Un blog creato da tuttiscrittori il 07/10/2007

tuttiscrittori

A volte, quando si è un grande scrittore, le parole vengono così in fretta che non si fa in tempo a scriverle... A volte. (Snoopy)

 
 
 
 
 
 

SOSTIENE... KREMUZIO

Kremuzio

Sull'orlo del precipuzio

 
 
 
 
 
 
 

ALBERGO A ORE (HERBERT PAGANI) PERF. EDITH PIAF

 
 
 
 
 
 
 

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ARTE & DINTORNI

mostra evento di Costantino Giovine presso Il trittico - Roma Piazza dei satiri - inaugurazione sabato 26 febbraio alle 18.30

locandina

 

 

 
 
 
 
 
 
 

YOU'LL FOLLOW ME DOWN - LABORATORIO CONCORSO

Il presidente della giuria, Luigi Bernardi, ci comunica che

   The winner is Paolo Zaffaina

La motivazione:

Statale 61 è un bel racconto giocato su molteplici livelli, tutti resi con stile adeguato.
I continui cambi di prospettiva, fino allo scioglimento finale, ne fanno un testo godibile ed estremamente accattivante.
Un bel saggio di scrittura al servizio di un'ottima idea.

adesso rileggiamolo iniseme >>>clicca qui

Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli (E. Salgari) 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Messaggi di Ottobre 2007

 

MICROFONO APERTO ...come eravamo

Post n°14 pubblicato il 28 Ottobre 2007 da tuttiscrittori
 

 I tre racconti più votati sono risultati:
"Anna" di Vi_di
"Devo dirle che torno" di Ipanema
"Centocinquanta stelle" di Biancoebleu
 Il racconto di Vi_di, fin dalle prime mail giunte, è stato sempre in netto vantaggio. Ipanema e Biancoebleu hanno dovuto invece difendersi fino alla fine da altri tre contendenti che ci sembra doveroso nominare. Sono nell’ordine: "Elucubrazioni sulla nevicata del secolo" di Allievadelgabbiano;  "L'ombra delusa" di Cattleia; "Le scarpe sulla scrivania” di Crepuscolando.

commenta a  modo tuo, questo spazio è libero per esprimere la tua opinione sul risultato

 Tuttiscrittori sta preparando l’apposita vetrina in cui saranno pubblicati tutti e 36 i racconti che hanno dato il consenso.

 I votanti sono stati 32, poiché Writer, Elliy, Kremuzio e Santiago non hanno espresso preferenza alcuna.

 
 
 

Un treno per Milano

Post n°13 pubblicato il 24 Ottobre 2007 da tuttiscrittori
 

dalla nostra Vetrina di questa settimana


Un treno per Milano
(di Luigi Caruso)

