mater matris

Transcendent Country of the Mind, fotografia di Sari Soininen (The Eriskay Connection)

Prima o poi la vita ci mette alla prova con esperienze così grevi che, dopo averle date in pasto a parenti e amici, le tramutiamo in prequel e sequel dei giorni obliqui e devastanti. Torneremo poi in solitudine al passato, giacché il Tempo avrà reso chiaro che la condivisione del dolore non allevia la pena né aiuta a farla scivolare come in una sorta di sogno. Gli scrittori più versati rendono il dolore distillandolo in quadri narrativi di forte emotività a cui viene spontaneo affidarsi quando sarà più pressante l’urgenza di dialogare con una voce che rifugge l’inconsistenza del dire. Ne sia un esempio questa pagina di Giartosio nella quale lo scrittore richiama il periodo in cui, in relazione alla malattia della madre, si misura con la sospensione temporale che divide la vita dalla morte. E si provi a non sobbalzare se è già stata messa agli atti l’esperienza di ritrovare se stessi dopo essere sopravvissuti alla morte di una persona amata.

“Oggi mia madre è morta. Oggi scrivo questa frase, che può essere vera solo oggi. Rende preziosa questa giornata, l’ultima in cui è stata viva.

[…]

Di giorno vado a trovarla. Dopo il Covid e la polmonite batterica e i tre mesi in ospedale, si alza in piedi sempre meno. Il suo corpo è un plateau. Lei che ama l’Africa lo chiama il mio corpo negroide. È sempre stato qualcosa di energico e morbido e fresco, profumato come un lombrico. Ora si è disteso come certi fiori senza gambo che si rilasciano sulle loro foglie, i petali già staccati ma ancora tutti in posizione. Conserva l’apparenza della forza: le mani hanno una presa coriacea, ma in realtà faticano a stringere le posate […] Quando devo accompagnarla in bagno o dal dottore vedo per la prima volta nella mia vita il seno acciambellato sulla cassa toracica, il pube spelato che ricorda certe miti cucuzze di studiosi. Indovino l’utero prolassato, le ossa iliache come palchi di alce. Non posso trattenermi dal pensare che ho abitato questo luogo dove ora strisciano gli elettrodi e zampetta il fonendoscopio. È come visitare la propria aula delle elementari invasa dai rampicanti. Sento in me questa freddezza imposta, la paura di sentire tutto ciò che c’è da sentire, e mi prende un pudore vicario, un po’ ipocrita. La aiuto a rivestirsi”.

Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica

In alto: Sari Soininen, Transcendent Country of the Mind

Restando in tema, l’inarrivabile Marcel Proust:

(…) da parecchio lontano, appena superato San Giorgio Maggiore, scorgevo quell’ogiva che m’aveva veduto, e lo slancio dei suoi archi spezzati aggiungeva al suo sorriso di benvenuto la distinzione d’uno sguardo più elevato e quasi incompreso. E poiché dietro quei balaustri di marmo di vari colori la mamma leggeva aspettandomi, il viso raccolto in una veletta di tulle d’un bianco non meno straziante di quello dei suoi capelli per me che sentivo come mia madre l’avesse, nascondendo le lacrime, aggiunta al suo cappello di paglia non tanto per apparire “elegante” alle persone dell’albergo, quanto per sembrare a me meno in lutto, meno triste, quasi consolata della morte della nonna; poiché, non avendomi riconosciuto subito, non appena la chiamavo dalla gondola mandava verso di me, dal fondo del cuore, il suo amore che s’arrestava solo dove non c’era più materia per sorreggerlo, alla superficie del suo sguardo appassionato che cercava di avvicinare il più possibile a me, di innalzare, sporgendo le labbra, in un sorriso che sembrava baciarmi, entro la cornice e sotto il baldacchino del più discreto sorriso dell’ogiva illuminata dal sole di mezzogiorno: a causa di tutto ciò quella finestra ha preso nella mia memoria la dolcezza della cose che assieme a noi, contemporaneamente a noi, ebbero la loro parte in una certa ora, che suonava identica per noi e per loro; e per quante e quanto splendide siano le forme racchiuse fra le sue colonne, quella finestra illustre conserva per me l’aspetto intimo d’un uomo di genio con il quale si sia trascorso un mese nello stesso luogo di villeggiatura e che abbia contratto per noi una qualche amicizia, e se da allora, ogni volta che vedo il calco di quella finestra in un museo, sono costretto a trattenere le lacrime, è semplicemente perché essa mi dice la cosa che più d’ogni altra può commuovermi: “Me la ricordo molto bene, vostra madre”.

