Creato da corsaramora il 24/05/2005
tutto cio' che ci accade intorno ..mie riflessioni e non...
 

 

Post N° 669

Post n°669 pubblicato il 25 Maggio 2006 da corsaramora
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Nella chiesa romana si onora  il sacrificio di due alpini, morti a Kabul per fare il loro dovere e guadagnare un pugno di euro in più. Fuori invece va in scena l'ingorgo dello status symbol: decine e decine di auto blu, tutte con autista, che cercano di depositare le autorità al riparo dalla pioggia. E poi trovare un parcheggio. Un intreccio di Lancia, Mercedes, Audi e qualche sparuta Fiat e Hyundai che manovrano per sfruttare lo spazio: i vigili devono dare ordine a quel magma di berline monocolore, un rompicapo di incastri superiore a ogni cubo di Rubik. Poi alla fine l'ordine viene trovato: tre grandi spazi intorno alla fontana delle Naiadi si lastricano di ammiraglie. Altri due quadrati si formano verso via Vittorio Emanuele Orlando. Ma non bastano a contenere il fiume blu, che tracima lungo il viale per la stazione Termini davanti al monumento che ricorda i caduti di Dogali e poi dilaga oltre: 24 si appostano in via Pastrengo, altre davanti al Grand Hotel dove un'Audi con il 'passi' di Palazzo Chigi si lascia ammirare nello sfarzo di poltrone in pelle e rivestimenti in radica. Alla fine il cronista de 'L'espresso' ne conta 215. Ma non basta. La processione di vetture di servizio sembra inarrestabile, continuano a orbitare intorno alla piazza in attesa che la cerimonia finisca: sono soprattutto Alfa 156, almeno una trentina, che girano a vuoto aspettando una telefonata della 'personalità'. "Le sembrano tante? Doveva vedere la scorsa settimana, quando c'è stata la funzione per le vittime di Nassiriya", commenta un vigile urbano: "Erano molte di più. Oggi si vede che i politici devono pensare ai giochi per il Quirinale". E infatti nel bel mezzo della cerimonia una Mercedes con scorta attraversa la piazza con la sirena a tutto volume, nonostante la strada deserta, con disprezzo per il silenzio del funerale.



"L'altra volta erano molte di più...". Già ma pur sempre una goccia nel mare delle auto blu, simbolo immortale della superiorità del politico e del grand commis, summa del privilegio italico passata indisturbata dalla prima alla seconda Repubblica. "Scorte e auto di rappresentanza non possono essere uno status symbol ma una risposta a reali necessità", ha tuonato Romano Prodi nel suo discorso d'insediamento. E ha promesso un taglio del cinquanta per cento. A ridurle ci aveva provato da ultima la Finanziaria approvata a fine 2004: nel 2005, 2006 e 2007, deliberava, le spese per le auto di servizio non potranno superare il "90, 80 e 70 per cento di quelle sostenute nel 2004". Ma quante erano le vetture su cui calare la scure? A nessuno era dato saperlo, ragion per cui la stessa norma stabiliva che entro il 31 marzo 2005 le pubbliche amministrazioni avrebbero dovuto comunicare al ministero dell'Economia la cifra esatta delle auto a disposizione e il relativo costo complessivo, onde poter verificare i risparmi via via conseguiti. Con poco più di un anno di ritardo il censimento è alfine arrivato. Incompleto, molto incompleto. Secondo il documento trasmesso dal ministero dell'Economia al Parlamento, in circolazione ci sarebbero 43.481 auto ex blu (oggi sono quasi tutte grigio-metallizzato). Molte meno di quante stimate da diversi esperti negli anni scorsi: 300 mila se si comprendevano anche le Regioni e gli altri enti locali; 150-170 mila, secondo le fonti, per le sole automobili dei ministeri e degli enti pubblici non territoriali.

