U come umanità

Sardegna, Il Cuore”: un progetto per sviluppare il turismo nella Sardegna interna - S&H Magazine

C’è poco da fare: benché si fatichi ad ammetterlo, esistono persone che ci somigliano. Ma il riconoscersi nell’altro è un miracolo che spesso si risolve in un sguardo d’intesa fugace oppure in un ma dai anche tu così aleatorio che interrogare una fattucchiera per conoscere il futuro sarebbe una mossa meno azzardata. La mancata biunivocità di intenti, interessi, aspirazioni è giustificata dal fatto che l’umanità è da tempo asservita all’attimo fuggente, inteso nell’accezione opposta a quella dell’omonimo film di Peter Weir, ovvero priva di una qualsiasi forma di preziosità. A conti fatti, i miei neuroni specchio si attivano soprattutto quando mi imbatto in pagine di letteratura in cui è lampante la missione politica ed estetica di chi le ha scritte. Talvolta, bastano un lupo, una gatta e una lavatrice. Ma questa è un’altra storia.

U come umanità. Da quando abito in Sardegna l’umanità non è di certo, fra le varie manifestazioni della biologia, quella che frequento maggiormente. Ho rapporti assai più intensi con le piante e i fiori e, obtorto collo, con i gatti. Vivo lunghi periodi di volontario esilio, qui a Geremeas, che, nelle stagioni morte, non è meno deserta di un deserto. […] L’umanità è un fastidio non da poco. Ora che me ne sono allontanato, vedo con chiarezza abbacinante quanto sia fastidiosa, ingombrante, invasiva, maldestra e catastrofica. La Sardegna è in qualche modo un terreno di coltura ideale per lo studio dei comportamenti del batterio Uomo. Qui tutto è più violento, più forte, più luminoso e contrastato: il sole e le tempeste, il vento e le bonacce, la bellezza e l’orrore, la dolcezza e la ferocia. In questo quadro dal cromatismo così fondamentale, elementare, l’uomo non si cura affatto di edulcorare o di dissimulare la sua natura barbarica o, meglio ancora, la sua barbarica estraneità alla natura. Non ci sono, qui, cuscinetti illusori che ammorbidiscano l’impatto apocalittico dell’uomo sull’ambiente, dell’uomo sulle altre specie viventi e su sé stesso. […] Non c’è niente da fare, niente. L’umanità è mossa da un odio insondabile e feroce contro tutto ciò che può esser sospettato d’essere bello, pulito e dignitoso.”

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontario

Sull’amore e altri accidenti

Dell’amore si è detto tutto e il contrario di tutto. Spesso proprio in questi termini, in via liquidatoria. Ma con buona pace di speculazioni dotte e meno dotte, l’amore resta un assillo che non risparmia nessuno, eccezion fatta per chi l’amore ce l’ha o crede di averlo. Bene. Poi un giorno arriva la poetessa Patrizia Cavalli, e in un postprandiale durante il quale l’ultimo dei tuoi pensieri è quella forza oscura che causò la morte di Romeo e Giulietta, come di altri insigni personaggi letterari, lei ti parla d’amore tirando in ballo un gatto. Il quale, sottratto alla vulgata che lo vuole destinatario di coccole e croccantini, diventa un portale per una raffigurazione diversa dell’amore:

Un gatto che dorme il pomeriggio

nel larghissimo letto padronale

in un punto qualunque, però comodo,

che si sveglia in un’ora qualunque

perché qualcuno passa e lo carezza,

non si sveglia del tutto né si chiede

chi è che lo carezza, ma si porge

dal sonno solo un po’

per stirarsi in arrendevole lunghezza

perché duri di più quella carezza.

Forse così potrebbe essere l’amore.

(107 parole per spiegare l’inspiegabile in prosa. 65 per dirlo in versi. Ma non vale: poeti e poetesse leggono le stelle)

Per restare in tema di gatti, ma nella loro accezione terrena e nondimeno divina, una pagina di Ezio Sinigaglia tratta da Sillabario all’incontrario:

