a meno che non sia solo invidia

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Mia sorella oggi ha 4 anni più di me, ma io rimango il suo punto di riferimento inteso come quello a cui rivolgersi per qualunque problema o consiglio. Come se li avessi io più anni di lei. Il tempo è liquido. Da bambino, quei suoi 4 anni in più, mi sembravano una distanza irraggiungibile. Giocava con me solo quando mamma glielo chiedeva quasi implorandola perché lei si annoiava a farlo e, quelle volte che lo faceva, era solo  “a nascondino” e toccava  sempre a me nascondermi. Quando non giocavamo, giravo per il castello a cercare posti nuovi, forse, per  renderle il gioco più interessante nella speranza che lo facesse di più. Non dimentico l’ultima volta che avevamo giocato perché mi feci pipì sotto. Mi ero nascosto pensando “la faccio dopo” e più il tempo passava e più, emozionandomi perché non mi trovava, la trattenevo fino a non riuscire più a farlo. Piansi, non per quello, ma perché scoprii che lei nemmeno mi stava cercando. Se n’era andata a giocare con le cuginette arrivate dalla Normandia nell’ampia tenuta che circondava il maniero. Giocava con quelle smorfiosette incartate nei loro vestitini di pizzo, velluti e merletti mentre io stavo nascosto come uno scemo. Non solo la pipì, ma anche il tempo è liquido e scorre lento o veloce, a volte rapido e vorticoso, a volte così piano da impantanarsi, ma sempre e solo seguendo le nostre emozioni, le nostre attese, i nostri timori o le nostre noie. Ognuno di noi lo legge e lo interpreta così come lo  vive. Ne è trascorso tanto da allora. Napoleone era appena stato sconfitto a Waterloo, ma la notizia l’apprendemmo circa un anno dopo. Le connessioni all’epoca erano lente. Altro che 4G, si viaggiava su  quel passaparola dove io lo dico a te, tu ad un’altro e così via finché la cosa che hai detto torna di nuovo a te. Proprio come le notizie, la realtà o la verità che ognuno arricchisce o impoverisce con la propria chiave di lettura o pregiudizio. Una roba che all’epoca chiamavamo realtà virtuale per distinguerla da quella reale. Lo facciamo ancora adesso, come se la realtà reale lo fosse davvero. A me, infatti, bastava uscire dal castello in cui vivevo ed entrare nelle case dei coloni per scoprire che la mia realtà era diversa dalla loro e la loro dalla mia. Quando ne parlavo con mio padre, il marchese, lui mi diceva che dovevo fare attenzione a non confondere la realtà con la ricchezza e la povertà perché esse sono solo due differenze sociali di una stessa realtà.
“Noi, Filiberto Emanuele, apparteniamo tutti alla stessa specie, siamo solo più ricchi di altri”, mi diceva.
“Quindi lo stato sociale è solo una componente della realtà, ma non la condiziona. La realtà è una e non sono tante. Se io mangio tre volte al giorno ed il colono mangia una volta ogni tre giorni, la sua realtà è sempre uguale alla mia?”
“Filiberto Emanuale, adesso vai a giocare, dai”, tagliò corto.
“Sì padre.”
Tornando a mia sorella, forse proprio pensando al suo tempo mi ero sempre detto, nella speranza che accadesse, che se fossi tornato a nascere avrei fatto come lei che si era buttata nella scuola malgrado i nostri genitori avessero sempre osteggiato questa sua volontà. Entrambi marchesi, ambivano per lei soltanto ad un matrimonio di pari lignaggio. Pensare che la marchesina potesse aspirare ad un lavoro ed alla sua indipendenza sarebbe stato come bestemmiare in casa del Vescovo. Mia sorella era però testarda e riuscì nel suo intento e mi convinsi anch’io di quella leggenda metropolitana secondo la quale la scuola non è un mestiere, ma una missione.
