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Post N° 708

Post n°708 pubblicato il 23 Luglio 2006 da corsaramora

Le misure di liberalizzazione avviate dal governo in diversi settori, dai servizi professionali al commercio, alla produzione di pane, alla distribuzione dei farmaci, alle licenze dei tassisti, alle assicurazioni delle auto, ai conti correnti bancari, hanno suscitato proteste, agitazioni, scioperi delle categorie che si ritengono colpite nei loro piccoli o grandi interessi. In qualche caso (come per i tassisti) le agitazioni sono riuscite a ridimensionare la portata dei provvedimenti, in altri casi (gli avvocati e i farmacisti) le categorie scese in campo puntano allo stesso risultato se non a cancellare del tutto le nuove regole. In altri gruppi sociali i provvedimenti governativi hanno invece riscosso consensi perché ritenuti capaci di difendere gli utenti dalle pretese eccessive di alcune corporazioni presenti nei servizi alla popolazione. I consensi sono venuti finora soprattutto dalle associazioni dei consumatori nonché da molti economisti, i quali ritengono che solo liberalizzando i mercati si potrà dare una spinta non effimera alla ripresa economica. Poche sono state tuttavia finora le voci favorevoli alla liberalizzazione provenienti da un altro segmento sociale, quello dei giovani scolarizzati, diplomati e laureati, soprattutto meridionali. Eppure questa fascia della popolazione è vitalmente interessata a ridurre le barriere all’entrata nei servizi che impediscono l’accesso di molti giovani alle attività professionali. 
Il mercato dei servizi professionali, non solo quelli dei legali e dei farmacisti, è per sua natura un mercato opaco, poco trasparente, dove la qualità e i prezzi delle prestazioni non sono facilmente percepiti dagli utenti. Qualità migliore e prezzi accessibili alla più ampia clientela sono poi ostacolati dai freni che la regolamentazione pone alla concorrenza tra i professionisti. È paradossale ma è così: le regole finora vigenti, che limitano l’accesso alle professioni e ne disciplinano rigidamente l’esercizio, sono state introdotte decenni addietro a tutela degli utenti ma nel corso del tempo si sono rovesciate in danni alla clientela. I clienti sono costretti a pagare tariffe minime fissate dagli ordini professionali, a ricorrere ai pochi professionisti presenti in alcuni territori, a saltellare da uno studio all’altro per ottenere sulla stessa pratica una volta la prestazione dell’avvocato, un’altra volta quella del dottore commercialista, un’altra ancora quella del consulente del lavoro, e così via, in una giostra di servizi frammentati e costosi per le tante parcelle da pagare e per la perdita di tempo da subire. Le leggi e i regolamenti che per le attività professionali si sono stratificati nel tempo, appartengono ad un ordinamento economico che non esiste più - l’ordinamento di un’economia dominata dapprima dall’agricoltura e poi dall’industria, mentre ai nostri tempi sono diventate prevalenti le attività di servizi alle famiglie e alle imprese, attività che richiedono specializzazione ma pure un’offerta più larga nonché l’integrazione di diverse competenze professionali. Veniamo ora a parlare dei giovani meridionali scolarizzati, che sono il gruppo sociale più colpito da questa regolamentazione anacronistica. Nel Mezzogiorno, infatti, regole antiquate che limitano l’accesso alle professioni e ne dettano rigidamente l’esercizio non solo danneggiano gli utenti ma impediscono anche la mobilità sociale, il passaggio dei giovani dal mestiere esercitato dai genitori a nuovi mestieri. Gli studi professionali si tramandano al Sud più che altrove da padri a figli o a parenti acquisiti, spesso indipendentemente dalla vocazione dei giovani e quindi dalla libera e produttiva manifestazione delle loro competenze. Diplomati e laureati dalle scuole e dalle università meridionali vedono così il proprio futuro segnato dalla condizione sociale d’origine piuttosto che dai loro talenti. Quelli tra i giovani che non possono subentrare ai genitori in un’attività professionale si mettono in lista d’attesa per un impiego nelle pubbliche amministrazioni oppure si dedicano a lavori saltuari oppure ancora sono costretti ad emigrare. Il sistema delle caste professionali è in buona misura tra le cause che provocano spostamenti di popolazione qualificata dal Sud al Centro-Nord d’Italia oppure all’estero: nel 1999, secondo dati dell’Istat, il 34% dei meridionali che si trasferivano dal Mezzogiorno nelle regioni più ricche d’Italia aveva conseguito un diploma di scuola media superiore e il 9% circa era composto di laureati; nel 2003 le percentuali di diplomati e laureati meridionali che hanno cambiato residenza passando dal Sud al Centro-Nord, sono salite rispettivamente al 36% e al 13% di tutti gli immigrati interni. Un’indagine sempre dell’Istat sui giovani che si sono laureati nel 2001 dice che tre anni dopo la laurea, dunque nel 2004, quelli che avevano mantenuto la residenza nel Mezzogiorno, nel 41% dei casi non avevano ancora un lavoro. Le percentuali dei laureati ancora privi di lavoro nel 2004 erano invece il 17% del totale nell’Italia Nord Occidentale, il 19% nel Nord Est e il 25% nell’Italia centrale. I laureati meridionali esclusi da un lavoro non hanno voce nel clamore di questi giorni attorno alla liberalizzazione di alcune professioni. Né i politici né i sindacalisti si fanno paladini delle loro aspirazioni, forse perché anch’essi accettano rassegnati oppure condividono le pretese delle corporazioni professionali.

 
 
 
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