Creato da vanille_noire il 27/06/2014

Venti da Nord Est

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« CrèmeSMS »

Mani

Post n°47 pubblicato il 10 Settembre 2015 da vanille_noire

Percorro la strada principale del paese.

Si affacciano le stesse case, impresse nella mia memoria da sempre: cortili disegnati e aiuole curate.

Dentro a quei civici sono rimasti in pochi e quei pochi avanti nell’età.

Occhi incollati al tg delle venti, tovaglie già scrollate da briciole e accuratamente ripiegate, piatti riposti meccanicamente nelle credenze.

Sono in sella alla bicicletta che poco prima mi è stata sporta corredata da una domanda ironica: “Ti ricordi ancora come si corre?”; per niente scontata se guardo al vestitino in voile ed ai sandali col tacco che indosso.

Poche pedalate e arrivo a destinazione. Come immaginavo non incrocio nessuno lungo il tragitto.

Numero 92, premo in modo rispettoso ed educato il campanello.

Conseguenza completamente contrapposta al mio gesto, ne esce un suono imperioso, uno squillo degno di un cantiere.

Si affaccia Ludmilla, evidentemente sorpresa nel vedermi dopo tanto tempo.

Ci salutiamo calorosamente. Lei mi è simpatica da sempre e penso sia reciproca la cosa: dice che le ricordo sua figlia lontana.

E’ un ciclone di donna: forte, caparbia e allo stesso tempo dolce, come le parole cantilenanti con inflessione slava che pronuncia, un cinguettio triste, musica di balalaika.

Entro e cerco Ester. La trovo seduta al centro del divano.

Non so se si accorga della mia presenza nella stanza.

Mi avvicino e l’abbraccio. Un bacio per guancia e sento il suo profumo, quello di sempre: pulito, rassicurante,  discreto.

Lei mi guarda e io le sorrido; nel farlo spero sia felice perché dai suoi occhi non riesco a percepire nulla.

Le chiedo come sta. Mi risponde che sta bene, “da vecchi” – aggiunge-, “sempre qui, ma bene”.

Mi siedo accanto e mi viene spontaneo prenderle le mani tra le mie ed accarezzarle. Capisco che il contatto è l’unico alfabeto che abbiamo a disposizione.

Il numero delle sue parole si riduce di giorno in giorno.

Le sue sono mani tozze e robuste, rigate da vene evidenti. Sembrano radici.

Pensandoci, poeticamente, per me lo sono, anche: per quello che hanno fatto, per quello che mi hanno dato.

Poco dopo, in modo del tutto spontaneo, è lei a prendere le mie di mani. Comincia ad accarezzarle. Non mi aspetto quel gesto.

E mi commuovo. Mi sento gli occhi riempirsi, come oblò di barchetta sopraffatta dal mare grosso.

Penso che lo avrà fatto per imitazione, e riesco da sola a farmi innervosire: in quel momento non c’è necessità di dare spiegazioni alle cose.

Imparo qualcosa. Qualcosa di semplice e allo stesso tempo grande, che mette a tacere la mia superficialità, relega in un angolo la mia supponenza.

Chi se ne frega dei neuroni che muoiono e delle sinapsi, dei cassetti della memoria con i loro sprazzi di ricordi:  lei accarezza le mie mani e soprattutto, finalmente, una luce diversa nei suoi occhi.

So che non mi riconosce, ma non ha importanza.

Il regalo più grande è in quelle carezze “di radice” e nell’improvvisa e inattesa richiesta: “Torna a trovarmi.”

 

 

 

 
 
 
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