Ingoiamo rospi

orizzonte degli eventi

Sarà stata la giornata pesante o un qualche accidente che mi ha turbata, ma avevo deciso di chiudere con questo libro. Troppo denso, sebbene sia stata proprio la sua vischiosità a indurmi all’acquisto. Poi però, come folgorata sulla via di Damasco, mentre lo sfogliavo un’ultima volta quasi a cercare un appiglio per tornare sui miei passi, mi sono imbattuta in alcune pagine che erano di là da venire se avessi rispettato la cronologia di lettura. A questo punto che ci sia o meno un prosieguo, poco importa. Da lettrice resterò infinitamente grata a uno scrittore che, non per partito preso ma per manifesta maestria, sconfessa la boria delle classifiche di vendita.

Ingoiamo rospi

“È chiaro, terribilmente chiaro, cosa fa male. L’avanzo, il ristagno, il non elaborato, il non digerito. Il residuo che non si riesce a mandar giù, il boccone che va di traverso e resta sul gozzo. Tutti gli eventi – immagini, emozioni, ricordi, omissioni – messi da parte, dismessi, apparentemente risolti, chiusi, liquidati, eccoli che s’aggrumano, sedimentano, ristagnano e a un certo punto tornano a galla e balzano fuori, così, come impertinenti revenants, come fantasmi. Scarti e frammenti e inciampi: quello che sei stato e che sei, e sempre sarai.

  A poco a poco restiamo intasati dalle faccende non sottoposte a verifica, da avvenimenti masticati solo a metà, da baci dati troppo tardi o solo per gioco o non dati proprio. Quel che non è stato assorbito, capito, verificato, sondato; quello che intossica. Tutto ciò che è sepolto ha il sonno agitato. Immagini e sensazioni che assillano, sorsate amare. Ingoiamo rospi. La solita illusione, la solita ostinata, disperatamente infantile arroganza del “non posso continuare così, continuerò”; del “non ce la posso fare, ce la farò”. Cares of the past are behind: neanche per sogno. Tutto riaffiora. E tutto ciò che riaffiora avvelena, turba, disturba. Ciò che ci toglie il sonno, che infesta le notti.

  E uno, insomma, si ritrova così, desto nel buio, con la notte che ingigantisce, estremizza, distorce, paralizza. Lame di luce tra le tapparelle, tempi dilatati, rumori attutiti che si prendono la scena, riempiono il vuoto. Dormi, ma dormi male e ti svegli, ed entri in ascolto. C’è una controvita, la notte, un sottomondo di trascurabili incidenti, di microeventi. Lievi crepitii di assestamento, tubature che sgocciolano, auto che passano rade in strada, magari sul bagnato, dopo la pioggia, lo scalpiccio saltellante di uno/una che a piedi nudi è costretto/a ad alzarsi nel bel mezzo della notte e, tipico, niagarico, assurdamente netto, risonante, in ogni caso obbligato, consequenziale il gorgogliare mentre il palazzo è assopito. I rumori della notte, le fantastiche ambigue e sterili attese della notte, i suoi spaventi. Ci bado da quando ero bambino e immagino tutti abbiano sciocchi ricordi così, popolati di sonore minuzie, e di irrilevanza. Lo zampettare dei bacherozzi sulle mattonelle sconnesse; il ruscellare della fontana nel cortile. Il suono di una campana che batte le ore. A volte le sirene di un’ambulanza. Più spesso una sveglia imbecille che dà sui nervi.

