succhio fino a sentire il saporaccio dell’inchiostro moderno. Con parsimonia. Riempio le cartucce o faccio le bolle con lo stantuffo. Mi riempio le narici col profumo dei ricordi e scrivo il mio nome. Poi se mi piace la morbidezza e la scorrevolezza, continuo e metto sulla  carta i miei pensieri, e le parole vengono a galla più lentamente con i tocchi ormai stanchi del polso che non è più elastico come una volta, come le dita che in questo momento stanno ricopiando sulla tastiera il foglio che ho scritto qualche giorno fa con la mia antica, magica, Parker 51.

Ed ho ancora le unghie nere.

 

 
 
 
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