[…] Scotty, cuccioletta prelevata una notte dalla strada, grigia, pelo soffice, magrissima all’origine, rachitica, adesso bene in carne: vive in casa: la sola che abbia questo privilegio, necessario peraltro a causa dell’ostilità degli altri gatti: bisogna evitare gli incontri anche casuali: una sera Zoccola (vedi oltre) è andata a un pelo dal cavarle un occhio con un’unghia: un movimento fluido, disinvolto, come prelevare un acino d’uva dalla ciotolina della macedonia, a fine pasto: i gatti sono così, assassini noncuranti, criminali flessuosi, bisogna stare attenti: Scotty, dunque, vive in casa: pasti separati, anche per lei: un po’ di omogeneizzato, mischiato con un po’ di tonno in scatola, o carne trita, o altro ed eventuale: schiacciare bene il tutto con la forchetta, in modo che s’impasti, che si mantechi: servire a temperatura ambiente: Scotty ha anche il privilegio, sublime e turpe, della cassetta, di là dall’uscio della cucina, in un corridoio fra quest’ultima e il bagno di servizio, dove passa la notte: odori da non credere, specie il mattino, da svenire al solo rievocarli: necessità di cambiare la sabbia alla cassetta, di gettar via la merda più spesso che si può, per non parlar del piscio, che puzza atrocemente, pungentemente, un effluvio invasivo, che violenta l’olfatto, penetra le narici, sfonda ogni barriera, sale nel cervello, stimola secrezioni segrete, ributtanti: cionondimeno Scotty si fa amare, tenera, coccolosa, giocherellona, sempre pronta ad agguati ludici agli altri gatti, che le soffiano o la ignorano: lei, stupefatta, prende a giocar da sola: si appende ad una tenda come un impiccato alla sua corda, e dondola: insegue scarafaggi ed eventuali gechi, li tortura amabilmente: palleggia fra le zampette felpate, rapidissime, palline vere o di fortuna, tappi, gomme per cancellare, matite, temperini: poi, languida, mi sale al collo, lo mordicchia, lo lecca, gioca con il cordoncino degli occhiali, me li toglie, mi guarda socchiudendo gli occhiolini grigi come non potesse sostenere la mia luce: per le fusa dispone di un motore a scoppio, quattro tempi, cinque marce, con navigazione di crociera a regime costante, rumorosità piacevole, bassissimo consumo: la notte si lascia deporre nella sua scatola da scarpe, fra le lane e i balocchi, senza opporre resistenza, anzi, chissà, lusingata d’esser tenuta sotto chiave, di là dalla cucina, come un bene prezioso, da nascondere ai briganti.

Tentativo di descrivere l’impenetrabile

A walking tour in Oslo, winter season activities

Letture diverse. Poc’altro da aggiungere, se non che certi libri fungono da spartiacque tra narrazioni pensate per non spaventare il lettore e altre il cui scopo è invitarlo a esperire qualcosa che gli è ignoto. O che forse conosce, ma sotto mentite spoglie.

Questa volta il narratore lo faccio io in persona, e dunque il racconto si apre, che lo crediate o no, con il protagonista che digita il numero di telefono dell’autore (cioè il mio) con l’idea di chiedergli un incontro per discutere il suo (cioè il mio) ultimo romanzo (La relazione del professor Pedersen…), che ha suscitato in lui una profonda (benché erronea) impressione. Il protagonista ha dunque digitato il numero. Il protagonista cerca di mettersi in comunicazione. Tiene la cornetta all’orecchio e sente suonare, una volta, due volte, tre volte. Intanto io, nel mio appartamento, sento il telefono che squilla. Il telefono! Vado al telefono e alzo la cornetta. “Pronto”, dico, teso come sempre, e sento il mio nome pronunciato da una voce all’altro capo del filo invisibile che ci ha appena collegati e che, senza che io ancora lo sappia, avrebbe continuato a collegarci fino alla fine di tutta la vicenda. “Con chi parlo?” gridai. “Sono AG”, rispose con una risatina imbarazzata. “Cosa??? AGSei proprio tu?! Non è possibile!”

Invece era proprio AG. Arne Gunnar Larsen. Il mio amico d’infanzia a Sandefjord […] sparito in silenzio dalla mia vita nel 1965, per non ricomparire più fino appunto a quella telefonata in un giorno qualunque d’inverno, pungente, ventoso e bianco, a Oslo, capitale della Norvegia, poco dopo Capodanno, nel 1983. Possibile? Decisi di crederlo, tanto più che AG andò dritto al sodo, cominciando a elogiare in toni entusiastici il mio recente romanzo, per finire con la proposta di cenare insieme al Theatercafé la sera successiva. La proposta cadeva a dir poco male. Ero in partenza per il Messico. […] Per di più era un sabato sera quello che mi proponeva, cosa che la mia compagna di viaggio e di vita non avrebbe certo apprezzato, per lo meno non in quel momento, a tre giorni dalla partenza per il Messico. Tuttavia non dissi di no. Dovevo rivedere AG.

Perciò uscii al freddo e rimasi a congelare alla fermata Ullevål Stadio, in attesa del metro da Sognsvann che doveva portarmi in centro, al Theatercafé. La città bianca e fredda, pungente e con le sue luci al neon. Fosse stato solo per incontrare Arne Gunnar Larsen, dubito che sarei andato. E fosse stata una persona qualsiasi a telefonarmi per elogiare il mio ultimo romanzo, non ho dubbi che non sarei andato. Ma la combinazione era irresistibile. Sentirmi elogiare in toni entusiastici dal mio vecchio amico di Sandefjord: era la più grande soddisfazione cui uno scrittore possa aspirare. Date le premesse si può ben dire che varcai letteralmente a passo di danza la porta del Theatercafé […]

Ma eccolo che arriva. Nonostante i diciassette anni passati, l’ho riconosciuto all’istante. L’orchestra attacca dalla balconata. Il Theatercafé saluta agitando le sue tovaglie bianche, applaude con tintinnii e tramestii e fumo di sigarette, che sale serpeggiando come uno sparo a salve. Mi alzo e gli do il benvenuto. Vecchio amico mio! Compagno di tanti anni, antico alleato in un’eterna lotta contro l’esistenza, ora burocrate a Oslo. Architetto e burocrate. Lo guardo: “Che fine hanno fatto i tuoi capelli?” Lui guarda me: “Terje Vigen! Prima eri solo uno stravagante, adesso sei uno stravagante e grigio.”

Dag Solstad, Tentativo di descrivere l’impenetrabile