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Post N° 459

Post n°459 pubblicato il 10 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Compie mezzo secolo il prestigioso riconoscimento
che dal 1955 la Fondazione assegna alla "foto dell'anno"
Cinquant'anni di World Press Photo
per mettere a fuoco la Storia
di ALESSANDRA VITALI

ERA il 4 settembre del 1957. Dorothy Counts mise piede, prima nera fra i bianchi, con altri tre neri come lei, nella Harding High Schools di Charlotte, North Carolina. Era prevedibile quale accoglienza fosse stata loro riservata: proteste, lancio di pietre, "tornatene da dove sei venuta". La sommossa si estese ad altre città, e lunga fu la battaglia per la conquista dei diritti civili. Ma Douglas Martin, fotografo dell'Associated Press, fermò nel tempo quegli istanti infiniti, Dorothy sulla strada della scuola, i lineamenti in tensione, gli studenti bianchi che la insultano. Come aver detto alla Storia "fermati un attimo" e quella s'è fermata. Sospesa negli scatti di chi c'era, ha scippato il presente e l'ha consegnato al futuro.

Sono tessere raccolte in cinquant'anni quelle che compongono il puzzle della Storia raccontata dal World Press Photo, il più ponderoso e prestigioso concorso di fotografia giornalistica del mondo, che premia le migliori foto dell'anno. I tredici membri della giuria esaminano, ogni dodici mesi, circa 70 mila foto, inviate da 4266 fotografi di 123 Paesi. Che raccontano i drammi individuali, collettivi, globali.

Organizzato dal 1955 dalla Foundation indipendente, con base ad Amsterdam, il premio spegne cinquanta candeline. E invita ad aprire gli occhi su Things as they are, "Le cose così come stanno", che è il titolo della pubblicazione preparata da World Press Photo per il compleanno. Centoventi servizi e ottocento scatti, insieme ai racconti di chi ha manovrato l'obiettivo. Perché le foto sono utili per ricordare, ma le parole dell'autore possono aiutare a capirne il senso più profondo.


A volte le didascalie sono stati d'animo. "Vincere con una foto di fame mi ha fatto vergognare", confessa Michael Wells, premiato nel 1980 per quella mano piccolissima e avvizita di un bimbo, poggiata sul palmo grande, e vivo, di un missionario, realizzata nel distretto ugandese di Karamoja.

Altre volte, è la foto stessa che assegna all'occhio di chi guarda il compito di interpretare: come nel caso di quella che ritrae Salvador Allende, quell'11 settembre del 1973, nel palazzo della Moneda, protetto, ancora per poco e inutilmente, dalla guardia presidenziale. Fu pubblicata dal New York Times ma non se ne conobbe mai l'autore.

Certe volte non c'è bisogno di spiegare. Perché accanto al cadavere semisepolto di un bimbo ucciso a Bhopal dalle esalazioni della Union Carbide sarebbe inutile scrivere qualcosa. Così come per la bambina vietnamita che fugge dal napalm, nuda, le braccia spalancate, in mezzo a una strada. La fotografia "ha l'incisività di una massima, funziona come una citazione, avverte come un proverbio", dice Susan Sontag.

La protagonista di buona parte delle immagini di World Press Photo, tuttavia, è la morte, con la quale la fotografia ha stabilito fin dalla sua nascita un rapporto privilegiato. Presente o prossima, casuale o intenzionale, monito e denuncia e protesta. La caduta rovinosa di un motociclista durante una gara in Danimarca (1955, la prima foto premiata), la fine, nel Vietnam del Sud, del monaco buddista Thich Quang Duc che si lascia divorare dalle fiamme, l'esecuzione di un vietcong per mano di un sudvietnamita a Saigon.

E poi il massacro di Sabra-Shatila, il corpo di un uomo malato di Aids, il lenzuolo bianco che copre un bimbo afgano ucciso dagli stenti, la disperazione di una donna indiana alla quale lo tsunami ha spazzato via tutta la famiglia, i piccoli corpi mutilati dei ragazzini di Kuito, Angola, le madri che seppelliscono i figli. Insomma, tutte le brutture del mondo, e quindi "Le cose, così come stanno".

 
 
 
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