nursery

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Erano passate da poco le sei del mattino quando Closeau bussando alla porta del marchese immaginava che avrebbe dovuto farlo almeno altre tre volte prima che questi si svegliasse. Ne bastarono due, invece.
“Ispettore, buongiorno”, disse il marchese aprendo la porta.
“Buongiorno marchese, mi scusi per l’ora, ma ho urgenza di parlarle”, disse Clouseau.
“Che succede?”, disse il marchese aprendo completamente la porta e vedendo che due gendarmi accompagnavano Clouseau. Gli fece segno di entrare, richiuse la porta ed indicò il divano. Clouseau si sedette su una delle poltrone ed i gendarmi restarono in piedi. Lui si accomodò sul divano.
“Volevo informarla che stanotte sono rientrato dalla Svizzera perché, prima di chiudere le indagini sulla scomparsa di madame Catalda, volevo approfondire il motivo per il quale non si sapeva dove fosse stata seppellita. Per me significava chiudere il cerchio e ritenevo che fosse giusto farlo.”
“L’apprezzo molto e se sta qui a quest’ora immagino e mi auguro che l’abbia scoperto… almeno per portarle un fiore”, disse il marchese.
“Ho scoperto qualcosa di più marchese”, disse Cousteau con un tono timoroso.
“Cosa?”
“Madame Catalda è viva”, disse Cousteau lasciando il marchese impietrito mentre il suo viso sbiancava come un’alba rovesciata. A Cousteau, guardandolo, tornò in mente quella domanda che si faceva ogni volta che questo succedeva ad un imputato o a un malfattore preso con le mani nel sacco. Si chiedeva sempre dove andasse il sangue che lasciava il viso come un lavabo che si svuota.
“Prendete un bicchiere d’acqua”, ordinò Cousteau ai gendarmi che si guardarono intorno.
“Di là, in cucina”, indicò Cousteau, prendendo la mano del marchese e tenendogliela stretta.
“Stia tranquillo marchese, madame sta bene”, disse Clouseau mentre un gendarme gli porse l’acqua, “beva un sorso”, e lui bevve meccanicamente, poi guardò Clouseau:
“Dove sta?”
“E’ a Parigi…”
“Quindi non era morta… la malattia, la clinica… non era vero niente…”
“No marchese, la malattia e la clinica era tutto vero. La morte è stata invece un errore stupido. Ieri sono tornato nella clinica in Svizzera per sapere dove fosse stata sepolta ed è là che si sono accorti dell’errore che avevano commesso due anni fa. In realtà, la persona che mi aveva dato l’informazione della sua morte aveva trovato la cartella clinica di madame Catalda nell’archivio dei deceduti. Per questo non mi seppe dire dov’era stata sepolta perché non era morta. Ieri, guardando nei loro schedari hanno visto invece che il 6 agosto era stata trasferita in una clinica parigina dove vengono dirottati i pazienti che accettano di sottoporsi, in casi disperati, a terapie sperimentali. Io ero stato a Ginevra il giorno 8 agosto, due giorni dopo che era stata trasferita ed un infermiere o un medico, aveva messo la cartella nel posto sbagliato”.
“Quindi è ancora in cura…”
“No, è guarita e dovrebbero dimetterla la prossima settimana”
“E in questi due anni?”
“Le uniche cose che so è che in questi due anni è stata sottoposta a terapie sperimentali: trasfusioni, farmaci, non so altro, marchese. Questo dovrà chiederlo a lei… io sono venuto qua per darle la bella notizia e per accompagnarla stamattina stessa. Sempreché lei lo voglia.”
“Certo che sì”
“Allora si prepari, io l’aspetto giù”
“Grazie Clouseau.”
Durante il tragitto in carrozza, Clouseau interpretò i monosillabi del marchese in poca voglia di dialogare. La sua abilità investigativa, spesso fortuita, altre volte intuizione pura, lo condusse a pensare che quel silenzio era la necessità di riannodare e, immmedesimandosi nel marchese di nuovo davanti a Catalda, quello che lui, nel suo limitato lessico definì problema, era non solo da dove cominciare, ma soprattutto il cosa dire.
La vita, di tanto in tanto, ci pone di fronte a scenari così immensi, inaspettati o attesi come un sogno che, per fortuna, l’imbarazzo ci ammutolisce perché non c’è lessico capace di descrivere quello che ti succede in quel dentro che si svuota al punto in cui non solo la tua bocca, ma anche quella del tuo stomaco si serrano. Ogni parola, una qualunque sarebbero come la colatura di vernice mentre stai verniciando anche  un banale cancello. Come una cosa fuori luogo, una bestemmia in chiesa o l’unico superstite di una tragedia. Quel silenzio che, amplificava sempre di più il rumore del battito del cuore, continuò ancora lungo il corridoio che lo conduceva alla stanza di Catalda e lui ancora, pur impegnandosi, non sapeva cosa dirle. Bussò alla porta.
Catalda gli aprì e restarono immobili. Nessuna parola, solo colature di vernice trasparente rotolarono giù dagli occhi di entrambi. Lui lasciò cadere le rose che teneva nella mano. L’abbracciò o fu lei ad abbracciarlo, ma non importava. Così come non cambiava un cazzo chi sarebbe stato il primo a dire una parola sensata e compiuta. Restarono là, a metà strada fra il dentro e il fuori. Fra passato e presente. In fotogrammi che andavano automaticamente come slide di powerpoint che cambiavano con l’effetto dissolvenza. Abbracciati. Occhi negli occhi. Baciandosi. Stretti, guancia a guancia. E le slide riprendevano. Quasi uguali, ma diverse perché non ci sono attimi gemellari. Solo somiglianze. E dove le scene sembravano uguali, cambiavano i luoghi delle mani. Ancora abbracciati. Ancora baciandosi. Ancora stretti. Continuando ad asciugarsi le lacrime con la vicendevolezza delle guance o delle labbra. Dopo circa un’ora arrivarono due infermiere. Una prese Catalda, l’altra il marchese e li spostarono nella sala nido come si fa quando la vita sta cominciando. O ricominciando.
nurseryultima modifica: 2021-09-11T15:04:53+02:00da arienpassant