Eppure già quelle 215 accatastate il 9 maggio davanti alla basilica di Santa Maria degli Angeli permettono di esaminare un catalogo impressionante dello spreco. Dominano le Lancia Thesis, almeno 40. Una quindicina le Audi, attualmente il top nella gerarchia del potere: dal premier dimissionario al comandante della capitaneria di porto. C'è una sparuta pattuglia di Mercedes, cinque Bmw e cinque Volvo. Due le Maserati: quella del capo dello Stato e quella di Gianni Letta. Per non parlare del Suv Bmw X 5 con lampeggiante e permesso ministeriale. Le più dimesse sono una Citroën Saxo di un ufficiale delle Fiamme Gialle, alcune Hyundai Lantra del ministero della Difesa, delle Fiat Brava e Marea militari e una datata Alfa 155 di un colonnello dei carabinieri. Alle 10 e 50, prima che le bare avvolte nel tricolore escano sul sagrato, la folla di autisti comincia a scaldare i motori: come in un grand prix si attende il via libera per 'prelevare' le autorità e correre verso le Camere per designare il nuovo presidente della Repubblica. Tutto sommato, lo scatto avviene in modo ordinato. Una dietro l'altra, si fermano davanti alla soglia evitando ai privilegiati il rischio di compiere anche il minimo sforzo. Pochi vip raggiungono il parcheggio camminando. Il prefetto Achille Serra, che va via a piedi. Piero Fassino, che si infila in una Lancia K dall'aria stanca e dall'inelegante colore verde. Il segretario di Rifondazione Franco Giordano, fresco di nomina, che resta smarrito per qualche minuto, finché viene raccolto da una Thesis metallizzata, nuova di fabbrica, che sembra sorprendere anche lui. Alle 11 e 10 la colonna blu si dissolve su via Nazionale per ricomporsi, ancora più voluminosa, davanti alla Camera.

l'espresso

 
 
 

Post N° 668

Post n°668 pubblicato il 25 Maggio 2006 da corsaramora
Foto di corsaramora

Lasciate stare Maria Lourdes, ha un sacco da fare. Impeccabile vestitino da colf, asse e ferro, deve stirare l'interminabile set di travestimenti della sua signora, donna Letizia, «e chi volete che assumesse una che si chiama Lourdes?». A casa Moratti c'è sempre un gran da fare perché «come dice il manifesto donna Letizia è come barbie, piena di vestiti per ogni occasione. Letizia mamma, Letizia operaia, Letizia imprenditrice, Letizia con l'ombelico di fuori, anche in versione da sballo con piercing» - scusate una telefonata - «einz zwei drei heil» - Maria Lourdes deve scappare, viene a cena Romagnoli della Fiamma tricolore. La saga della colf di Letizia è una delle poche cose divertenti della campagna elettorale milanese. Va in rete su www.onemoreblog.org,

 
 
 

Post N° 666

Post n°666 pubblicato il 22 Maggio 2006 da corsaramora
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Quando Ese Elizabeth Alabi si ammalò durante un soggiorno in Inghilterra, ebbe probabilmente a pensare che non tutto il male viene per nuocere:mentre imedici le dicevano che il suo cuore era guasto e che andava cambiato al più presto, deve aver ringraziato il cielo di trovarsi in un ricco paese della moderna Europa, con un sistema sanitario assai più efficiente di quello della sua natia Nigeria. Nulla sapeva della suamalattia prima di imbarcarsi all'aeroporto di Lagos per andare a trovare il compagno residente Oltremanica. E nulla sapeva delle leggi inglesi, su cui comunque riponeva la fiducia dovuta a una delle più antiche e solide democrazie del mondo. Tutto ignorava della paranoia britannica in tema di immigrazione e, soprattutto, di quella piccola norma che il governo laburista - ansioso di evitare un fastidioso «turismo sanitario» da paesi lontani - aveva fatto approvare in Parlamento. Una norma minuscola, di cui l'avrebbero resa edotta imedici dell'ospedale, mortificati nello smorzare il suo entusiasmo iniziale: per i trapianti di organi, la priorità assoluta è data ai cittadini del Regno unito, dell'Unione europea e di pochi altri fortunati paesi. Tutti gli altri, non importa quanto grave sia il loro stato, vengono dopo. Sorry, questa è la legge. Peggio ancora: la giovane nigeriana non sapeva che, ammalandosi e restando in ospedale, avrebbe fatto scadere il suo visto d'ingresso, trasformandosi da sospetta «turista da clinica» in pericolosa immigrata clandestina. A nulla sono valse le battaglie legali condotte da un gruppo di avvocati e dal compagno della ragazza, raccontate con dovizia di particolari dall'Independent ieri in edicola. A nulla è valso il coinvolgimento dell'Alta corte inglese nella delicata vicenda. Ese Elizabeth Alabi èmorta in ospedale l'altroieri all'età di 29 anni. Il governo britannico si è detto rammaricato dal tragico caso e ha espresso alla famiglia le sue più sentite condoglianze.