Io, invece, non essendo tagliato per gl’idealismi e gli eroismi, non scelsi cosa fare, ma lasciai che fosse mio padre a decidere per me ed oggi, Marchese del Trullo, sono l’amministratore di un enorme patrimonio immobiliare che si distende in mezza Puglia. Certo, a distanza di circa tre secoli non sono famoso come mio cugino, il Marchese del Grillo, ma sicuramente più ricco di lui. Tornando alla scuola, mi bastarono poche riflessioni per farmi capire che anche se fossi tornato a nascere non avrei potuto accedere a quel mondo perché quella, anche se appare, non è una scelta. Col tempo mi sono convinto che chi sceglie quel mestiere lo fa perché appartiene ad una specie diversa. Darwin, se ci si fosse dedicato, avrebbe scoperto che quella è una specie particolare. Non solo intelligente, ma anche letargica e, come tale, già a maggio in coincidenza con la chiusura delle scuole comincia a prepararsi al fancazzismo di un letargo che durerà fino al primo ingiallir  di foglie. Sappiamo che per qualunque specie, l’evoluzione è il frutto di una ricerca costante e continua del proprio benessere, quello che cambia dall’una all’altra è solo il filo conduttore e, nella specie dedita alla scuola, la molla evolutiva rimane il fancazzismo.
Una specie che, conscia della propria influenza culturale nella società,  sfruttando a proprio vantaggio il punto d’incontro fra religione e società, è riuscita a personificare il calendario religioso del Natale e della Pasqua facendo sì che tali festività diventassero più lunghe a scuola che in Chiesa.
Altro esempio folgorante della bulimia fancazzista, quando l’intelligenza diventa genialità, sta in quell’aver messo le mani sulla democrazia sfruttando la sua icona più rappresentativa: l’urna. Qui, per evitare di dare il fianco al pregiudizio, non esprimerò opinioni, ma porrò solo una domanda: “siamo proprio sicuri che l’unico posto abbastanza ampio fra le tante strutture possibili, dove far recare la gente a votare fosse proprio la scuola? Fra le tante attività sociali, proprio l’istruzione è quella da sospendere?”
La ciliegina sulla torta però – dopo religione e società, e dopo la democrazia – è il passaggio dal geniale al diabolico: la DAD. Certo la DAD può considerarsi un passaggio obbligato come lo smart warking con la differenza però che con lo smart warking il lavoro te lo porti a casa mentre con la DAD la parte maggiore del lavoro lo mandi a casa di mamme e nonni trasformandoli in volontariato involontario. Certo riportare mamme e nonni nei banchi di scuola, considerato il grado d’istruzione di questo paese, non è così male, ma questo è un altro discorso. Il punto è che la scuola si toglie dalle palle l’oggetto fisico del proprio lavoro e già questo è un gran bel trasloco.
Quindi, per non farla troppo lunga, ma solo per distruggere un’altra delle tante leggende metropolitane, la scuola non è un mondo accessibile a chiunque, ma solo ad una specie particolare che abbia requisiti non comuni a tutte le specie. Non so se per DNA o per culo.
A meno che la mia non sia solo invidia.
a meno che non sia solo invidiaultima modifica: 2021-06-08T14:27:53+02:00da arienpassant

