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Post N° 498

Post n°498 pubblicato il 26 Ottobre 2005 da corsaramora
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 L’approvazione della nuova Costituzione irachena da parte di un’ampia maggioranza rappresenta una tappa importante del cammino dell’Iraq verso la democrazia. Ma non rappresenta ancora la sua piena affermazione, perché non può essere considerata democratica una società che resta profondamente divisa, e non per motivi politici - come può avvenire anche nei paesi dove la libertà è solidamente radicata - ma etnici e religiosi. Com’è noto, gli sciiti e i curdi hanno votato a favore e i sunniti, in massima parte, contro (ma è già un fatto positivo che siano andati a votare

Nella nuova Costituzione, inoltre, sono contenuti alcuni princìpi, come quello che fa della «sharia» una delle fonti del diritto, anche se non la fonte esclusiva, che possono destare legittime preoccupazioni, soprattutto a proposito della futura posizione delle donne. Le quali avranno però la possibilità di lottare, nella futura assemblea, per affermare i loro diritti. La Costituzione irachena del 1990 non assegnava nessun diritto particolare agli sciiti, mentre ne concedeva alcuni ai curdi (la terza grande etnia del paese). Si fondava, infatti, sull’affermazione del nazionalismo, sia curdo sia arabo (una definizione, questa, in cui erano compresi sunniti e sciiti). L’articolo 4 riconosceva che l’Islam era la religione di Stato, ma il 19 affermava l’eguaglianza di tutti i cittadini, prescindendo dalla loro appartenenza a una particolare religione: «I cittadini sono uguali di fronte alla legge, senza discriminazioni dovute al sesso, al sangue, al linguaggio, all’origine sociale e alla religione». Veniva così sancito il principio dell’attribuzione alle donne degli stessi diritti degli uomini ed era impedita ogni applicazione della «sharia» che li limitasse. Da questo punto di vista, perciò, si dovrebbe dire che essa era più avanzata di quella approvata nel 2005. In realtà, i diritti sanciti dalla Costituzione di Saddam Hussein rimasero sulla carta. Le etnie curda e sciita furono perseguitate. La minoranza cristiana ottenne delle garanzie che ad alcuni dei suoi esponenti sembrano oggi minacciate, ma lo Stato iracheno rimase comunque una dittatura. Che cosa sarà l’Iraq in futuro dipenderà dai rapporti di forza che si stabiliranno al suo interno. Essi saranno determinati con il metodo delle elezioni, ma queste riusciranno a pacificare il paese soltanto se la minoranza sunnita, forte soprattutto a Baghdad, accetterà il confronto democratico, rinunciando ad appoggiare la guerriglia e isolando il terrorismo. Non sarà facile. I problemi irrisolti, anche se non si vuole tener conto degli uomini di Al Zarqawi, sono numerosi e gravi. Nell’accordo tra uno dei maggiori partiti sunniti e il governo che ha preceduto il referendum sulla Costituzione è stato previsto che la futura assemblea avrà il potere di apportarvi qualche modifica. Ma esse non potranno certamente ridare ai sunniti il predominio che avevano sotto Saddam Hussein. L’incognita è proprio nella loro accettazione della nuova e per essi più sfavorevole situazione. Questa riflette indubbiamente i reali rapporti di forze esistenti nel paese. Ma il metodo della conta dei voti adottato per misurarli, che a noi sembra il più accettabile, potrebbe non apparire tale in un paese dove le motivazioni etniche sono ancora nettamente prevalenti. L’esistenza di partiti sciiti che si oppongono alle tendenze religiose radicali e il fatto che la più importante guida religiosa degli sciiti, Al Sistani, abbia promosso finora una politica di moderazione, fa ben sperare. Ma il governo dovrà trovare interlocutori validi tra i sunniti, anche a costo di fare loro qualche concessione. Dobbiamo augurarcelo tutti. L’alternativa sarebbe infatti la disgregazione dello Stato iracheno, che determinerebbe nell’intero Medio Oriente una situazione potenzialmente esplosiva

 
 
 
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