 
 
 

Post N° 665

Post n°665 pubblicato il 17 Maggio 2006 da corsaramora
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Nel discorso al Parlamento che lo ha eletto alla presidenza della Repubblica, Giorgio Napolitano ha tra l’altro messo un forte accento sul Mezzogiorno, «le cui regioni diventano un asse obbligato del rilancio complessivo dello sviluppo nazionale anche per la loro valenza strategica». Riemerge in queste parole la tradizionale direttiva - né poteva essere diversamente data la storia e la cultura del nuovo capo dello Stato - che la questione meridionale fa tutt’uno con quella nazionale, e che lo sviluppo economico e sociale del Paese non può prescindere da essa. Quest’idea ha presieduto all’azione dei governi della prima Repubblica. Come sempre ci sono state luci e ombre, ma mai come in quei cinquant’anni si è fatto tanto per il Mezzogiorno, irrobustendo con ciò l’intero assetto nazionale. Certo non così nell’età liberale, tantomeno col fascismo, il cui programma di bonifiche si fermò all’agro pontino, dovendosi finanziare la guerra d’Etiopia e quant’altro poi seguì. Ora le cose vanno viste in una prospettiva diversa, ma in un certo senso il problema resta identico. Non si può più ricorrere alla mano pubblica per lo sviluppo industriale. Gli effetti negativi in molte aree meridionali - e Napoli è una di quelle - si tocca con mano. Ma ciò è compensato, in altre zone, da un endogeno sviluppo produttivo. La questione meridionale da vent’anni a questa parte non si presenta più come un tutto unitario. Forti diversificazioni regionali, ma anche locali, ormai la caratterizzano. 

Non c’è più solo uno sviluppo indotto, ma anche uno reale e potenziale che si manifesta. Per farlo crescere e sviluppare occorre modificare il contesto che resta per molti aspetti paralizzante. Ad esempio, infrastrutture ed istruzione, superiore e tecnica, sono due volani necessari. L’intero Paese in quest’ultima fase marca un penoso ritardo, ma il Mezzogiorno ha sofferto della penalizzazione maggiore. L’ultimo governo ha avviato molto lavoro e concluso qualcosa. Poco per il Mezzogiorno: l’autostrada Palermo-Messina è stata in fine completata. Così come è stato avviato l’adeguamento della Salerno-Reggio Calabria, sebbene ora l’Anas non abbia i soldi per andare avanti. Con il nuovo governo il ponte sullo Stretto non si farà. Ma invero molte altre cose debbono essere realizzate, incominciando da strade, porti, ferrovie (abbiamo, su molti tratti della rete meridionale, le velocità del 1939). Non parliamo dell’istruzione. A riguardo basta dare un’occhiata ai finanziamenti extrastatali che ricevono le università lombarde. È ricorrente il detto che il Mezzogiorno può e deve essere il ponte tra i paesi del Mediterraneo e l’Europa. Già, ma con quali infrastrutture? Ci sono inoltre migliaia di studenti universitari, dai Balcani, dal Medio Oriente, dall’Africa del Nord, che vengono a studiare in Europa. Pochi in Italia, pressoché nessuno nel Mezzogiorno. C’è un grande lavoro da fare, e deve essere proprio opera di governo. L’era della globalizzazione non ha cancellato affatto la questione meridionale, ne ha semplicemente modificato i protocolli e li ha resi più urgenti. Ora noi conosciamo le dichiarazioni di principio di tutti i partiti che fanno propri questi obbiettivi di sviluppo e modernizzazione necessaria. E nel momento in cui si forma un nuovo esecutivo non possiamo non guardare innanzitutto alla sua composizione. Nella passata legislatura la presenza di ministri meridionali è stata assai misurata. Anche se non è un indice decisivo per giudicare la politica meridionalistica di un governo, non si può non guardare ad esso, tanto più ora che se ne forma uno nuovo, perché resta indicativo. Attendiamo in tal senso un segnale dal presidente incaricato Romano Prodi. Una delle enfasi ricorrenti cade sui cento primi giorni, quasi a sottolineare che il buongiorno di vede dal mattino. Donde la domanda: c’è un programma per il Mezzogiorno che già segna la prima fase dell’esecutivo e anticipa veramente una nuova e attesa politica meridionalistica?