Treno per Milano. Primo pomeriggio di un giorno prima di Natale.
Ogni due venerdì lasciavo Roma, appena uscito dall’ufficio, correndo alla stazione Tiburtina per infilarmi nell’Intercity Napoli-Milano. Come al solito treno pieno, gente che si accalcava sui
corridoi, voci che si alzavano per contendersi un posto.
“E’ prenotato” “No guardi anche io ho la prenotazione per questo posto” capitava anche questo
sul treno Napoli-Milano.
Andai al mio posto, pronto alla battaglia, ma non fu necessario. Lo trovai scaldato dallo zaino di un ragazzo che alla vista del biglietto di prenotazione prese senza storie la sua roba e la
mise sulla rete in alto.
Come di rito scrutai i miei compagni di viaggio. È piacevole percepire la possibilità di una conversazione interessante osservando i volti dei vicini. Di solito ero fortunato ma quel giorno, col Natale alle porte, ringraziai subito il rifugio sicuro offertomi dal quotidiano e dal libro che mi
ero portato dietro come compagni fedeli.
Partenza, nemmeno in ritardo. Verso Firenze, prima tappa.
È bello viaggiare. Anche se si va con un leggero senso di disagio verso un appuntamento dagli incerti contorni. Non era una persona ignota quella che andavo ad incontrare. Erano più di due
anni che, a fasi alterne, stavamo insieme.
Ignoto era il nostro senso, quello stare insieme così tumultuoso, sempre appeso al filo sottile
dei nostri umori. Un oscillamento tra una sottile perfida angoscia e la scossa di stimoli nuovi.
Arrivò la stazione di Santa Maria Novella. Chi scendeva e chi saliva. Io non mi affacciai sul corridoio, come facevo di solito. Rimasi seduto al mio posto, guardando a malapena fuori. Quel
giorno stavo chiuso in me, insieme ai miei compagni di viaggio di carta.
Il treno ripartì.
Era ormai buio. E il buio mi faceva compagnia, mi aiutava a non alzare gli occhi per guardare
fuori dal finestrino. Mi rannicchiai in me stesso e mi sentii sicuro così.
La mattina dopo avrei avuto un colloquio all’Istituto di psicologia industriale, un test per scoprire le mie attitudini lavorative. Volevo cambiare, ne avevo bisogno. Mi ero già stufato dopo nemmeno cinque mesi di trafficare con carte polverose, colleghi scostanti e diffidenti e un lavoro noiosamente ripetitivo. La burocrazia è un’arma pericolosa da maneggiare, se il fumo
colpisce i polmoni lei spegne il cervello.
La sfida mi eccitava, come tutte le cose in divenire. Tutto ciò che potrebbe essere schiude prospettive in cui l’immaginazione dilaga, creando piccoli film di vita, come potrebbe essere
se…
Alzai gli occhi dal libro e decisi che era il momento di fare due passi. Come la vidi in corridoio, seduta sul predellino, mi diedi dello stupido a non essere uscito prima. Lei aveva incrociato il.mio sguardo nel momento in cui ero uscito dallo scompartimento e aveva immediatamente smesso di leggere la rivista e ora fissava me, fermo sulla soglia. La timidezza prevalse e spinse il suo sguardo fuori dal finestrino. Istintivamente mi mossi verso di lei ma senza avvicinarmi troppo. Tornò a posare i suoi occhi verdi su di me ed iniziò a muoversi sul sedile come se volesse chiamarmi ma si trattenesse dal farlo. Mi decisi e avanzai lentamente verso di lei. Non ricordo chi iniziò a parlare, ma quei pochi minuti prima della stazione di Bologna furono densi
del nostro raccontarsi.
Mi piaceva quel che diceva e come lo diceva. Scoprivamo una sintonia spontanea nei nostri pensieri. Sentivo la necessità di rivederla, per capire quanto profonda potesse essere quell’attrazione reciproca. Il treno rallentò in prossimità della fermata e lei attendeva l’invito a rivedersi. Il tempo si stava chiudendo e io restavo lì, alternando silenzi a frasette banali. Ero
bloccato, non riuscivo a dire “Mi dai il numero, ci rivediamo”. Avevo paura.
Paura di sbagliarmi, paura che avessi frainteso i suoi occhi, le sue mani sulle mie e le sue
parole..
Il treno si arrestò, lei rimase ferma, aspettava qualcosa da me che non venne. La gente la spingeva per scendere, qualcuno le gridò di muoversi. Lei continuava a fissare me che rimanevo muto a immaginarmi mentre le chiedevo il numero di telefono per poi andarla a
trovare, passeggiare per Bologna con lei. Baciarla.
Infine scese, voltandosi ancora a guardarmi.
Passai il resto del viaggio di pessimo umore. Rivivendo la stessa scena a ripetizione.
Non la rividi più.
Oggi continuo a passare le carte in quel vecchio ufficio polveroso.
Sto sempre con la stessa ragazza che andavo a trovare a Milano. Si è trasferita a Roma, viviamo ognuno a casa propria. E ancora mi è ignoto il nostro senso.