26 pensieri riguardo “nursery”

  1. Virata decisamente romantica e sentimentale, con tanto di lacrimoni e abbracci, appena appena corretti, come si fa con la grappa nel caffè, da quel “non cambiava un cazzo”. Bene, lieto fine assicurato, resta da capire cosa significa la faccenda della sala nido, ma quello che mi ha fatto tremare il cuore, letterariamente parlando, è stato “come un’alba rovesciata”. (Sarà mica una metafora, ruminò tra sé Fanny, chiudendo un occhio su una minuscola dopo il punto).

  2. appena appena corretti, come si fa con la grappa nel caffè, da quel “non cambiava un cazzo”

    Ti adoro! (sono ancora sotto l’effetto romanticismo).
    La sala nido per rimarcare la vita che inizia. O ricomincia.

  3. “Ti adoro! (sono ancora sotto l’effetto romanticismo)”; la parentesi potevi pure risparmiartela ahahahaha
    “La sala nido per rimarcare la vita che inizia. O ricomincia.” L’avevo capito, ma la sala nido come immagine evocatrice di un nuovo inizio, per due adulti, non mi convince. Non mi volevi più schietta? Eccomi 🙂

  4. Anche più schietta, rimani uguale. Mi stai bene anche così.
    Concordo con te sul ritrovarsi che rimane fra “due adulti” e, quindi, non è mai un nuovo inizio.
    La differenza che faccio con due adulti come Catalda e lui, è un rapporto interrotto non da un litigio, ma da un qualcosa che poi l’ha spiegato il tempo. In effetti piuttosto che “ricomincia” era meglio “riprende”. Qui però poi brucio le tre righe e la sala nido 🙂

  5. Meglio che non tocchi niente, del resto è perfetto così (mi conosci, il lieto fine proprio non riesco a mandarlo giù) P.S. Ormai disperavo di poter leggere l’ultima parte di questo racconto lungo, e a tal proposito ti chiedo: che titolo gli darai?