 
 
 

Post N° 664

Post n°664 pubblicato il 16 Maggio 2006 da corsaramora
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L'Italia pallonara e no, si straccia le vesti, s'indigna e si sorprende per una truffa che qualsiasi addetto ai lavori non coinvolto avrebbe dovuto sospettare da anni. Che farne di D'Alema, si interrogano gli analisti politici. Come risolvere il rebus dei vice-ministri, si arrovella la maggioranza. Intanto, il mondo là fuori gira, macinando il suo raccolto quotidiano. In Iraq, mille morti iracheni nel solo mese di aprile. Tre americani uccisi al giorno. Un disastro senza fine, annunciato, perseguito, ottenuto. L'Iran aspetta. Così il destino di una barca di senegalesi salpata da Capoverde, presumibilmente in direzione di Gibilterra, non può ottenere dalle agenzie che un posto di seconda fila. Eppure, la notizia lascia senza fiato. Un battello partito dall'Africa e arenatosi sulle spiagge dei Caraibi con i corpi mummificati di venti clandestini e i documenti di tanti altri. Quanti saranno stati? Quale incidente li avrà spinti alla deriva per migliaia di miglia sulle onde lunghe dell'oceano? Quali saranno stati i pensieri di questi uomini mentre agonizzavano nella salsedine, tra spruzzi di pioggia o sotto il sole dell'equatore, tormentati dalla fame e dalla sete, mentre i gabbiani volteggiavano sopra di loro? Come saranno morti quelli di cui non restano tracce? La dimensione di questa tragedia ha proporzioni inimmaginabili non solo per il numero dei morti, ma per la vastità degli spazi in cui la loro agonia si è consumata. Ed è inimmaginabile perché è visibilmente la punta di un iceberg, l'indizio di una strage quotidiana e incognita, per terra e per acqua. Fuori i dati, chiedono i piccoli contabili della verità, i raccoglitori di certezze empiriche, quelli che non credettero alla storia della Yohan. E che ci possiamo fare noi, alzano le spalle i tutori dell'integrità demografica, i difensori della purezza etnica e dei confini della patria. DalMarocco, dal Senegal e dalla Libia, dalle coste dell'Asia salpano barche, carrette, bananiere arrugginite con il loro carico di speranza, o di alternative impossibili, verso l'occidente, il nord ricco. E noi che ci possiamo fare, dice il mondo civile. Dall'altra parte dell'oceano, a non troppa distanza dai senegalesi mummificati, Bush, che viola ogni tipo di confine, si appresta a varare misure per proteggere la sua frontiera sud. Si dice che domani sera, dal suo ufficio, prometterà l'invio della guardia nazionale e l'assunzione di contractor per contrastare l'ingresso degli alieni dal Messico. Forse per indorare la pillola, dopo il possibile ritiro del decreto sui clandestini, a cui milioni di latinos si sono opposti nelle strade delle città americane. Chissà. Nel frattempo, i minutemen, i truci difensori volontari della libertà americana puntano i fucili a raggi infrarossi verso il Messico. Il nostro mondo che fa? Lascia che l'oceano, i deserti e, nel caso, gli sbirri degli stati confinari che gli sono asserviti regolino a modo loro il flusso di braccia sottopagate verso la sua economia opulenta. Incidenti di percorso che non meritano le prime pagine, invase dal faccione di Moggi. Abbiamo la civiltà che cimeritiamo. Mentre scrivo, altre barche stanno salpando verso il regno della libertà.
il manifesto

