Creato da votattilio2008 il 28/03/2008

A.T.T.I.L.I.O.

Attivisti Territoriali Terribilmente Incazzati Lievemente Inconsapevoli a Oltranza

 

 

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Il voto e il congresso

Vi annoio due volte oggi: la prima è questa nota che rappresenta una rielaborazione della precedente. Ho inviato queste misere riflessioni ai "piombini democratici" come contributo al convegno che stanno organizzando al Lingotto.

Fra poche ore, invece, vi annoierò con una notarella più stronza a proposito delle anime belle.

1) Il voto

4.416.676. Sono i voti che il Pd ha preso in meno questa volta rispetto alle politiche dell'anno scorso. Se vediamo la distribuzione territoriale dei voti ci rendiamo conto quando il Pd regga soltanto in quelle che una volta venivano chiamate Regioni rosse. E anche lì si regge appena. In Emilia la lega sfonda la barriera che la vedeva da sempre confinata nelle Regioni del Nord. Prende voti anche in Toscana, perfino alle amministrative, segno di un radicamento che cresce. Segno che può spendere candidati credibili, che conoscono il territorio. Prende perfino un seggio alle europee nella circoscrizione Italia centrale. Mai successo prima.

Il Pdl è primo partito nelle Marche, in Umbria. Nel Lazio se sommiamo i voti di Pd, Idv e Udc (sempre che siano sommabili) non arriviamo alla somma dei voti del Pdl.
A Roma il Partito democratico perde quasi il 9 e mezzo per cento dei voti rispetto alle politiche. Nel Lazio quasi il 7.

E poi c'è quella cifra lì che fa paura. 4.416.676. Una volta le vittorie e le sconfitte, prima che sulle percentuali, si valutavano su quella cifra lì, quella dei voti assoluti. Perché ti danno una percezione netta: quella cifra ti dice quante persone in più o in meno hai convinto, non la percentuale di quelle che sono andate a votare. E' importante perché l'astensionismo è un altro sintomo di sfiducia che ha penalizzato molto il Pd. La Lega, tanto per dire, non ha risentito dell'astensionismo.

A Roma, vexata questio, perdiamo 287.110 voti. Vale a dire che il 41 per cento delle 690.340 persone che ci aveva scelto un anno fa non ha rinnovato la sua fiducia al Partito democratico.

Perdo un attimo per rispondere a chi dice che il confronto non si può fare con le politiche di un anno fa perché allora c'era il voto utile. C'era anche adesso. Sapevano tutti che né Sinistra e Libertà né Rifondazione avrebbero raggiunto la soglia del 4 per cento utile a prendere seggi. Né ci si può appellare alla presenza in lista dei radicali, un anno fa. Fino a ieri eravamo tutti concordi nel dire che i Radicali non ci avevano portato un voto, perché il loro è in gran parte un voto di opinione. Anzi, quelli che adesso per alleviare la portata della sconfitta si appellano a Pannella e Bonino, erano quelli che fino a qualche giorno fa ci spiegavano che la presenza dei radicali in lista aveva allontanato dal Pd buona parte del voto cattolico.

Né si può dire che i sondaggi fino a poco tempo fa ci davano al 21 per cento. E' falso. Sappiamo tutti che i sondaggi ci hanno dato sempre intorno al 25 per cento, con punte vicine al 30 per cento quando abbiamo fatto il Pd (ad esempio in occasione della straordinaria manifestazione del Circo Massimo) salvo che in un periodo ben preciso: dopo le dimissioni di Veltroni, quando precipitammo al 22 per cento.

Ora sia ben chiaro, sono tra quelli che credevano e che credono ancora nel progetto del Partito democratico. In quello illustrato da Veltroni (non è una parolaccia si può dire anche due volte nella stessa nota). A quel progetto hanno dato fiducia 12.424.530 italiani. Poi di quel progetto si sono perse le tracce.

Un anno fa ci dicemmo che quel 33,2 per cento era la base da cui ripartire per costruire un progetto diverso per l'Italia. Adesso la base è diventata il 26,1 per cento.

Il problema è come e quando ripartire. Come tornare in campo davvero, come essere percepiti come un'alternativa credibile per governare il Paese.

