Creato da corsaramora il 24/05/2005
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Nella legge del 1874 "trovasi sempre adoperato il genere mascolino avvocato e mai la parola avvocata che pur esiste nella lingua italiana". Questa una delle bizzarre motivazioni estrapolata dall'arringa pronunciata dal Procuratore Generale della Corte di Appello di Torino nel processo che segnò il rigetto del provvedimento di iscrizione all'Albo dell'avvocata Lidia Poet, la prima donna in Italia a chiedere di poter esercitare l'avvocatura, deliberato dal Consiglio dell'Ordine Forense di Torino. Correva l'aprile 1884 e il Procuratore che aveva chiesto l'annullamento della delibera era per cronaca, Vincenzo Calenda, di Tavani, aristocratico molto noto negli ambienti giudiziari e non, poi divenuto Senatore del Regno. Le motivazioni del Procuratore Generale Calenda di Tavani, avverso l'ingresso delle donne nell'avvocatura, ovvero come si diceva all'epoca della "milizia togata" motivazioni che possono sembrare stravaganti, ma che evidentemente all'epoca non lo erano, furono in sintesi le seguenti: 1) Nessuna legge aveva mai pensato di distogliere le donne dalle ordinarie occupazioni domestiche che loro sono proprie. 2) Ammettere le donne all'avvocatura era ridicolo e inopportuno. 3) Il precetto del Codice Civile secondo il quale ogni cittadino gode dei diritti civili non poteva riferirsi alle donne. "In caso contrario queste avrebbero potuto diventare Consigliere Provinciale, elettore politico, deputato e voi ridereste a codeste esorbitanze e ne riderebbero per fermo anch'esse le donne, le quali, giammai sospetteranno che le leggi concedano tanta somma di diritti, mentre governo, parlamento, giornalismo in 35 anni di libertà non curano di attribuire loro pur una particella sola". 4) La legge del 1874 non aveva preso in considerazione la presenza di donne avvocato perchè a quel tempo queste non erano ancora ammesse all'Università, Si trattava pertanto, sempre secondo il Calenda di Tavani, di un divieto a perorare in Tribunale che affonda le radici nel tempo, fino ai romani. "Le cose - disse - da quel giorno più non mutano nella lunga tratta dè secoli". Auguro all'Italia che non abbia a sentir mai il bisogno nè di donne soldate nè delle donne avvocate". 5) L'ingresso delle donne nell'avvocatura porterebbe alla disgregazione familiare, riducendo i matrimoni. 6) I giudici - udite udite - avrebbero perso la loro serenità di giudizio davanti ad un'avvocatessa attraente, anche perchè la moda femminile, con i suoi abbigliamenti strani e bizzarri, non si conciliava con la severità della toga. Sul tema si aprì un dibattito con delle prese di posizione contro l'ingresso delle donne nelle libere professioni che oggi farebbero rizzare i capelli non solo alle femministe, ma a chiunque sia dotato di un minimo buon senso nonchè di quel minimo di sentimento di rispetto e di civile convivenza. Il tema d'altronde, data l'epoca caratterizzata dalla prepotenza maschile nella quale veniva dibattuto, si inseriva in quello più generale della parità tra uomo e donna. In definitiva più che l'indirizzo giuridico, erano le ragioni socio-culturali a sostenere la esclusione della donna dalle libere professioni. I più illuminati insorsero contro questa concezione a relegare la donna ad un ruolo esclusivamente domestico, poichè in gioco c'era l'emancipazione e la redenzione femminile che tanto preoccupa il nostro tempo. Così si espresse lo scrittore e storico pugliese Giuseppe Maselli-Campagna. Di contro la scrittrice Matilde Serao insistè sul fatto che "le donne avvocatesse si sarebbero esposte al ridicolo, così come tutte quelle emancipate senza talento, senza istruzione vera, senza serietà, che vogliono votare e non lavorare" la quale Matilde Serao fu accusata di spingere le donne laureate a fare "la calza". La sentenza sottoscritta dal Presidente della Cassazione di Torino, Lorenzo Eula, noto giurista e futuro guardasigilli, sia pure con motivazioni più ponderate e più eleganti nella forma e nel contenuto, accolse le conclusioni del Procuratore Generale e respinse il ricorso della Poet. Tra l'altro si legge nella sentenza che "l'influenza del sesso sulla capacità e condizione giuridica è dovunque sempre stata tale, che i legislatori si sono trovati nella necessità per ragioni appunto di ordine morale e sociale, non meno che per l'interesse della famiglia, che è la base della società, di dove, a riguardo delle donne, riconoscere e mantenere in massima uno stato particolare restrittivo di diritti...che sono considerati di ragion pubblica perchè dipendenti dal sistema generale delle cose e delle azioni". La sentenza prende in esame tra l'altro, anche l'istituto dell'autorizzazione maritale, la quale, all'epoca impediva alle donne di intraprendere azioni commerciali e gestire patrimoni senza il consenso dei coniugi. Insomma il medioevo si è spinto oltre le soglie del '900. Bisogna attendere infatti il 1919 perchè la legge n. 1776 oltre ad abolire l'autorizzazione maritale, ammise con l'art. 7 le donne all'esercizio di tutte le professioni e di tutti gli impieghi pubblici. Un censimento del 1921 indica in 85 il numero delle donne italiane che esercitavano l'avvocatura. E purtuttavia le donne dovevano subire discriminazioni anche durante il ventennio fascista che identificò la missione delle donne esclusivamente nella maternità. L'orientamento antifemminista del regime è noto.
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