  

 

 
 
 

Post N° 663

Post n°663 pubblicato il 11 Maggio 2006 da corsaramora
Foto di corsaramora

Napoli festeggia il «suo» presidente, ma lo fa senza manifestazioni plateali. Con riservatezza e discrezione, le stesse doti che caratterizzano la vita e la carriera politica di Giorgio Napolitano: anche per questo l’atmosfera festosa in città è piuttosto impalpabile, in attesa di riversare di persona sul nuovo presidente l’affetto tante volte destinato a Ciampi. Pochi minuti dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato, però, era già nato il terno dedicato a Napolitano, nella ricevitoria Celeste di via Ferdinando del Carretto, alle spalle della Questura. Nel secondo bancolotto più antico d’Italia (è del 1923) la proprietaria Ausilia e il fratello Vincenzo hanno ideato il «terno del presidente»: 1 l’Italia, 2 le elezioni politiche, 27 il capo dello Stato. La combinazione è stata custodita e non è stata esposta a fianco ai terni di maggio, quelli della festa della mamma, Santa Rita, San Pasquale e della supplica della Madonna: «Non l’abbiamo esposta per paura che ce la ”rubassero” i concorrenti - dicono i titolari - attendiamo il boom delle giocate domani , giorno dell’estrazione». Poco lontano dal palazzo di via Monte di Dio 49, la sua antica casa, c’è da sessant’anni Giovanni il fruttivendolo, che si racconta anche alle telecamere: «Sessant’anni fa portavo la spesa al presidente». Al di là dei ricordi nostalgici, il popolo napoletano guarda con fiducia al futuro. E chiede al proprio illustre concittadino l’esatto contrario di ciò che chiedono le istituzioni: di non essere imparziale, ma di dare una spinta necessaria alla città, in un momento di difficoltà come questo. «Di meglio non potevamo chiedere - dice Salvatore, avvocato - Napolitano è una figura molto rappresentativa, di grande stile, personalità e credibilità. Ci vorrà anche la sua spinta per far sollevare Napoli dal degrado in cui è caduta. Ciampi ha dato sempre un’impressione di grande equità e imparzialità, da Napolitano ci aspettiamo qualcosa di diverso. Ma il suo impegno da solo non può bastare: insieme a quello di Napolitano ci vorrà anche l’impulso dei napoletani». Negli ultimi tempi, prima dell’elezione, la visibilità mediatica di Napolitano era stata piuttosto relativa. Ma anche i più giovani, nonostante abbiano imparato da poco a distinguere nei telegiornali il volto del nuovo presidente della Repubblica, nutrono grande fiducia nell’illustre napoletano salito al Colle. «Di certo è importante - dice Luciano, barista - il fatto che sia napoletano. Potrà fare davvero tanto per la nostra città, soprattutto per risolvere il problema del lavoro che manca. Ciampi? Mi era simpatico. Napolitano lo conosciamo di meno, non è un personaggio che finisce spesso in televisione. Ma ha un volto buono, come di un gentiluomo di vecchio stampo». I vigili urbani che stazionano sotto palazzo San Giacomo hanno memoria lunga: con i ricordi vanno fino all’ultimo capo dello Stato napoletano, Giovanni Leone, che aveva casa a piazza San Luigi. E ricordano anche le ultime visite al Comune di Giorgio Napolitano, quando qui c’era Bassolino. Visite che poi si sono diradate: ma gli uomini in divisa, «pur non conoscendolo di persona», sono d’accordo sulla nomina. «È un uomo di grande spessore - dice uno di loro - penso che al di là della nomina politica possa dare molto lustro e prestigio alla città». Non è d’accordo con loro Maurizio, che poco lontano staziona insieme ad altri senza lavoro, forse memore di alcune ruggini del passato, di quando Napolitano era ministro dell’Interno: «Come napoletano sono orgoglioso, perché un nostro concittadino è stato eletto. Politicamente non dimentico che è stato rappresentante di un comunismo estremo. Comunque se ha ancora Napoli nel cuore, come la ha avuta Ciampi pur non essendo napoletano, saremo con lui e con la sua azione».