Luigi Caruso e www.tuttiscrittori.it

 
 
 

"come eravamo"  di kremuzio

Post n°10 pubblicato il 19 Ottobre 2007 da tuttiscrittori
 

video

Concerto incerto -  roma - 10 luglio 1982

Il mio primo cd stava sul tavolo, e rifletteva la luce della lampada. Io lo stavo osservando, confrontandolo mentalmente alla schiera di LP che erano impilati alla meno peggio sopra i libri dell’università. Avevo saputo che qualcuno negli states lo aveva messo direttamente sul piatto, ma la puntina di zaffiro scivolava via con un rumoraccio da gatto calpestato. Il suono del telefono mi distolse dalle trasposizioni mentali. Antonio mi chiamava per dirmi che era arrivato Frank Zappa con la sua band, in città. Le sue melodie, talmente strane da essere considerate rumore dai vecchi, a me evocavano frotte di ragazzi in festa, nudi, a rotolarsi nel fango ed a danzare intorno a fuochi festosi.

“A Ste’, niente donne! Andiamoci da soli” mi disse Antonio: “andiamo, scavalchiamo e ci infiliamo in quella ressa calda a far casino…”. Beh, se c’era da far casino, non potevo tirarmi indietro. Preparo cartine, tocchetto e la maglietta bianca con il testone di Frank, acquistata per 5000 sudatissime lire sul banchetto fuori dal Palasport l’ultima volta che ero andato ad un suo concerto. Niente jeans, anche se c’era da scavalcare. I pantaloni neri erano appostissimo con la maglietta bianca, come tutti quelli della band (l’avevo visto in tv qualche giorno prima). Non c’era il pericolo che mi scambiassero per uno ska.

Il concerto è alle 9 di sera, c’è tutto il tempo per aprire il frigorifero e finirmi la mezza fettina avanzata a pranzo e quella pastarella alla crema dell’altro ieri. La bottiglietta di limonata la metto nella tasca della giacca, nera.

La 500L color aragosta stenta un po’ a partire, come al solito, ma in una traballante cacofonia di marmitta sfondata esce dal posto macchina condominiale in un nuvolozzo nero. Devo mettere l’olio… e devo ricordarmi di farlo domani. 

Passo a prendere all’incrocio Antonio, vestito da rimorchio come lui l’intendeva: Rayban neri a specchio non da vista, anche se lui era abbastanza miope, Lacoste bianca su jeans nuovi e Superga bianche. La sua facciona rubizza e butterata sorrideva in un accenno di sfida al mondo.

“A Ste’, andiamo a vedere Frankie finalmente. A me non è che importa molto della musica, ma si tratta di un evento che attira migliaia di persone e a me interessa la vita, la gente, le facce, come si muovono e parlano”.

Al solito voleva darsi arie da filosofo, invece avrebbe tentato, come sempre, di puntare qualcuna di suo gusto e provarci. Con la sua voce da professorino querulo, riusciva quasi a coprire il rombo del tubo di scappamento.

Sono fortunato. Trovo un posto sul marciapiedi a poche centinaia di metri dal mattatoio di Testaccio, luogo dove si sarebbe svolta la kermesse. Gruppi di ragazzi con i loro Ciao incatenati l’uno con l’altro ai lampioni, caracollavano con l’andatura di chi voleva saperla lunga dribblando quei pochi anziani che portavano a spasso i loro cani, ignari di dove si sarebbe recata tutta quella marmaglia capelluta e strana.

Individuiamo una nutrita schiera di ragazzotti robusti che invece di dirigersi verso il cancello principale, giravano verso una rientranza del comprensorio dove qualche anima pia aveva sistemato dei secchioni, qualche sediaccia metallica ed una corda legata direttamente sopra un muretto efficacemente senza spuntoni o filo spinato. “su, dai sbrigatevi!” diceva uno “ che se se n’accorgono è finita la pacchia”. Facciamo la fila. Antonio ovviamente aiuta una ragazza a salire spingendola per le terga. Questa s’accorge delle mani calde e gli rivolge uno sguardo che se fosse stata un fumetto sarebbe stato disegnato con tanti piccoli coltelli. Ma dato che ormai era dall’altra parte, con una corsetta si allontana sibilando un vaffa, rossa in viso.

“A Ste’ lo sapevo che ci stava… ora che salgo guarda dove se ne è andata che la voglio seguire..”.

“Anto’ ma non lo vedi che quella sta con quello grosso con la barba?”.