  Ormai sono troppo vecchio per farci caso. Non me la prendo più, sarebbe vano. E poi a volte questi stradannati risvegli  sono una liberazione, anche se scocciano. Traumarbeit Macht Frei: un accidente. È nei sogni che quel boccone sul gozzo si mette di traverso e ti porta al limite. Nei sepolcri scoperchiati del sogno c’è un’ultra-verità, e mica fa bene. Mi alzo, magari vado a pisciare pure io, e mi siedo a tavolino, accendo la lampada. Il gatto ne approfitta per stiracchiarsi e farsi un giretto nello studio. Fuori – l’alba non è lontana – i primi uccelletti sfringuellano lieto-scemi, comunque garruli, mentre gli autobus escono dai depositi: la prima corsa. Pennino, pennello e inchiostro di china, matita e carboncini, il foglio bianco. Il lavoro arretrato, le cose lasciate a metà, i compiti a casa (e, come un monito e un’accusa: attorno, in pericolanti pile, tutti questi libri magnifici, eloquentissimi: le incisioni di Rembrandt, l’opera grafica di Kirchner e Otto Mueller, gli sketchbook di Robert Crumb, i fumetti di Will Eisner). È tutto così frustrante, così difficile. Ma dato che non si può continuare…si continua. Disegnare per ammazzare il tempo, e tanto per fare. Disegnare così, come ti viene. D’altra parte a che punto è la notte? Quasi finita. E quindi, linee, tratti, abbozzi, contorni, trame, textures, intrecci e, naturalmente, macchie, chiazze, patacche e sfumature.

Vittorio Giacopini, L’orizzonte degli eventi

pp. 108, 109, 110

Quando un amore va

Lucia e Vincent sono uniti dall’amore e dal lavoro. Una simbiosi perfetta che però diventa sconveniente quando lui non riesce a gestire un insuccesso. E se ne va. Se c’è una cosa che trovo snervante sono le scene strappalacrime. Soprattutto quelle d’amore. Quella che segue poteva esserlo, ma la scanzonata intelligenza di Lucia le dà un taglio che ci impone di ricordare che la vita va presa, quando possibile, con ironia.

MONTAGGIO FINALE

È la scena di un film?

«Mi piaci molto», dice l’uomo, «ma non ti amo più. È semplicissimo».

Nei dieci e rotti anni in cui la donna è stata sposata con lui, niente di quell’uomo è mai stato semplice. Nemmeno scaricarla può esserlo.

«Ti sei innamorato di un’altra?» Una domanda inutile che non otterrà mai una risposta diretta. Comunque lei sa già la risposta.

«No».

È sempre stato pessimo a dire le bugie e adesso sta mentendo. La guarda così fisso negli occhi che in quel momento le viene voglia di ridere. Lui crede davvero a quel mito idiota: se guardi l’altra persona dritta negli occhi, dimostri di stare dicendo la verità.

«Ti prego, non lasciarmi», dice lei.

Piuttosto che scrivere una battuta del genere, mi taglierei la gola!

«Ti prego», ripete. «In questo momento ho bisogno di te».

Non ce l’ha un briciolo di orgoglio? Questo dialogo va riscritto.

«Voglio essere libero», dice l’uomo.

«Perché proprio adesso? L’anno scorso no? O l’anno prima?»

L’uomo alza le spalle come se non ci fosse un motivo particolare. Lei conosce il motivo. L’anno prima lei stava scrivendo per lui la sceneggiatura di Capriola e l’anno scorso lui l’ha girato. È stato il loro più grande successo.

«C’è un’altra, vero?»

L’uomo infila un dito nel bicchiere e rimescola i cubetti di ghiaccio. «Ce lo siamo detti: se non funziona, divorzieremo. Ce lo siamo detti quando ci siamo sposati, vero o no?»

Oh sì, se l’erano detti. La donna annuisce. A dirlo s’erano sentiti frivoli e disinvolti: li aveva aiutati a superare l’imbarazzo di essere pazzi l’uno dell’altra.

«Be’, è successo», dice lui. Butta giù un lungo sorso.

Tutta la scena è sbagliata. Se la stessi scrivendo, mi fermerei e mi chiederei: allora, cosa abbiamo? Abbiamo un uomo e una donna in un salotto mezzo ammobiliato. Lui è un regista. Lei è una sceneggiatrice. Nella stanza c’è anche un cane. Non ce lo metterei mai un cane in una scena del genere. Però c’è un cane nella stanza.

«Ti prego, resta», dice la donna.

Questa scena non va da nessuna parte! Qual è il senso di questa scena? L’uomo ha intenzione di andarsene per sempre. La donna si rende conto che le cose tra di loro non miglioreranno mai ma vuole che lui resti finché non finiscono il prossimo film. È da un sacco di tempo che lei lavora alla sceneggiatura.

«Almeno fino alla fine del film», aggiunge la donna.

«Non voglio farlo questo film».

