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Post N° 656

Post n°656 pubblicato il 28 Aprile 2006 da corsaramora
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il  nuovo attentato con nuove vittime italiane a Nassiriya torna a riacutizzare stati d’animo di dolore e a riproporre domande angosciose alla coscienza nazionale. Sgombriamo il campo da questioni improprie, come quella del confronto quantitativo delle vittime americane, di altri contingenti della coalizione operanti in Iraq, della popolazione civile. Ogni uomo civile soffre per la morte di ogni altro essere umano, quale che sia la sua nazionalità e razza. Ogni uomo civile deve saper piangere il lutto dei suoi simili, per quanto lontani possano essere. Perché non solo l’amore del prossimo, ma soprattutto l’amore dei lontani misura il segno dell’incivilimento del genere umano. La questione che si solleva è solo in parte, anche se in una parte essenziale, umanitaria. Il profilo più esigente è quello costituzionale e politico. Il ripudio della guerra, sancito dalla nostra Costituzione, sembra debba cedere dinanzi alla necessità di operazioni di stabilimento della pace o della sua conservazione, quando siano decise non unilateralmente, ma con il consenso e la risoluzione della intera comunità internazionale. Ma anche, ammettendo in linea di principio la compatibilità tra il ripudio costituzionale e la necessità politica dell’intervento militare, le condizioni di una tale componibilità sono tutte volta a volta da accertare. In un contesto bellico gestito da potenze internazionali, non scoppiato all’interno di uno Stato, per un conflitto civile o razzista, come è accaduto nei Balcani, quanto e come si differenzia la presenza militare straniera in mezzo alle popolazioni civili, tra eventi bellici, scontri armati, attentati terroristici di gran lunga prevalenti su azioni di ristabilimento della pace? Le tecnologie odierne consentono guerra e guerriglia diffuse con una micidialità mai conosciuta nel passato

È illusorio perimetrare aree in cui si combatte e aree in cui si preserva la pace. La questione politica sta nel porre in termini razionali il rapporto causale tra l’iniziativa della guerra e la esigenza della conservazione della pace. Siamo di fronte alla ennesima replica del principio antico: se vuoi la guerra, che appaia almeno come ricerca della pace. Ma in questo gioco tra apparenza e realtà, le parti non sono più come un tempo gli Stati con i propri eserciti. La guerriglia e il terrorismo scompigliano ogni strategia politica della guerra regolare. La scelta della guerra impone calcoli esatti sui risultati raggiungibili nel rispetto di quell’antico principio. Nel caso dell’Iraq quei calcoli sembra siano stati sbagliati. A dirlo non sono più soltanto quanti in Europa e nel mondo erano pregiudizialmente contrari all’intervento americano, ma anche quanti da sempre lealmente sostenitori di una coesa azione comune euroamericana, non sono più persuasi dalla politica dell’attuale amministrazione statunitense. Ritirarsi da un teatro di guerra non è viltà. Nessuno oserebbe considerare i fierissimi spagnoli, ritirati dal loro governo, all’indomani dell’attacco terroristico nella loro patria, come impauriti. Quando una presenza militare all’estero non realizza il proprio fine, è ragionevole ritirarla. Si studino i tempi e i modi, ma si dia chiarezza alle ragioni del venir meno dello scopo prefisso e fallito. E sarebbe ora, in democrazie avanzate come quelle occidentali, che il dilemma guerra o pace non sia sciolto solo da governi e parlamenti, ma con strumenti di deliberazione diretta dai cittadini. I quali, proprio quando si tratta del bene supremo della vita umana, hanno titolo a far sentire la propria voce, e non soltanto ad ascoltare, quando è troppo tardi e tutto è già tragicamente accaduto, le parole di sincero dolore e di fraterno conforto dei propri governanti.

 
 
 
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