2) Quale partito e come ripartire

Occorre una netta discontinuità che non può essere rappresentata né da Franceschini né, tanto meno da Bersani. Serve che scenda in campo la “generazione democratica”, una generazione non invischiata nelle beghe del passato, che guarda il futuro e non al secolo scorso.
Intanto il Pd non può essere il partito che unisce semplicemente il campo cattolico progressista e il campo della socialdemocrazia. Sono categorie, lo ribadisco, che appartengono al secolo scorso. E la sconfitta, uniforme in tutta Europa, del Pse non fa che confermare la crisi profonda del modello socialdemocratico. Negli anni scorsi la crisi di “senso” del campo progressista è stata mascherata da Tony Blair in Inghilterra e da Zapatero in Spagna. Ma anche il new labour è stata una risposta difensiva, ha rappresentato un arretramento sul campo dei diritti e del lavoro. E si tratta comunque di “stelle” basate più sul carisma delle persone che su un progetto politico complessivo.

Per questo il congresso del PD di ottobre non è un appuntamento qualunque che possa essere liquidato da un accordo del cosiddetto caminetto. Un metodo che ci fa perdere da 20 anni. Un metodo che garantisce soltanto pezzi di potere. La stessa candidatura di Deborah Serracchiani come vicesegretaria di Franceschini appare più come una foglia di fico che come reale rinnovamento. La generazione dei quarantenni e dei trentenni deve avere ben chiaro che serve una battaglia per scalzare il vecchio. Non bastano le cariche generosamente elargite per fare un partito nuovo.

Un partito nuovo che, a mio avviso, non può che rilanciare la sfida progressista: serve il partito dei diritti. Questa è la nuova frontiera su cui possiamo tornare a dare battaglia alla destra. In un momento di ripiegamento, in cui sembrano vincere gli egoismi e la protezione di un proprio spazio messo sempre più in discussione, la risposta non può essere la semplice difesa dell’esistente. Dobbiamo rilanciare sui temi dell’immigrazione, delle scelte etiche, dei nuovi lavori.

Mi permetto di suggerire, infine, tre punti su cui basare una battaglia congressuale

1) Azzeramento della classe dirigente dalle federazioni in su
Nella grande maggioranza dei casi si tratta di dirigenti che derivano da una rigida spartizione correntizia. Il messaggio di rinnovamento che aveva lanciato Veltroni al lingotto non è riuscito a entrare in profondità nel nostro partito. Dunque candidati “liberi” a tutti i livelli. Candidati che non lavorano nella segreteria del parlamentare o del consigliere regionale di turno. E direi anche divieto di ricoprire incarichi esecutivi nel partito a livello regionale e federale per i parlamentari e i consiglieri regionali.

2) Dare centralità ai circoli, oggi semplice cinghia di trasmissione delle correnti.
I circoli devono diventare i titolari dell’azione politica sul territorio. Oggi, troppo spesso, sono il “regno personale” di questo o quell’esponente politico locale. A Roma, dove oltre al Comune abbiamo un’ulteriore divisione amministrativa, costituita dai municipi, rappresentano troppo spesso il territorio di caccia del consigliere municipale di zona.
Il partito degli eletti, insomma, è più che una realtà. Si supera e si sconfigge se si danno voce e poteri ai circoli. Referendum sui temi rilevanti, rispetto rigoroso del codice etico, periodicità obbligatoria nella riunione degli organismi dirigenti locali, uso della rete per la diffusione delle informazioni e come strumento di dibattito permanente. Su questa strada si esce dalla logica dei caminetti e si costruisce un partito davvero democratico.

3) Un congresso vero, dove non si contano le persone, ma si confrontano opzioni politiche alternative.
Il nostro Statuto, purtroppo, prevede non tanto un congresso, quanto una semplice “pre-conta”, cioè un posizionamento dei diversi candidati alla segreteria nazionale prima delle primarie aperte a cui viene data l’ultima parola. Se tutto ciò non è preceduto da una discussione sull’identità del Pd, sui valori, sulle risposte che dobbiamo dare a una società sempre più impaurita, tutto ciò rischia di essere inutile.

 
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