“Ah…” dice secco, e scavalca.

E’ il mio turno. Scivolo puntando male il piede sinistro in una piccola breccia che si sbriciola e sento un secco strappo proprio dietro i pantaloni, ma con un ultimo slancio oltrepasso il bordo e salto dalla parte opposta. Arrivano un paio di inservienti gorilla di corsa, ma fortunatamente pescano un mingherlino alle mie spalle che non se n’era accorto e fuggo neanche dovessi scappare dal controllore dell’autobus.

Bene, ci siamo salvati per ora. Ci mischiamo alla calca di quelli che, giusto dietro le mura perimetrali, erano entrati correttamente col biglietto. Boh? Chi diceva quindicimila, chi ventimila ed addirittura uno si vantava di aver pagato trentamila. Troppo comunque. Col prezzo minimo avrei girato con la 500 per un bel pezzo.

Inizia il concerto puntualmente un’ora dopo l’orario prefissato. Io rimango seduto tutto il tempo su una tettoia di legno per non farmi vedere i pantaloni scuciti. Antonio si è perso nella folla sotto il palco. Ogni tanto ascolto qualche voce femminile che spara una raffica di vaffa tra una canzone e l’altra. So che Antonio è da qualche parte laggiù. Rollo una canna appena in tempo per “Inca road”. Ci voleva tutta. Una ricciolina bionda davanti a me annusa l’aria e si gira, mi guarda e mi spara un sorriso. Io ricambio ed allungo lo spino. Lei riceve e ripassa facendo l’occhiolino. Il filtro è umido della sua saliva. Non mi fa schifo, anzi.

“Bobby Brown” e “Pojama People” allungano i tentacoli sonori strappandomi un brivido lungo la spina dorsale. Un vaffa urlato da una voce femminile un po’ più dappresso mi ricorda che c’è Antonio da qualche parte nei paraggi e si sta avvicinando. Probabilmente mi ha visto.

La ricciolina si gira ogni tanto, forse per controllare le fasi di rollaggio.

“A Ste’ stavi qua?” Eccolo, è arrivato.

“C’è bella gente laggiù?” chiedo?

“Si, si, niente male. Una ci stava.”

“Ci credo…” Mento, memore dei vaffa.

La crema andata a male, unita agli sconvolgimenti sia fisici che ormonali, al nervoso per essere con le chiappe al fresco, ed al fatto che la riccia stava con un tipo che sembrava un rasta, pungono vaghezza al nervo vago o chissà cosa e vomito a schizzo, fortunatamente addosso a niente e nessuno, tranne una mia scarpa. Al rasta, scioccato, va di traverso un peroncino appena deglutito, con ancora il collo della bottiglia tra le labbra. La riccia mi guarda prima schifata e poi comincia a ridere. Ovviamente ambedue s’allontanano ridendo di me.

 Il tempo passa veloce, e le canzoni anche. I bis infilati uno dopo l’altro vanno via veloci e la band con loro. Noi anche, dopo aver fischiato per una decina di minuti, invano.

E quindi arriva il momento dello sbaraccamento: tutti ma proprio tutti, vociando cantando urlando, sia quelli che avevano pagato il biglietto sia noialtri, ora avevano come meta il ritornare a casa.

Stento sempre a pensare che qualcuno possa portarsi un cane al concerto. Ma per qualcun altro era la cosa più naturale di questo mondo, Ed il cane, prima prese di mira la mia scarpa sporca, poi, mentre cercavo di non perdere di vista Antonio che stava seguendo una rossa con un vestito attillato verde, il botolo alza la gamba e la fa senza neanche fermarsi, saltellando sulle tre zampette, felice di avermi marcato la ex bianca scarpa da tennis.

Per sottolineare il momento, il mio amico profittando di un momento in cui la calca aveva serrato i ranghi in quei tira e molla tipici delle code, con molta probabilità allungò una mano dritta sul posteriore della rossa, che girandosi di scatto propalò urlando informazioni delicate sulla madre ed alcuni degli avi di “potete immaginare chi”. Ahimé la pulzella non era sola, ma con un energumeno con la faccia da Visitor che allungò un braccio con pugno terminale che non prese in faccia il reo per pochi centimetri. Naturalmente feci finta di non conoscerlo, mentre correva via districandosi tra la folla come un vietcong tra gli alberi fitti.

La 500 era sempre nello stesso posto, anche se senza più i cerchioni. Io puzzavo come un punk impossessato da mille demoni, con pantaloni sfondati, giacca spiegazzata, scarpe putride e nel sedile accanto Antonio sudato per la corsa che rideva con il suo modo che sembra forzato e troppo alto di volume. Poi serio, si gira verso di me e dice con la sua solita faccia: “A Ste’, domani e dopodomani ci sono i Rolling a Torino. Ci andiamo?”

“domani no, Anto’, domani c’è la finale e io non me la perdo manco per Mick Jagger”.

Kremuzio per “come eravamo”

 
 
 

COME ERAVAMO  di elliy

Post n°7 pubblicato il 18 Ottobre 2007 da tuttiscrittori
 

Natale 1988                                      

- Ma quando si mangia? quando si mangia? Maria! – camminava piano, rasente il muro dell’ingresso, avanti e indietro, sfiorando le foto incorniciate di tutti i nipoti. C’era anche la mia, di quando ero bambina.

La radio sul frigorifero era accesa, col volume bassissimo: “Yasser Arafat, in visita ufficiale a Roma viene ricevuto dal Papa - Stati Uniti e Gran Bretagna accusano la Libia come responsabile dell'attentato di Lockerbie in Scozia, 270 morti – Dopo più di otto anni volge al termine la sanguinosa guerra tra Iran e Iraq, si contano almeno un milione e mezzo di morti”.

Alzava gli occhi piccoli verso i nuovi venuti e:

– Quando si mangia? è già tardi stasera…

- Aspetta papà, tra poco, stai buono – cercava di rassicurarlo, la zia.

Le persone si avvicinavano intanto, mormoravano qualcosa, si chinavano su di lui con sguardi mesti e gesti misurati, un bacio sulla guancia destra, poi a sinistra e andavano di là, in camera da letto.

- Vieni papà, c’è la fettina – era stanca, ma gli aveva apparecchiato la tavola, per lui soltanto, con un tovagliolo e un piatto di carta.

E lui si era seduto, tenendosi forte al  tavolo per non cadere pesante sulla sedia. Aveva tagliato la carne a pezzi grandi, poi aveva preso una larga fetta di pane e aveva cominciato a mangiare.

Le persone continuavano a passare davanti alla porta della cucina e andavano tutte di là, sostavano un po’, poi ritornavano indietro. Mormoravano; ogni tanto dal corridoio qualche voce più forte. Un bambino gridava, dal pianerottolo.

Il nonno si era versato un po’ di vino rosso, inclinando la bottiglia, che a sollevarla pesava un po’ troppo. Era buono il vino, e quello rosso allungava la vita.

Sulla porta si era affacciato un prete.

- Buon appetito Antonio.

Lui aveva ingoiato, poi sorriso e alzato il bicchiere:

- Eh, la vita... – scolato il vino.

Poi si era alzato, si era affacciato sul corridoio, ma non era andato in camera, no. Lì era pieno di donne sedute, avevano messo le sedie intorno al letto.

Mi era passato accanto, senza vedermi nemmeno, e si era infilato nello sgabuzzino, lasciando la porta socchiusa.

Potevo vederlo frugare, spostare una scatola, cercare qualcosa.

Qualche minuto, poi era uscito con un pacchetto tra le mani, e un sorriso. Aveva richiuso con calma la porta e si era incamminato lungo il corridoio, diretto nella grande sala.

Intorno ancora persone che andavano e venivano, sostavano appoggiate al muro, lo guardavano in modo strano, sorridevano meste:

- Certo è sempre un dolore - anche a questa età – non si è mai preparati – non ci sono parole – ma voi come state bene – siete ancora un giovanotto – bisogna reagire – non ci sono parole… parole.

