Creato da corsaramora il 24/05/2005
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Messaggi del 10/10/2005

Post N° 460

Post n°460 pubblicato il 10 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Trasparenza: ecco una parola (e una richiesta) di fronte alla quale la persona davvero sincera rimane, almeno un po’, perplessa. Non parliamo poi dell'abuso della stessa parola. Alla Regione Lombardia l'assessorato alla cultura si chiamava (forse ancora si chiama) «alla cultura, e alla trasparenza», due cose che non c'entrano nulla l'una con l'altra. La cultura infatti è, fatalmente, anche torbida, ricca di atmosfere incerte, nebbiose, dove regna l'ambiguità. La cultura «trasparente» naturalmente non esiste, o rappresenta solo rarissimi vertici dell'esperienza creativa e culturale

l'essere umano non è trasparente. Le sue emozioni, sentimenti, pensieri nascono in una continua interazione tra pancia, cuore, cervello, e anima, o se vogliamo psiche: tutti aspetti, psiche compresa, che non sono affatto trasparenti. E non devono esserlo, come non lo sono quelle due componenti fondamentali dell'essere umano, sia dal punto di vista fisico, che da quello simbolico, che sono la carne, e il sangue.

Il vetro, invece, è trasparente, così il diamante, come certi materiali sintetici: tutte cose morte, senz’anima, appunto. Ma quando il soffio vitale incomincia a pulsare nel corpo di carne, lì di trasparente non c'è proprio nulla. È proprio per questo che la richiesta di trasparenza (sostituitasi da qualche decennio alla tradizionale: sincerità), rivolta all'essere umano, genera solo malintesi guai, o menzogne. Anche perché nessuno si conosce perfettamente, e quindi non può essere trasparente con l'altro. 

 Per disintossicare i rapporti umani da questa impropria richiesta di trasparenza, è ormai urgente riportare questa pericolosa parola nel suo ambito proprio: quello delle cose, liberando la vita delle persone da questo incontentabile fantasma. Giustissimo, allora, che la trasparenza venga richiesta nelle procedure, che appunto sono cose, dispositivi amministrativi, finanziari, giuridici, e non persone. Non è il banchiere che deve essere trasparente, ma le procedure da lui applicate nell'amministrare i risparmi affidatigli dai clienti. Non il politico deve essere trasparente, richiesta demagogica che apre la strada a mille falsità e manipolazioni, dalle intercettazioni telefoniche a molto peggio. Lo devono essere però i suoi modi di amministrare la cosa pubblica. Diventeremmo così meno impiccioni dei fatti altrui, ma più felici

 
 
 

Post N° 459

Post n°459 pubblicato il 10 Ottobre 2005 da corsaramora
Foto di corsaramora

Compie mezzo secolo il prestigioso riconoscimento
che dal 1955 la Fondazione assegna alla "foto dell'anno"
Cinquant'anni di World Press Photo
per mettere a fuoco la Storia
di ALESSANDRA VITALI

ERA il 4 settembre del 1957. Dorothy Counts mise piede, prima nera fra i bianchi, con altri tre neri come lei, nella Harding High Schools di Charlotte, North Carolina. Era prevedibile quale accoglienza fosse stata loro riservata: proteste, lancio di pietre, "tornatene da dove sei venuta". La sommossa si estese ad altre città, e lunga fu la battaglia per la conquista dei diritti civili. Ma Douglas Martin, fotografo dell'Associated Press, fermò nel tempo quegli istanti infiniti, Dorothy sulla strada della scuola, i lineamenti in tensione, gli studenti bianchi che la insultano. Come aver detto alla Storia "fermati un attimo" e quella s'è fermata. Sospesa negli scatti di chi c'era, ha scippato il presente e l'ha consegnato al futuro.

Sono tessere raccolte in cinquant'anni quelle che compongono il puzzle della Storia raccontata dal World Press Photo, il più ponderoso e prestigioso concorso di fotografia giornalistica del mondo, che premia le migliori foto dell'anno. I tredici membri della giuria esaminano, ogni dodici mesi, circa 70 mila foto, inviate da 4266 fotografi di 123 Paesi. Che raccontano i drammi individuali, collettivi, globali.

Organizzato dal 1955 dalla Foundation indipendente, con base ad Amsterdam, il premio spegne cinquanta candeline. E invita ad aprire gli occhi su Things as they are, "Le cose così come stanno", che è il titolo della pubblicazione preparata da World Press Photo per il compleanno. Centoventi servizi e ottocento scatti, insieme ai racconti di chi ha manovrato l'obiettivo. Perché le foto sono utili per ricordare, ma le parole dell'autore possono aiutare a capirne il senso più profondo.


A volte le didascalie sono stati d'animo. "Vincere con una foto di fame mi ha fatto vergognare", confessa Michael Wells, premiato nel 1980 per quella mano piccolissima e avvizita di un bimbo, poggiata sul palmo grande, e vivo, di un missionario, realizzata nel distretto ugandese di Karamoja.

Altre volte, è la foto stessa che assegna all'occhio di chi guarda il compito di interpretare: come nel caso di quella che ritrae Salvador Allende, quell'11 settembre del 1973, nel palazzo della Moneda, protetto, ancora per poco e inutilmente, dalla guardia presidenziale. Fu pubblicata dal New York Times ma non se ne conobbe mai l'autore.

Certe volte non c'è bisogno di spiegare. Perché accanto al cadavere semisepolto di un bimbo ucciso a Bhopal dalle esalazioni della Union Carbide sarebbe inutile scrivere qualcosa. Così come per la bambina vietnamita che fugge dal napalm, nuda, le braccia spalancate, in mezzo a una strada. La fotografia "ha l'incisività di una massima, funziona come una citazione, avverte come un proverbio", dice Susan Sontag.

La protagonista di buona parte delle immagini di World Press Photo, tuttavia, è la morte, con la quale la fotografia ha stabilito fin dalla sua nascita un rapporto privilegiato. Presente o prossima, casuale o intenzionale, monito e denuncia e protesta. La caduta rovinosa di un motociclista durante una gara in Danimarca (1955, la prima foto premiata), la fine, nel Vietnam del Sud, del monaco buddista Thich Quang Duc che si lascia divorare dalle fiamme, l'esecuzione di un vietcong per mano di un sudvietnamita a Saigon.

E poi il massacro di Sabra-Shatila, il corpo di un uomo malato di Aids, il lenzuolo bianco che copre un bimbo afgano ucciso dagli stenti, la disperazione di una donna indiana alla quale lo tsunami ha spazzato via tutta la famiglia, i piccoli corpi mutilati dei ragazzini di Kuito, Angola, le madri che seppelliscono i figli. Insomma, tutte le brutture del mondo, e quindi "Le cose, così come stanno".

 
 
 

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