 
 
 

Post N° 662

Post n°662 pubblicato il 10 Maggio 2006 da corsaramora
Foto di corsaramora

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Post N° 661

Post n°661 pubblicato il 10 Maggio 2006 da corsaramora
Foto di corsaramora

i detrattori ricordano malignamente la somiglianza di Napolitano con Umberto II, il re di Maggio, simbolo di un´aristocratica rassegnazione. Chi lo apprezza invece non ha dubbi: sarà un presidente riformista e popolare proprio grazie al suo stile antidemagogico, così lontano dalla politica di oggi. E sarà amato proprio perché un uomo di parte. Senza ombre. Quello che Berlusconi non ha voluto o potuto capire.

 
 
 

Post N° 660

Post n°660 pubblicato il 09 Maggio 2006 da corsaramora
Foto di corsaramora

 Purtroppo non si sbaglia a dire che presto ne arriveranno degli altri, avvolti dal tricolore. Lacrime, gente, discorsi, omelie più o meno accettabili, politici, molta retorica d'occasione e molta ipocrisia. Per ricordare dei ragazzi automaticamente assurti al rango di «eroi» - anzi di «eroi della pace » - mandati invece a morire in due guerra sbagliate. Perché quelle in Iraq e in Afghanistan sono guerre, e non missioni di pace come molti politici e molti opinionisti di grido si sforzano di far credere, e guerre di aggressione. Tre anni dopo l'inizio della prima e tre anni dopo l'inizio della seconda, la situazione è sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. Blindati che saltano sulle mine, elicotteri che cadono, morti, morti, sempre più morti. Resta solo Bush a dire che in quei due disgraziati paesi la democrazia avanza. Al contrario. L'Iraq rischia di andare in pezzi come paese e come Stato, sotto la spinta di una guerra inter-etnica e inter-religiosa che ormai nessuno osa più non chiamare civile. L'Afghanistan è ridotto a una città - Kabul - dove un signore che era impiegato della Halliburton di Cheney è stato piazzato - pardon: eletto - alla presidenza di una repubblica che non c'è. Ma nell'ottobre 2001 e nel marzo 2003 quando Bush, per vendicare l'11 settembre, sferrò la guerra «di liberazione » e la guerra «al terrorismo», qualcuno doveva dirgli che andava a finire in una trappola. In tanti ci avevano provato prima - gli inglesi, i russi - e in quei due paesi si erano impantanati. Quello di Saddam e quello dei taleban erano due regimi aberranti. I «liberatori » avrebbero dovuto essere accolti da rose e fiori, come fu quando gli europei accolsero i bravi ragazzi americani alla fine del nazi-fascismo. Invece hanno trovato bombe e kamikaze. Il terrorismo, anziché non diciamo finire ma diminuire, è dilagato: Madrid, Londra... L'Islam è sempre più rabbioso con l'Occidente che l'ha oppresso e l'opprime. Si fa di tutto perché uno scontro politico divenga una guerra di civiltà. Si dà spazio ai magdiallam e alle emmebonino che incitano all'esportazione armata della democrazia e all'umanitarismo militare. Si lancia una crociata contro le ambizioni nucleari dell'Iran (pacifiche, fino a prova contraria che al momento non c'è) e si consente la «bomba amica» all'India (e a Israele, ovviamente). Come mai non ci si chiede perché scomparsi personaggi orrendi come Saddam e i taleban, gli iracheni e gli afghani muoiono e uccidono anziché cedere ai «liberatori» e ai loro quisling locali? Conquistatori anziché liberatori. C'è chi spinge per allargare quei conflitti - e altri: all'Iran, alla Siria e chi più ne ha più ne metta perché di regimi fetenti il mondo è ricco - e c'è chi, più moderato, dice che non ci possiamo ritirare adesso perché se no il terrorismo l'avrebbe vinta. E tutti insieme dicono che non bisogna fare come Zapatero. Un vile «tutti a casa», un 8 settembre bastardo. Un'ipotesi che coincide con quella espressa ancora ieri da Robert Kaplan, uno dei perversi cervelli dei neo-con: «Ritirare i soldati italiani sarebbe una decisione irresponsabile ». Irresponsabile per chi? Il Kosovo, l'Iraq e l'Afghanistan non bastano?

