Dolore e ragione

ArtDependence | Under the Same Sky | Shilpa Gupta interview

All’inizio degli anni Sessanta, quando il potere della suggestione, con il reggicalze in testa, cominciò il suo lento esodo da questo mondo, quando ci trovammo sempre più ridotti all’aut aut del collant, quando già gli aeroplani scaricavano in Russia tonnellate di stranieri attirati dal profumo scadente, ma molto pungente, della schiavitù, e quando un mio amico osservò con un sorriso un po’ sprezzante sulle labbra che forse ci vuole la storia per compromettere la geografia, una ragazza che corteggiavo mi regalò per il compleanno una serie di cartoline di Venezia, di quelle che si aprono a fisarmonica.

Appartenevano, disse, a sua nonna, che era andata in Italia in viaggio di nozze quasi alla vigilia della prima guerra mondiale. Le cartoline erano dodici, color seppia, su povera carta giallognola. Me le regalò perché in quei giorni avevo appena finito di leggere due libri di Henri de Régnier e ne avevo ancora la testa piena. Tutt’e due avevano per scenario una Venezia invernale, e io non parlavo d’altro.

Poiché le fotografie erano brunicce e stampate male, e anche a causa della latitudine di Venezia e dei suoi pochi alberi, era impossibile dire esattamente a che stagione si riferissero. I vestiti della gente non aiutavano molto, perché tutti portavano sottane lunghe, cappelli di feltro, cilindri, bombette, giacche scure: la moda dell’inizio del secolo. L’assenza del colore e lo squallore generale della stampa facevano pensare a quello che io volevo pensare: l’inverno, la vera stagione dell’anno.

In altre parole, la qualità scadente e la malinconia che ispirava, essendomi già così familiari nella mia città, mi resero più comprensibili quelle immagini, più reali. Era quasi come leggere delle lettere di parenti. E io le leggevo e rileggevo. E più le leggevo, più si faceva chiaro ciò che significava per me la parola «Occidente»: significava una città perfetta sul mare invernale, colonne, portici, passaggi angusti, fredde scale di marmo, lo stucco che si scrosta lasciando scoperta la carne di mattoni rossi, putti, cherubini con le pupille coperte di polvere: una civiltà che raccoglieva le sue forze per affrontare i tempi freddi.

E guardando quelle cartoline feci un voto: se mai fossi uscito dal mio impero natale sarei andato a Venezia d’inverno, avrei affittato una stanza a piano terra – anzi a piano acqua –, mi sarei seduto, avrei scritto due o tre elegie, spegnendo le mie sigarette per terra, perché l’umidità le facesse sfrigolare; e quando con i soldi mi fossi trovato agli sgoccioli non avrei comprato il biglietto di ritorno ma una pistola di seconda mano e lì mi sarei fatto saltare le cervella. D’accordo, una fantasia decadente (ma quando mai si è decadenti se non a vent’anni?)Comunque, sono grato alle Parche per avermi permesso di realizzarne la parte migliore. Certo, la storia si dà molto da fare per compromettere la geografia. C’è solo un modo per vincere la partita: diventare un reietto, un nomade – un’ombra che fuggevole accarezza colonnati di pizzo, porcellana riflessa dentro un’acqua di cristallo“.

tratto da Dolore e ragione di Joseph Brodsky, poeta e saggista russo.

A volte mi chiedo: ma gli scrittori ricorrono a una gestazione del ricordo prima di scriverne oppure seguono altre strade? Probabilmente si tratta di percorsi inconsci che conosco bene anch’io per l’attitudine a migrare nel passato col fine di indagare chi ero e chi sono. E concludere che non ero e non sono.

Foto: un’opera di Shilpa Gupta