Questo è un brutto colpo. Nella stanza non fa freddo ma lei ha freddo. «Non ci credo!», esclama. Cerca di nascondere i brividi. «Abbiamo già il contratto. Un contratto fantastico. Il migliore di sempre!»

Lui lo sa benissimo! Per un dialogo del genere boccerei i miei studenti di cinema! Quante volte ho spiegato l’esposizione: dico sempre che devono trovare un modo per fare entrare il pubblico in una situazione senza che i personaggi si raccontino quello che già sanno.

Il cane, una grossa barboncina nera, ha lasciato cadere una palla intrisa di saliva ai piedi dell’uomo. La barboncina lo guarda e scodinzola.

L’uomo ignora il cane. «Non voglio più che siamo i Wade», dice. «Non voglio più essere Vincent-e-Lucia Wade». Pronuncia i nomi insieme come se fossero tutt’uno.

«Perché no? Non ce la siamo cavata male».

«D’ora in poi voglio essere Vincent Wade». Evita di guardarla. «Ho rinegoziato il nostro contratto per un film diverso che voglio fare da solo».

«Fammi capire», dice lei. «Hai trasformato il nostro contratto in un altro contratto che mi esclude? E quando è successo?»

«Ci sono i telefoni a Dublino, eh».

Quindi lui aveva orchestrato tutta la faccenda dal set mentre lei si trovava in una stanza poco lontana a scrivere la sceneggiatura di un film che lui sapeva di non volere fare.

«E i produttori? Hanno gradito il gioco di prestigio?»

«Comunque a loro la tua sceneggiatura non piace».

«Perché?»

«Non gli piace, tutto qui». Lui solleva il bicchiere e butta giù un lungo sorso di scotch. «Il finale… Pensano che il finale sia troppo cupo».

La donna ha la sensazione che lui stia improvvisando. «È lo stesso finale del libro. Quando hanno letto il libro, non avevano niente da obiettare».

«Ho proposto un prodotto molto commerciale. Un best seller».

«Ah sì? E cosa?» La donna è ancora in preda ai brividi, ma per la rabbia, non per il freddo.

L’uomo dice il titolo del romanzo che ha comprato.

Incredibile quante cose si possono fare al telefono da Dublino a Los Angeles.

Le dice quanti registi di grido volevano comprarlo. Elenca i nomi in tono trionfante. Sembra più orgoglioso di averli fregati di quanto non lo sia del romanzo in sé.

Cristo santo, non farle chiedere chi scriverà la sceneggiatura.

«Chi scriverà la sceneggiatura?», domanda.

«L’autore». Lancia alla donna un’occhiata torva e accusatoria con il bicchiere alle labbra. «A te il libro non è nemmeno piaciuto!»

«Lo stile mi piaceva… Non mi piaceva la protagonista. Mi sembrava così paralizzata, così spenta…»

«È spenta perché soffre», dice l’uomo, sulla difensiva. «Soffre più della gente qualsiasi».

«E perché?»

«Perché è più sensibile».

«Non riuscivo a capirla».

«Come potresti? Tu sei una sopravvissuta». Le ha già dato della sopravvissuta, con lo stesso tono sprezzante. Le sta rimproverando di non essere abbastanza sensibile, di non essere abbastanza fragile. Sottintende che lei è banale, perché quando soffre non è paralizzata. Sta forse ricordandosi di quella sera al Beverly Hills Hotel un paio d’anni fa in cui lei s’è trasformata in un’isterica ululante e l’ha quasi ucciso? Se la lampada che gli ha lanciato non avesse avuto il cavo corto, forse l’avrebbe ucciso.

«Va bene», dice l’uomo, «ti ho detto quello che volevo dirti». Scola il bicchiere.

«Torni in albergo?»

Lui annuisce.

«È assurdo. Tu vivi qui, questa è casa tua. Quello è il tuo cane. Io sono tua moglie».

Altra battuta orribile. Perché lei si cataloga come una cosa di sua proprietà?

All’improvviso si rende conto che lui non porta più la fede. Libero, l’anulare della mano sinistra sembra più grosso e paffuto che mai. Anche lui sembra più grasso dall’ultima volta che l’ha visto un paio di settimane fa a Dublino. Era lì a girare un film, il primo scritto da un altro sceneggiatore. Era stata lei a volerlo. Quando avevano avuto bisogno di soldi lei s’era messa a scrivere per altri registi. Sapeva che era un bene per entrambi lavorare con gente nuova. Questo sceneggiatore in particolare era un amico giornalista che avevano pagato di tasca loro per buttare giù una prima stesura. Più tardi Vincent aveva stretto un accordo con lo studio. La donna era stata a Dublino per quasi tutta la durata delle riprese ma se n’era andata in anticipo per tornare a casa e finire di arredare l’appartamento. Al termine delle riprese, lui inaspettatamente (per lei) è andato a Parigi. Quando è tornato a New York si è trasferito direttamente in albergo.