 
 
 

Post N° 659

Post n°659 pubblicato il 06 Maggio 2006 da corsaramora
Foto di corsaramora

ancora morti

" I giorni della «fratellanza» seguiti all’operazione «Enduring freedom» e alla vittoria dell’«Alleanza del nord», istruita e protetta militarmente dagli Usa, sembrano dissolversi nel susseguirsi di piccoli e grandi attentati. Il processo democratico che, con qualche illusione anche di natura elettorale, si prevedeva convulso almeno nelle aree a forte concentrazione demografica, non si è rivelato smagliante come gli abiti tradizionali sfoggiati nelle sedi internazionali dal presidente Karzai.

Certo, molti dei «signori della guerra» incentivati con valigette di dollari alla moderazione e poi lasciati in piena autonomia alla gestione di traffici che spesso, con l’oppio, avvelenano il mondo, sono meno impegnati nella lotta tribale tra bande. Ma, nei fatti, parecchie delle frontiere interne dell’Afghanistan restano impermeabili al soffio della modernizzazione."

dal mattino

 
 
 

Post N° 658

Post n°658 pubblicato il 01 Maggio 2006 da corsaramora
Foto di corsaramora

mi dissocio assolutamente dai fischi e dalle contestazioni tributate alla Moratti,ma mi chiedo ,se non fosse candidata al comune di Milano,sarebbe mai andata a manifestazioni come quelle del 25 aprile e quella odierna??

io non l'ho mai vista e voi????

 
 
 

Post N° 657

Post n°657 pubblicato il 30 Aprile 2006 da corsaramora
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ISCHIA

"LA MONTAGNA CADEVA"

Una nuova tragedia annunciata, in un territorio, quello italiano, nel quale il rischio idrogeologico è altissimo. Frane, alluvioni e smottamenti: in Italia sono oltre 5.500 i comuni a rischio. E la Campania, teatro del dramma di Ischia, è al terzo posto nella lista nera delle regioni più esposte.

 
 
 

Post N° 656

Post n°656 pubblicato il 28 Aprile 2006 da corsaramora
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il  nuovo attentato con nuove vittime italiane a Nassiriya torna a riacutizzare stati d’animo di dolore e a riproporre domande angosciose alla coscienza nazionale. Sgombriamo il campo da questioni improprie, come quella del confronto quantitativo delle vittime americane, di altri contingenti della coalizione operanti in Iraq, della popolazione civile. Ogni uomo civile soffre per la morte di ogni altro essere umano, quale che sia la sua nazionalità e razza. Ogni uomo civile deve saper piangere il lutto dei suoi simili, per quanto lontani possano essere. Perché non solo l’amore del prossimo, ma soprattutto l’amore dei lontani misura il segno dell’incivilimento del genere umano. La questione che si solleva è solo in parte, anche se in una parte essenziale, umanitaria. Il profilo più esigente è quello costituzionale e politico. Il ripudio della guerra, sancito dalla nostra Costituzione, sembra debba cedere dinanzi alla necessità di operazioni di stabilimento della pace o della sua conservazione, quando siano decise non unilateralmente, ma con il consenso e la risoluzione della intera comunità internazionale. Ma anche, ammettendo in linea di principio la compatibilità tra il ripudio costituzionale e la necessità politica dell’intervento militare, le condizioni di una tale componibilità sono tutte volta a volta da accertare. In un contesto bellico gestito da potenze internazionali, non scoppiato all’interno di uno Stato, per un conflitto civile o razzista, come è accaduto nei Balcani, quanto e come si differenzia la presenza militare straniera in mezzo alle popolazioni civili, tra eventi bellici, scontri armati, attentati terroristici di gran lunga prevalenti su azioni di ristabilimento della pace? Le tecnologie odierne consentono guerra e guerriglia diffuse con una micidialità mai conosciuta nel passato