  6. Ma non era una boutade, dicevo sul serio…comunque pensavo che domani saremo in disaccordo, pubblicherò un post in cui critico una certa corrente di pensiero. Niente di trascendentale, ma credo d’aver letto, qui, qualcosa che ti associa a quelle persone che biasimo. Se è così non me ne volere 🙂

  7. Non so, non seguo nemmeno tutte le puntate nonostante le buone intenzioni su Catalda e il Marchese. Alcune piccole provocazioni sono salti temporali, vocaboli per non far prendere troppo sul serio la cosa? Sono curiosa di capire perché ce ne sia bisogno

  8. Riferendomi al “bisogno”, parlo per me, ovviamente, è come la fame o la sete o altro. Non ne conosco i motivi, ma se ho sete cerco l’acqua e così via. Così, nel mio piccolo, quando scrivo, quello che scrivo, sia nella forma che nei termini lo faccio sotto dettatura.
    Come in tranche e tante cose nemmeno me le spiega 🙂

  9. Stavolta a dissacrare sono stata io, un momento di pathos così, rovinato da una crassa battuta :))) posso sentire tutto il tuo risentimento ma continuo a ridere…

  10. oddio e me l’aveva pure virgolettata!!! e qua non c’è dialettica che tenga… mi sono fottuto una reputazione costruita con le mollichine… e io che avevo interpretato quello “spizzichi e bocconi” inteso nelle tante puntate…

  11. Una piccola tranche di tristezza ogni tanto mi risistema l’ego 🙂 Da un altro lato ben venga tutto ciò di me che ti faccia ridere così :)))

  12. A proposito del lieto fine, o meno, guarda cosa ho trovato con la complicità del caso:
    “A parte il fatto che io credo che sei e sarai sempre Fannì, il lieto fine rimane un’astrazione letteraria o cinematografica che coincide solo con quello che ci piacerebbe che fosse il finale del romanzo o del film. Quel finale col quale noi, pubblico o lettori, vorremmo interferire quando pensiamo “ma cazzo perché non glielo dice?!”. La verità è che nel romanzo o nel cinema, c’è un burattinaio che gestisce le vite dei suoi personaggi. Pensa, parla ed agisce per loro accomunandoli nello stesso copione che in realtà è il disegno che ha costruito alle vite altrui per il proprio fine. Nella vita vera nessuno di noi conosce il copione ma ognuno lo scrive ogni giorno per un obiettivo che anche se fosse comune ad entrambi è diverso nella visione. Non solo nelle storie d’amore ma, nello spicciolo, anche nel rapporto con i figli, a parità d’obiettivi, le visioni diverse diventano conflittualità stupide nelle quali anche il lieto fine dell’uno è diverso da quello dell’altro. Ciascuno ha il suo.
    Perciò tu sarai sempre Fannì e non Catherine anche perché, ti piaccia o no, il tuo copione non te lo saresti mai fatta scrivere da altri. In fondo per fare cose sbagliate bastiamo da soli, non ci servono autori. Questo non toglie che possiamo ritrovarci nel modo di essere o di pensare di un personaggio.
    Fra l’altro, considerando il sadismo degli autori letterari, credo che se per legge si dovrebbe restituire i soldi del romanzo o del film a chi non condivide il finale, leggeremmo o vedremmo solo storie a lieto fine”.
    Arien, il burattinaio 🙂

  13. Sai, alle volte rileggendomi può succedermi di piacermi o meno, ma non mi succede mai di non trovarmi sempre coerente con me stesso. Ma sarà solo questione di presunzione :))
    Ora mi cercando di ricordare chi fosse quella Catherine…

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