«Come mai sei andato a Parigi?»

«Mah… ne avevo voglia».

«Hai visto Claude e Monique? Hai visto Nelly?»

«Ho… ho preferito starmene per i fatti miei».

Non è bravo a mentire. Non è mai riuscito a starsene per i fatti suoi, non sopporta di stare da solo. Già dopo pochissimi anni non riusciva nemmeno a stare da solo con lei.

«Dov’è la fede? Sul fondo della Senna?»

«Ma che dici?»

Lui ha sempre avuto una memoria selettiva. Adesso si alza in piedi e contempla i mobili appena arrivati che hanno scelto insieme.

«Senza un tappeto, questa stanza è orrenda», dice. Lo dice con disprezzo, come se fosse quello il motivo per cui gli risulta impossibile restare lì.

«Non volevo sceglierne uno senza di te. Aspettavo che tu…» La voce le viene meno mentre lui si dirige verso l’ingresso. La barboncina gli corre dietro felice, con la palla in bocca. Alla fine la donna si alza e li segue.

Sulla porta, l’uomo dice: «Spero che resteremo amici. Non smetterò di considerarti una delle mie migliori amiche». Non le chiede che cosa spera lei o come vorrà considerarlo in futuro.

Se ne va. La coda della barboncina si affloscia. Lei lancia verso la porta uno sguardo indignato.

«C’est la vie», la donna dice alla barboncina.

Eleanor Perry, Pagine azzurre (romanzo e autobiografia)

Eleanor Perry Discusses Writing, Film and Feminism 1974 - Gallimaufry

Eleanor Perry

Eiaculate responsabilmente

Eiaculate responsabilmente. 28 buone ragioni

È così che vanno dette le cose importanti: a chiare lettere. Cari uomini, fatevi un esame di coscienza affinché possiate capire che quando girate lo sguardo per l’incapacità di mettervi nei panni della donna che avete ingravidato, siete molto più che insolventi. E la parola che rima con insolventi viene da sé.

Comincia tutto dalla biologia. Il corpo di una donna produce ovuli fertili per circa 24 ore ogni mese, dalla pubertà alla menopausa, cioè lungo un arco di tempo di circa trentacinque/quarant’anni. Dato che questo può cominciare al mezzogiorno di un lunedì e terminare al mezzogiorno del martedì, si tende a dire che il periodo fertile dura due giorni, ma di fatto si tratta di circa 24 ore.

Lo sperma di un uomo è fertile in ogni secondo di ogni singolo giorno di vita. E benché la qualità degli spermatozoi tenda a decrescere con l’età, un maschio può produrne fino alla morte.

A ottant’anni, una donna che abbia avuto le mestruazioni per quarant’anni avrà totalizzato 480 giorni di fertilità.

A ottant’anni, un uomo che abbia raggiunto la pubertà a dodici ne avrà accumulati 24.820.

Dunque, facciamo due conti: 24.820 diviso 480… riporto 4… Ma guarda: a quanto pare, gli uomini hanno circa cinquanta volte più giorni fertili rispetto alle donne.

Quasi sempre, quando fa sesso, una donna non può restare incinta, perché i suoi ovuli non sono fertili. Mentre un uomo – essendo sempre fertile – potrebbe ingravidare la partner a ogni rapporto. In teoria, in un anno, potrebbe mettere incinta una diversa donna fertile (o più di una!) al giorno, causando 365 (o più!) gravidanze. In quel medesimo anno, una donna può portare a termine un’unica gravidanza.

È essenziale mettere in chiaro da subito questo gigantesco divario nella fertilità. Non sto drammatizzando: è un mero dato biologico. E dimostra che in fatto di fertilità, e dunque di possibilità di causare una gravidanza, uomini e donne non sono uguali. La fertilità maschile supera quella femminile di diversi ordini di grandezza.

