Dalla lettura di “Billy il Cane” non si esce indenni

Ho letto questo libro senza mollezze lacrimali fino a pagina 66. Ma le due seguenti hanno fatto sì che il mascara coagulasse in una macchia nera. Sgarbo compensato dall’incorruttibile bellezza del narrato:

   Vago su e giù per le balze, abbraccio la mia compagna. Entrambi siamo senza parole, o se ne diciamo ci danno fastidio perché a questo punto non c’è nulla da spiegare. Potremmo essere fortunati, e allora ci concentriamo sulla fortuna, che Billy il Cane si stagli all’improvviso fra il cespuglio di rose canine e il pruno selvatico, che semplicemente appaia senza rumore come avesse camminato sulla nebbiolina della sera.

   Ecco, la fortuna. La sua pour la dernière fois, come certi personaggi di Racine. E allora, a quel punto non faremmo altro che accoglierlo, fare attenzione alla sua andatura incerta, non eccedere in allegrezza. Lo riceveremmo e basta. Ringrazieremmo i vicini, i figli degli allevatori, penseremmo alla cena – alla sua, prima di tutto, e poi alla nostra. Potremmo avere questa fortuna. Ci manca ancora la consapevolezza fisica del distacco, perciò ci schiaffeggiano tutti questi pietosi condizionali. Della dignità animale davanti all’estremo calare del Tempo ci hanno variamente convinto, ma manca qualcosa. A questo punto dovremmo prendere in considerazione l’ipotesi di consegnarlo noi stessi al silenzio, ma come faremmo? Qualcuno infine dovrà pur dirci che davvero è giunto il momento e che non possiamo aspettare. […]

    Questo pezzo di terra è diventato, e continua a diventare, una scena sconfinata. Apparteniamo a un teatro infinito, ma che sia teatro non ce ne rendiamo conto finché una scena fra le altre improvvisamente non straripa di senso, e noi in quel senso precipitiamo. E non suoni bestemmia, visto che stiamo parlando di un piccolo cane – che anche lui come il resto si muove dentro l’accadere -, ma dove rischiamo il ramo che si spezza, la terra che rovescia fango, il fuoco che ci impoverisce, il mare che non restituisce, il decreto che ci condanna, ogni volta quel teatro ci dice, brutalmente, quanto siamo uomini esposti alla perdita.

    Billy il Cane avrebbe ascoltato con attenzione. C’era un protendersi del muso, una rotondità d’occhi, e io sapevo che gli era noto quello che era necessario sapere. Ha imparato molto da noi, questo lo so, ma quanta immensa sapienza arrivava da più lontano, dal sudare degli anni, dalla saggezza nel sangue. Siamo qui per sopravvivere, ma a condizione che la sopravvivenza si colori di crepuscolo dell’alba e della sera.

   «Billy!» ripeto un’altra volta, ma ormai è come lo sapessi che non mi sente o, se mi sente, non dà retta.

    Neppure la mia compagna ci prova più, anche se sappiamo entrambi che a lei avrebbe obbedito.

In effetti devo essermi commossa anche a pagina 66, ma forse il mascara waterproof del giorno prima mi ha subdolamente tratta in inganno. Il “capobranco” e la sua compagna non sanno che Billy sente il loro dolore:

    Quante immagini tornano di questa lunga vita con i miei tutori, quante storie vissute insieme, quanto ascolto – sono stato confessore, un vero confessore, tante ne ho sentite, nei pomeriggi lenti, nelle mattine industriose, nel quotidiano rilascio delle offerte fra casa e parco.

    Hanno bisogno di parlare. Qualche volta anche di piangere. Ho sempre saputo quando e quanto prestar fede. Non sono mai stato morbido, ma la consuetudine mi ha affinato gli strumenti. So avvicinarmi quando sento il dolore.

    Anche adesso lo sento, ma avvicinarmi non posso. Questa volta ho dovuto allontanarmi e non ho modo di tornare indietro, non c’è sentiero verso di loro. Li sento chiamare, e a quel nome che attraversa il viola della prima sera mi chino per salutare.

Sì, Billy il Cane è un libro indimenticabile.