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Post N° 381

Post n°381 pubblicato il 13 Settembre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Nella legge del 1874 "trovasi sempre

adoperato il genere mascolino

avvocato e mai la parola avvocata

che pur esiste nella lingua italiana".

Questa una delle bizzarre motivazioni

estrapolata dall'arringa pronunciata

dal Procuratore Generale

della Corte di Appello di Torino nel

processo che segnò il rigetto del

provvedimento di iscrizione

all'Albo dell'avvocata Lidia Poet, la

prima donna in Italia a chiedere di

poter esercitare l'avvocatura, deliberato

dal Consiglio dell'Ordine

Forense di Torino.

Correva l'aprile 1884 e il Procuratore

che aveva chiesto l'annullamento

della delibera era per

cronaca, Vincenzo Calenda, di

Tavani, aristocratico molto noto

negli ambienti giudiziari e non, poi

divenuto Senatore del Regno.

Le motivazioni del Procuratore

Generale Calenda di Tavani,

avverso l'ingresso delle donne nell'avvocatura,

ovvero come si diceva

all'epoca della "milizia togata"

motivazioni che possono sembrare

stravaganti, ma che evidentemente

all'epoca non lo erano, furono

in sintesi le seguenti:

1) Nessuna legge aveva mai pensato

di distogliere le donne dalle

ordinarie occupazioni domestiche

che loro sono proprie.

2) Ammettere le donne all'avvocatura

era ridicolo e inopportuno.

3) Il precetto del Codice Civile

secondo il quale ogni cittadino

gode dei diritti civili non poteva

riferirsi alle donne. "In caso contrario

queste avrebbero potuto diventare

Consigliere Provinciale, elettore

politico, deputato e voi ridereste

a codeste esorbitanze e ne

riderebbero per fermo anch'esse

le donne, le quali, giammai

sospetteranno che le leggi concedano

tanta somma di diritti, mentre

governo, parlamento, giornalismo

in 35 anni di libertà non curano di

attribuire loro pur una particella

sola".

4) La legge del 1874 non aveva

preso in considerazione la presenza

di donne avvocato perchè a

quel tempo queste non erano

ancora ammesse all'Università, Si

trattava pertanto, sempre secondo

il Calenda di Tavani, di un divieto a

perorare in Tribunale che affonda

le radici nel tempo, fino ai romani.

"Le cose - disse - da quel giorno

più non mutano nella lunga tratta

dè secoli". Auguro all'Italia che non

abbia a sentir mai il bisogno nè di

donne soldate nè delle donne

avvocate".

5) L'ingresso delle donne nell'avvocatura

porterebbe alla disgregazione

familiare, riducendo i matrimoni.

6) I giudici - udite udite - avrebbero

perso la loro serenità di giudizio

davanti ad un'avvocatessa

attraente, anche perchè la moda

femminile, con i suoi abbigliamenti

strani e bizzarri, non si conciliava

con la severità della toga.

Sul tema si aprì un dibattito con

delle prese di posizione contro l'ingresso

delle donne nelle libere

professioni che oggi farebbero rizzare

i capelli non solo alle femministe,

ma a chiunque sia dotato di

un minimo buon senso nonchè di

quel minimo di sentimento di

rispetto e di civile convivenza.

Il tema d'altronde, data l'epoca

caratterizzata dalla prepotenza

maschile nella quale veniva

dibattuto, si inseriva in quello più

generale della parità tra uomo e

donna.

In definitiva più che l'indirizzo giuridico,

erano le ragioni socio-culturali

a sostenere la esclusione della

donna dalle libere professioni.

I più illuminati insorsero contro questa

concezione a relegare la

donna ad un ruolo esclusivamente

domestico, poichè in gioco c'era

l'emancipazione e la redenzione

femminile che tanto preoccupa il

nostro tempo. Così si espresse lo

scrittore e storico pugliese

Giuseppe Maselli-Campagna.

Di contro la scrittrice Matilde

Serao insistè sul fatto che "le

donne avvocatesse si sarebbero

esposte al ridicolo, così come tutte

quelle emancipate senza talento,

senza istruzione vera, senza

serietà, che vogliono votare e non

lavorare" la quale Matilde Serao fu

accusata di spingere le donne laureate

a fare "la calza".

La sentenza sottoscritta dal

Presidente della Cassazione di

Torino, Lorenzo Eula, noto giurista

e futuro guardasigilli, sia pure con

motivazioni più ponderate e più

eleganti nella forma e nel contenuto,

accolse le conclusioni del

Procuratore Generale e respinse il

ricorso della Poet.

Tra l'altro si legge nella sentenza

che "l'influenza del sesso sulla

capacità e condizione giuridica è

dovunque sempre stata tale, che i

legislatori si sono trovati nella

necessità per ragioni appunto di

ordine morale e sociale, non meno

che per l'interesse della famiglia,

che è la base della società, di

dove, a riguardo delle donne, riconoscere

e mantenere in massima

uno stato particolare restrittivo di

diritti...che sono considerati di

ragion pubblica perchè dipendenti

dal sistema generale

delle cose e delle azioni".

La sentenza prende in esame

tra l'altro, anche l'istituto dell'autorizzazione

maritale, la

quale, all'epoca impediva alle

donne di intraprendere azioni

commerciali e gestire patrimoni

senza il consenso dei coniugi.

Insomma il medioevo si è spinto

oltre le soglie del '900.

Bisogna attendere infatti il 1919

perchè la legge n. 1776 oltre ad

abolire l'autorizzazione maritale,

ammise con l'art. 7 le donne

all'esercizio di tutte le professioni

e di tutti gli impieghi pubblici.

Un censimento del 1921 indica in

85 il numero delle donne italiane

che esercitavano l'avvocatura. E

purtuttavia le donne dovevano

subire discriminazioni anche durante

il ventennio fascista che

identificò la missione delle donne

esclusivamente nella maternità.

L'orientamento antifemminista del

regime è noto.

 
 
 
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