Questa fondamentale realtà biologica, finora raramente menzionata nei discorsi su gravidanze indesiderate e aborto, è il cuore dell’intera faccenda. Ignorarla sfalsa il dibattito“.

Gabrielle Blair, Eiaculate responsabilmente

Autobiogrammatica

Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio

Finalmente ho trovato un altro bel libro. Vero è che ne ho letto ancora pochissime pagine, ma le premesse lasciano supporre che a fine lettura ne sarò entusiasta. E poi, è un titolo proposto da Emanuele Trevi per il Premio Strega con la seguente motivazione: “La lingua, e il rapporto intimo che ogni scrittore instaura con le parole della sua vita, quelle che lo hanno formato e ne hanno scandito il percorso intellettuale e umano, sono stati per lungo tempo confinati al mondo della saggistica e della critica letteraria. In “Autobiogrammatica”, con la sapienza e la profondità che da sempre connotano la sua scrittura, Tommaso Giartosio li trasforma nel cuore e nel motore di un testo che è al contempo romanzo di formazione e memoir, cronaca famigliare e autoritratto, dizionario pubblico e privato: un’impresa che a me sembra preziosa quanto necessaria”.

Un viaggio verso Sud

La pasta al forno con i peperoni era croccante quasi quanto la parola croccante, era untuosa come untuosa. Tu che leggi, pronuncia queste due parole a voce alta prima di proseguire, così sappiamo di cosa stiamo parlandoFatto? Allora andiamo.

Era sera. Antonio serviva i maccheroni, noi altri tre sorseggiavamo del Rapitalà, gli ospiti stavano parcheggiando, e in tavola c’erano dei piatti di coccio grezzo dipinti a grandi fiori arancioni: perfettamente brutti in quanto immagini, ma in quanto realtà perfettamente belli.

Con Chiara e Antonio avevamo preso in affitto, io e Carlo, una casetta al mare in Sicilia. Chiara era l’amica che ci aveva fatti conoscere tre anni prima; ora, innamorati e fieri della nostra unione, eravamo una coppia consolidata (che espressione terribile, da lezione di chimica o fisica, qualcosa da desiderare e da temere e di cui soprattutto illudersi!). Proprio per confermarci tali, ma anche per smentirci tali, avevamo voglia di esplorare luoghi nuovi; però portandoci dietro Chiara come una prova d’acquisto, e scegliendo – tra tutte le parti d’Italia a noi ancora ignote – giusto la regione in cui lei era cresciuta. Non ci ero stato quasi mai, in Sicilia, ma soprattutto non l’avevo pensataQuando sentivo la parola Sicilia dovevo subito pronunciare sottovoce, o almeno pensare a alta voce, le parole: triquetra insulaEra la definizione offerta nel mio primo libro di esercizi latini, prima media, capitolo sulla prima declinazione. La Sicilia, l’isola triangolare. La pronunciavo con due accenti sdruccioli (tríquetra ínsu­la), sbagliando – si dice triquétra; ma lo sbaglio rendeva meglio quel nonsoché di arduo, inerpicato, distanziante, sdrucciolevole, che sentivo nell’idea di Sicilia.

[…]

Ogni volta sembrava di essere arrivati, ogni volta si incrociava strade comunali che ripetevano le stesse indicazioni in direzioni diverse; eravamo prigionieri inconsapevoli di quel medioevo tra la diffusione delle rotatorie e la comparsa del navigatore satellitare. Cercavamo indizi nel paesaggio, ma da ogni lato ondeggiavano le stesse colline appiattite dal calore, mai un passante, un uccello, nullaSognavo una sovrimpressione che mi indicasse pazientemente, lungo lo spartiacque ottuso tra i morbidi bacini di due fiumare, i sentieri di migrazione, i confini smussati delle controversie baronali, gli itinerari delle armate arabe o garibaldine che avevano passeggiato lì come pulci sulla dorsale scabra di una balena. Volevo un acetato da mettere e togliere, mettere e togliere… Invece mi si presentava solo uno spazio senza nomi. Non è vero che l’ignoranza è confortevole: quando la tocchi, fa paura. Soprattutto l’ignoranza di chi ha letto Verga e Sciascia ma li ha letti come Tolkien e Kipling. Di chi ha amato, sinceramente amato braccianti, calafati e piccoli solfatari, così come ha amato, sinceramente amato gli elfi, i nani, Mowgli. Non conoscevo il Sud, e lo sapevo.

Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica