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Post n°75 pubblicato il 09 Dicembre 2010 da fiammarossa56

Il caso Fikri e lo stigma della delinquenza 

Ora che i capi d’accusa contro Mohammed Fikri si sono rivelati totalmente infondati e che il giovane marocchino è tornato ad essere un uomo libero, converrà che coloro i quali hanno abboccato, senza nulla concedere al dubbio, all’esca velenosa proposta da molti media pronti a sbattere il mostro in prima pagina, provino a compiere una riflessione su se stessi non meno che sullo stato della salute pubblica.

Si mettano le cose in fila e si osservi, innanzitutto, quale macroscopica sequenza di errori (?) ha portato Fikri dietro le sbarre. Prima una traduzione (e non un’interpretazione) del tutto inesatta di un’intercettazione telefonica; poi l’ipotesi, altrettanto inconsistente, di una fuga precipitosa del giovane, a suffragare un’implicita ammissione di colpevolezza. Se il cugino di Fikri non avesse prontamente denunciato lo sbaglio dell’interprete, imponendo un supplemento di istruttoria, e se il datore di lavoro di Mohammed non avesse dichiarato che l’allontanamento del ragazzo non era una fuga, ma un viaggio da tempo programmato, oggi quel giovane vivrebbe un incubo drammatico. Ma il peggio, se possibile, sta altrove. Non appena la notizia dell’arresto è trapelata, a Brembate si è materializzata un’atmosfera da caccia alle streghe, condita con minacce di giustizia sommaria (che «correvano di bocca in bocca», abbiamo letto).

Alla Lega non sembrava vero di poter stringere un cappio al collo dell’immigrato di turno e della sua comunità intera, di soffiare sul fuoco del pregiudizio etnico, per invocare il reimpatrio di tutti gli stranieri. Non era parso vero, agli uomini del Carroccio, di poter alimentare quei conati razzisti che tanti consensi elettorali hanno portato loro negli anni. Analoghe vicende erano già accadute in passato. Nel febbraio del 2001, a Novi Ligure, quando Erika De Nardo, con la complicità del fidanzato, massacrava a coltellate la madre e il fratellino, simulando una rapina sfociata in tragedia ad opera di extracomunitari. O quando, ancor prima, nel ’97, a Capriolo, il tentato omicidio, ad opera di due amanti, del marito di lei, si provò ad attribuirlo ad un’irruzione violenta di un gruppo di immigrati. In entrambi i casi la Lega organizzò manifestazioni popolari contro i presunti colpevoli, con la stessa certezza, con lo stesso furore ideologico, del tutto indifferente alla verità, con cui il Ku Klux Klan scatenava i suoi linciaggi nell’America dell’apartheid. Gli artefici di quei processi sommari sono gli stessi che ad ogni episodio rimettono in scena il proprio orrendo rituale, certi di poter contare sulla memoria volatile dei più, su quell’oscuro senso di paura che favorisce la rimozione dei fatti, l’invenzione di capri espiatori e la celebrazione di riti sacrificali.

Ai giovani che non l’avessero mai visto o ai più anziani che l’avessero dimenticato, consiglierei di dedicare qualche ora del loro tempo alla visione di quello straordinario film di Stanley Kramer (1961) che si chiama Vincitori e vinti (in qualche seria cineteca lo si può ancora trovare), dove si ricostruisce, in modo in parte documentario e in parte romanzato ma in ogni caso fedele , il processo di Norimberga, nel quale si trovano insieme, alla sbarra, i gerarchi nazisti responsabili dello sterminio di 13 milioni di persone ed esponenti dell’alta borghesia tedesca, fra i quali un insigne giurista, responsabile di avere applicato leggi obbrobriose e di avere acconsentito a pratiche di sterilizzazione, contribuendo alla strategia di annientamento del popolo ebraico. Dopo la sentenza con la quale gli imputati vennero condannati al carcere a vita, il magistrato tedesco, dichiaratosi colpevole dei crimini ascrittigli, chiese al suo giudice un breve colloquio, nel quale confessò di ritenere che la condanna a lui inflitta fosse stata giusta, ma di non avere mai sospettato che l’infamia nazista sarebbe giunta sino a commettere tali atrocità. «Doveva capirlo la prima volta che condannò un uomo sapendolo innocente» fu la lapidaria replica del giudice.

A qualcuno questo accostamento apparirà forzato. E forse lo è. Ma bisognerebbe imparare a guardare le cose dall’altra parte, per esempio dal punto di vista delle persone che cercano di approdare presso le nostre coste, nei viaggi della disperazione e della speranza, a bordo delle carrette del mare che attraversano il canale di Sicilia. Coloro che qui si minaccia di rigettare in mare o che vengono riconsegnati ai lager di Gheddafi, quando non hanno la fortuna di lavorare da schiavi sotto un caporale-aguzzino, o quando sono costretti a sopravvivere nell’oscurità, senza diritti, con addosso lo stigma della delinquenza che gli è stato appiccicato dai loro sfruttatori.

 

Direttore di Liberazione - 8 dic 2010

Dino Greco

 
 
 
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