26 pensieri riguardo “a meno che non sia solo invidia”

  1. Quello che ho sempre pensato di te, è ancora una volta sotto i miei occhi. Se non ti volessi bene, la mia sarebbe solo invidia. Chapeau 🙂

  2. Non so se succede anche a te. Guardando un quadro, ad esempio, pensare che ogni volta che lo fai hai come l’impressione che ti parli. E’ per questo che porto sempre con me la mia moleskine. Come quella volta in giardino. Nulla di che, fecero tutto loro. Io presi solo appunti e, più o meno fedelmente, li riportai.
    Dico questo perché, certe volte mi prendo uno “chapeau” ma, non meritandolo, trattengo per me solo la parte che mi spetta. Il merito di aver catturato l’attenzione degli Dei. Magari, regalandogli un sorriso che, questo sì lo so, non è poco. Perciò tengo per me solo la mia parte di “chapeau”.

  3. 🙂 se volevi essere modesto, sei andato nella direzione opposta…mio caro, ma ti sembra poco catturare “l’attenzione degli Dei”? come minimo sei un privilegiato, e comunque resta un’arte traslare le loro vibrazioni in parole così bene concertate. P.S. Mi scappa (non la pipì)… devo dirtelo, manca una virgola. P.S. siamo stati troppo melensi in queste ultime 24 ore, ho paura degli effetti collaterali 🙂

  4. no, non è poco catturare quell’attenzione, infatti lo considero un bel privilegio. Non ho voglia di cercare quella virgola e nemmeno di preoccuparmi degli effetti collaterali…

  5. Mi sembra giusto, ma non mettermi il broncio perché tu avrai pure un canale privilegiato con l’Olimpo, ma io ho le vibrisse…

  6. Eheh, un’altra sfaccettatura di bellezza in alcune persone è proprio quel non saper dire bugie e provarci lo stesso e fanno bene perché non tutte le bugie sono brutte. Alcune, come l’uppolo nella birra, non stonano, ma le aggiungono sapore.
    Ferma, non provarci, posa quella matita, perché non si sa con precisione chi e quando decise di aggiungere l’uppolo alla birra. Di sicuro lo si fa da prima che nascesse la scrittura e pare che un frate che assaggiò la birra che faceva un contadino gli chiese:
    “e questo sapore leggermente amaro come glielo dai?”
    “Durante la fermentazione ci aggiungo l’uppolo”
    “e cos’è l’uppolo?”
    E il contadino gli mostrò la pianta.
    Col passare del tempo l’uppolo, per mano di chi sbagliò a scriverlo, divenne luppolo e pretese anche l’articolo “il”.

  7. Egregio Marchese del Trullo, con riferimento alle grandi fortune (nel suo caso di forma conica), Le riporto il punto di vista di un uomo che ebbe a frequentare la buona società, e che presumibilmente sentirà affine almeno in parte. Le lascio il piacere di indovinarne il nome.
    “Una certa aristocrazia, educata sin dall’infanzia a considerare il proprio nome come un privilegio interiore che niente le può sottrarre (e di cui i suoi pari, o le persone di nascita ancora più elevata, conoscono con sufficiente esattezza il valore), sa di potersi risparmiare – dal momento che non le procurerebbe ulteriori vantaggi – gli sforzi che tanti borghesi compiono, senza risultati apprezzabili, per professare soltanto opinioni “ben portate” e frequentare soltanto i benpensanti. In compenso, ansiosa di innalzarsi agli occhi delle famiglie principesche o ducali immediatamente al di sotto delle quali si situa, questa aristocrazia sa di poterlo fare solo aggiungendo al proprio nome qualcosa che non conteneva già, qualcosa che, a parità di nome, farà sì ch’essa prevalga: un’influenza politica, una fama letteraria o artistica, una grande fortuna economica”.

  8. Ma chère J. de Camembert che bello rileggerti e, soprattutto, non immagini le cose che mi hai riportato alla mente così come non sai, colpa mia a non avertene mai parlato, gli intrecci ed i ricordi che mi hai consegnato con questo tuo messaggio.
    Come hai letto, ho parlato delle mie cuginette in Normandia e una di quelle, la più piccola (all’epoca aveva 11 anni), si chiamava Odette de Crécy, ma questa è un’altra storia.
    Mi hai riportato in mente il Marchese di Norpois, quello di cui parla Marcel, grande amico di Adrien e di Jeanne, suoi genitori. Fra l’altro, mio padre era grande amico di Adrien e, poiché teneva molto a scalare l’aristocrazia, sperava che gli facesse conoscere il Marchese di Norpois.
    Noi ci recavamo almeno una volta l’anno in Normandia presso gli zii e, intorno ai miei 15 anni, ci andavo sempre più con piacere e solo per incontrare Odette che all’epoca già prometteva bene.
    Ricordo anche quando con mio padre andavamo a Parigi dai Proust. Gli portavamo sempre l’olio dalla Puglia. Gli adulti si richiudevano nello studio a discorrere delle loro cose ed io giocavo con Robert, il fratello di Marcel. Con lui era impossibile giocare perché stava sempre a scrivere quella che diceva sarebbe stata la più grande opera letteraria mai scritta. Diciamo che aveva qualche problema l’enfant. Non ti nascondo che, una volta preso dalla curiosità, gli chiesi se me ne faceva leggere qualche pagina. Pensavo di no, invece ne fu felice. Era puro esibizionismo. Inutile dirtelo, scriveva da cane. Quanti ricordi e che tempi.
    Ma chère un grande abbraccio, un bacione e non perdiamoci.

