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Post N° 698

Post n°698 pubblicato il 25 Giugno 2006 da corsaramora

                          

Le riforme più significative gli italiani le hanno fatte con le loro mani, attraverso i referendum. A partire da quello del 2 giugno 1946 con il quale si scelse la forma istituzionale del Paese, nel testa a testa tra monarchia e repubblica. Una casa reale già allora screditata e mediocre condannò l’Italia, che pure doveva la sua unità al ruolo strategico dei Savoia, ad archiviare la tradizione monarchica di fatto identificata con la parabola del ventennio fascista. Quel referendum ebbe effetti di lungo periodo non soltanto nella definizione dell’assetto istituzionale, ma anche per una serie di conseguenze a catena che ne derivarono. 

Il Paese si divise politicamente in due parti (repubblicani al Nord, monarchici al Sud), e una certa idea di destra, moderata e conservatrice, veniva esclusa dal tavolo delle opzioni democratiche. Dopo il referendum del 1946 in Italia essere moderati significava soltanto barcollare nella zona grigia della nostalgia abbinata alla tentazione eversiva, e fino al crac della Prima Repubblica non ci sarà mai una destra di stampo europeo, legittimata a pieno titolo a competere per il governo del Paese: un’anomalia tuttora non completamente superata. Quando, mezzo secolo più tardi, si è consentito ai Savoia di rientrare in Italia, non pochi storici, anche di sinistra, si sono interrogati sull’onda lunga del referendum del dopoguerra. E si sono chiesti: con la garanzia di una continuità monarchica sarebbe stato più facile chiudere l’infinita transizione degli anni 90? L’Italia con un re (non certo Emanuele di Savoia...), forse, avrebbe seguito lo stesso percorso della Spagna, uscita con rapidità ed efficacia dal franchismo anche grazie al ruolo di garanzia svolto dalla famiglia dei Borbone. Anche il referendum sul divorzio, maggio 1974, chiude una stagione e sancisce un’importante innovazione nella vita sociale del Paese. Il nostro ’68 è stato una rappresentazione, piuttosto farsesca, dei grandi movimenti studenteschi che hanno infiammato l’America e la Francia: in quei paesi si regolavano i conti con la storia, in Italia una minoranza di figli borghesi voleva liquidare i genitori al potere. L’unico punto sul quale il ’68 italiano seguì l’onda internazionale fu quello del cambiamento del costume e la legge del divorzio, approvata nel 1970 e seguita da quella sull’aborto, in qualche modo istituzionalizzava le conquiste della protesta nelle università e nelle fabbriche. Con il referendum, nel quale Amintore Fanfani, all’epoca dominus della Dc, fu lasciato solo anche dai suoi compagni di partito, la Democrazia cristiana fece l’amara scoperta di avere perso l’egemonia culturale e politica sugli italiani. Non era più maggioranza. L’asse con la Chiesa, l’architrave della decisiva vittoria del 1948, si era sfarinato, e una forma di secolarizzazione era entrata nel Dna del Paese dove ha sede il Vaticano. La crisi della Dc, arrivata poi a compimento con la strage di via Fani e l’uccisione di Aldo Moro, era cominciata con il referendum sul divorzio. Proprio come la parabola di Bettino Craxi che si aprì e si chiuse con due delle 53 consultazioni referendarie di questi ultimi trent’anni. Giugno 1985: il partito comunista e la Cgil raccolgono le firme per abrogare il taglio dei punti di scala mobile voluto, con coraggio e con lungimiranza, dal governo Craxi. Quando però si va alla conta dei numeri, la sinistra radicale e conservatrice, che sognava di dare una spallata all’odiato Craxi, si svegliò con una sberla che diede il massimo di popolarità al leader socialista e alla sua politica modernizzatrice. Giugno 1991: su iniziativa del movimento di Mario Segni gli italiani vanno a votare per abrogare le preferenze elettorali e in quella occasione, con una certa arroganza e con uno scarso senso della realtà, Craxi invita tutti «ad andare al mare». Sarà punito nelle urne con un voto che introduce la slavina di Mani pulite e porta diritti al corto circuito della Prima Repubblica. Una seconda spallata al sistema elettorale arriva, sempre attraverso il referendum, con la modifica in senso maggioritario della legge elettorale del Senato (aprile 1993), mentre sei anni più tardi fallisce per una manciata di voti il colpo secco per l’abolizione del sistema proporzionale alla Camera (aprile 1999). Quello che il Parlamento non riesce a fare, naufragando tra commissioni e patti scritti sulla sabbia, lo decidono gli elettori che in qualche modo hanno dato le uniche, vere scosse (compresa l’elezione diretta del sindaco) all’impianto istituzionale fissato nel dopoguerra con la Costituzione bipartisan. C’è da dire, infine, che i risultati dei referendum sono stati spesso interpretati con la sottintesa furbizia italiana di cambiare le carte in tavola al momento opportuno. E il vero padre di questo strumento, Marco Pannella, non farnetica quando ricorda i giudizi popolari calpestati da successivi interventi nelle sedi istituzionali. Così da vent’anni siamo fuori dalla partita per il nucleare, e appena qualcuno si azzarda a dire che bisogna riaprirla, immediatamente si alza il muro del «non si può» perchè è stato deciso da un referendum (novembre 1987). Peccato che lo stesso criterio non si applichi per altri verdetti referendari, puntualmente ignorati dai partiti e in Parlamento: il ministero del Turismo è stato abolito 13 anni fa (referendum dell’aprile 1993), ma fa sempre comodo una poltrona in più da assegnare; come il finanziamento pubblico dei partiti, bocciato dal popolo ma allargato dal Parlamento. Un refendum (giugno 1995) ha salvato le tv di Silvio Berlusconi, mentre nel 2000 nessuno dei sette quesiti abrogativi (dalla separazione delle carriere dei magistrati ai rimborsi elettorali) ha superato la soglia del quorum. Forse gli italiani si sono stancati anche delle poche riforme approvate con il loro voto. 

 
 
 
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