Era entrato nella stanza senza accendere la luce. Distratto. Io dietro di lui, senza farmi  vedere. Chiusa la porta. Dalla finestra la luce gialla di un lampione si rifletteva sulle vetrine e sugli specchi dei mobili antichi, odorosi dei giorni della mia infanzia. Lo avevo visto chinarsi sul tavolo basso, buttare a terra la carta e sistemare con cura la giostrina, prima di accendere le candeline.

Era sprofondato in poltrona, cercava riparo: si era appoggiato alla spalliera, aveva allungato un po’ le gambe, socchiuso gli occhi. Avrei voluto avvicinarmi e sfiorarlo, accarezzargli i capelli bianchi e radi, un bacio sulla fronte, abbracciarmelo stretto stretto. Ma rimanevo immobile, attaccata al muro, dietro di lui.

Gli angeli dorati avevano iniziato a girare intorno alla stanza e li avevo riconosciuti subito.

Oh, li ricordavo bene. Li accendeva sempre la nonna, quando veniva Natale e tutti insieme eravamo lì pronti per scartare i regali... “No, niente regali senza il sorriso degli angeli”, diceva. E andava a prendere la giostrina.

Era un regalo del nonno, lo raccontava sempre. Gliel’aveva comprata a Venezia, quella volta del grande viaggio, che non poterono ripetere più.

- Maria non ti arrabbiare... – sentivo il nonno che bisbigliava, mentre le ombre si rincorrevano intorno a me... forse dormiva? Sognava?

– Avremo un altro bambino?...-  E’ tutto a posto, va tutto bene...

E poi:

- Non te ne andare...  Maria, non te ne andare…

Erano sussurri, ma riconoscevo anche lacrime.. . o quelle erano soltanto le mie?

Ad un tratto:

- Papà ma che fai qui? – la voce stanca, tirata, di mamma. Aveva spalancato la porta, acceso  la luce.

- E tu? – mi guardava con gli occhi arrossati, ma non mi aveva detto niente altro. Era più preoccupata per lui, che non si era mosso, ancora incantato dentro il suo mondo:

- Papà, mi senti?  Papà papà!!!

Lui si era scosso. Gli angeli erano fermi. Le candeline bruciate.

- Che ora è?

- Andiamo papà, vieni a dormire.

Lui si era alzato e l’aveva seguita piano, appoggiandosi al mobile, alla porta. La casa era silenziosa, finalmente. Tutti via.

Passando davanti alla camera da letto non vide più le  persone e nemmeno le sedie. Davanti alla porta aveva girato la testa e guardato dentro: da lì si vedeva soltanto uno spicchio di letto e i suoi piedi con le scarpe blu, le sue caviglie legate col foulard giallo, le gambe magre, un pezzo di gonna scura.

- Vieni papà che domani ci alziamo presto.

- E che dobbiamo fare?

- Papà domani alle nove c’è il funerale.

- E allora, quando si mangia? E Maria?

Io ero rimasta a lungo appoggiata al muro, accanto alla mia foto bambina,  concentrata su quel ricordo felice, mentre mi asciugavo gli occhi, fissi sulla schiena un po’ curva di mia madre, appoggiata coi gomiti sul tavolino.

Come due mesi dopo, per salutare anche il nonno.

La radio sul frigorifero era accesa, col volume bassissimo: “Salman Rushdie sotto scorta, l'āyatollāh Khomeini ha confermato la condanna a morte nei confronti dello scrittore - Alla 39° edizione del Festival di Sanremo vincono Fausto Leali e Anna Oxa con Ti lascerò”.

 

 
 
 

-.-..-.-

Post n°6 pubblicato il 13 Ottobre 2007 da tuttiscrittori
 
Tag: Libri
Foto di tuttiscrittori

“Mal di pietre” – Premio Elsa Morante 2007 – narrativa
(di Nicoletta Bartolini)

“... sempre si chiedeva come è strano l’amore, che se non vuole arrivare non arriva con il letto e neppure con la gentilezza e le buone azioni ed era strano che proprio quella, che era la cosa più importante, non ci fosse verso di farla venire in nessun modo”.  segue

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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