  9. Buongiorno. Quando vorrà mi spiegherà come ha fatto a risalire al marchese di Norpois. Capisco la stracitata madeleine, ma la pagina di ieri non credo sia materia da web…e se lo è, mi sono persa qualcosa.

  10. Bonjour madame, quando qualcosa m’incuriosisce, ma non la conosco, prima di parlarne, faccio qualche ricerca per restare almeno in traccia. In questo caso però è vero, ti sei persa qualcosa. Ti è sfuggito che Marcel mi aveva fatto leggere qualche sua pagina. Poi, più in là, sempre frequentandoci, c’è stato un periodo in cui parlavamo molto, lui più di me a dire il vero, ed era proprio il periodo in cui lui, a differenza di me, si era perduto per Odette. Questa però, è un’altra storia. Infatti, non la trovi nella “recherche” e da nessuna altra parte. Magari te la racconterò.

  11. In attesa che venga svelato l’arcano, divento seria. Non ho mai creduto nel caso, e più passa il tempo più si rafforza il convincimento che esiste un filo rosso in grado di legare esistenze lontane, come ad esempio la mia e la tua. Mi spiego. Leggo il tuo post, ci scherziamo su, lo archivio. Il giorno dopo incappo nella pagina che ti ho riportato. Sebbene io abbia già letto il primo volume della Recherche da cui quella pagina è tratta, sarebbe mai credibile che ne avessi conservato memoria, (tenendo conto che la prima lettura della stessa risale al febbraio del 2006) e l’avessi tirata fuori perché si legava in qualche modo al tuo racconto? Ovviamente no, e oltretutto, pur con tutta l’ammirazione per Proust, non è tra le sue pagini più memorabili; e inoltre, io il marchese di Norpois non lo cito, ma tu lo tiri fuori dal cilindro, e così il marchese del Trullo non si sente più solo, perché ora a fargli compagnia c’è un suo pari comparso dal nulla. 🙂 Davvero possiamo ridurre tutto questo all’opera del caso? No, Arien, il destino esiste, e trova sempre il modo di dimostrare che negare la sua esistenza è come negare che abitiamo tutti lo stesso cielo.

  12. Non lo so fannì, se il destino davvero esiste, come non so se la sua esistenza dimostra che abitiamo tutti lo stesso cielo. Se così fosse ne sarei felice però. Significherebbe che anche il mio cielo è bello come il tuo.

  13. E io ascolterò volentieri. Prima però, e poi giuro che la smetto, consentimi un’ultima citazione: “quel che avvicina non è la comunanza delle opinioni, ma la consanguineità delle intelligenze”. Salut

  14. “la consanguineità delle intelligenze”… ora mi è più chiaro e comprensibile il tuo amore per Marcel perchè è davvero quella che avvicina fino a far quasi combaciare due anime. Chapeau!

  15. (tra me e te) E ora ti aspetti forse che io mi dica entusiasta anche per questo racconto? In tutta sincerità lo farei, eccome. Ma non posso dispiacere ulteriormente il mio Marcel che ti legge in incognito da quando ha scoperto la mia predilezione per te.

  16. (tra me e te) che paracula (*) che sei… non avrei mai immaginato che, pedilezione o meno, tu stessi con due piedi in una scarpa…

    (*) è un francesismo non offenderti :))

  17. E non è tutto…è ben protetta la tua mail? se Marcel vi si intrufola per me è finita. Per la cronaca, je ne suis pas une paracule, je suis partagée entre lui et toi.

  18. ma tu lo sais che parlé cu té en français il è vraiment un plasir incredibile.
    Je parlasse cu té en francais da le matin fin a la soir.

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