È illusorio perimetrare aree in cui si combatte e aree in cui si preserva la pace. La questione politica sta nel porre in termini razionali il rapporto causale tra l’iniziativa della guerra e la esigenza della conservazione della pace. Siamo di fronte alla ennesima replica del principio antico: se vuoi la guerra, che appaia almeno come ricerca della pace. Ma in questo gioco tra apparenza e realtà, le parti non sono più come un tempo gli Stati con i propri eserciti. La guerriglia e il terrorismo scompigliano ogni strategia politica della guerra regolare. La scelta della guerra impone calcoli esatti sui risultati raggiungibili nel rispetto di quell’antico principio. Nel caso dell’Iraq quei calcoli sembra siano stati sbagliati. A dirlo non sono più soltanto quanti in Europa e nel mondo erano pregiudizialmente contrari all’intervento americano, ma anche quanti da sempre lealmente sostenitori di una coesa azione comune euroamericana, non sono più persuasi dalla politica dell’attuale amministrazione statunitense. Ritirarsi da un teatro di guerra non è viltà. Nessuno oserebbe considerare i fierissimi spagnoli, ritirati dal loro governo, all’indomani dell’attacco terroristico nella loro patria, come impauriti. Quando una presenza militare all’estero non realizza il proprio fine, è ragionevole ritirarla. Si studino i tempi e i modi, ma si dia chiarezza alle ragioni del venir meno dello scopo prefisso e fallito. E sarebbe ora, in democrazie avanzate come quelle occidentali, che il dilemma guerra o pace non sia sciolto solo da governi e parlamenti, ma con strumenti di deliberazione diretta dai cittadini. I quali, proprio quando si tratta del bene supremo della vita umana, hanno titolo a far sentire la propria voce, e non soltanto ad ascoltare, quando è troppo tardi e tutto è già tragicamente accaduto, le parole di sincero dolore e di fraterno conforto dei propri governanti.

 
 
 

Post N° 655

Post n°655 pubblicato il 27 Aprile 2006 da corsaramora
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Crede ancora di essere una diva, quando nel cuore della notte entra in una delle case alla periferia di Atlanta dove si radunano i fumatori di crack.
Per comprare una dose da pochi dollari Whitney Houston si è messa addosso una pelliccia di visone, al dito che trema accendendo la pipetta ha un anello di diamanti.
Quando i cristalli di cocaina prendono fuoco e la droga le arriva al cervello, lei inizia a cantare a se stessa, le mani alzate verso il cielo, e chi riesce a sentirla dice che la voce è ancora quella incredibile di una volta.
Ma invece del pubblico che una volta la applaudiva ora ad ascoltare ci sono solo gli spacciatori e i loro clienti. «Shut up, bitch!», «Taci, sgualdrina» dice uno di loro, e compone al telefono il numero degli amici della cantante perché se la vengano a riprendere.

C'è qualcosa di osceno quando il sogno americano comincia a girare al contrario e a raccontarlo sono i tabloid: il finale è sempre scontato.
Per Jimi Hendrix furono i barbiturici, per John Belushi gli speedball fatti di eroina e cocaina, per Kurt Cobain un colpo di pistola in testa dopo avere sfiorato troppe volte l'overdose.
Ma nessuna delle morti in diretta dello spettacolo americano somiglia allo show offerto ora da Whitney, la faccia d'angelo ridotta a un teschio da dosi da cavallo di crack
, la droga di chi vive nei ghetti delle grandi città americane o di chi quei posti non è riuscito a scrollarseli di dosso neppure dopo avere conquistato il mondo con un acuto impossibile.

 
 
 

Post N° 654

Post n°654 pubblicato il 27 Aprile 2006 da corsaramora
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