La Biennale e quel senso di irrisolto

The Commercial | Archie Moore: kith and kin | Venice Biennale - Australia Pavilion | curated by Ellie Buttrose | 20 Apr 2024-24 Nov 2024

Archie Moore, Kith and Kin (Padiglione australiano)

” […] Lo slogan della Biennale era Stranieri ovunque, inteso non solo come perenni apolidi, bensì come estranei a sé stessi, uomini e donne che ci aprono all’alterità sapendo che, prima di tutto, l’altro abita dentro di noi. È un assunto che condivido nel profondo ma che non mi sorprende più di tanto, visto che l’arte segue questa filosofia almeno dagli inizi del Novecento senza aver quasi mai sentito il bisogno di dichiararlo, e nei rari casi in cui l’ha fatto, ha scelto di esprimerlo attraverso forme più elaborate. […] L’ironia, tanto per cominciare, è sparita del tutto. Anche quando la si incontrava […] era soffocata dal messaggio, dalla reprimenda ecologista, che non poteva certo scuotere le coscienze dei visitatori già ampiamente scossi e iperconsapevoli della Biennale. A quanto pare, l’ansia per i cambiamenti climatici è così prevalente nelle nuove generazioni di artisti da cancellare ogni altra urgenza personale, costituendo una specie di contenuto qualificante che vince nella comunicazione dell’opera a prescindere dalle scelte espressive adottate. […] È un’arte che ci informa, che non smette di darci notizie, guadagna la nostra attenzione solo per dirci cose che già sapevamo e su cui siamo d’accordo: il pubblico della Biennale potrà mai essere contrario alla tutela delle tribù amazzoniche? Anche le didascalie finiscono per risultare superflue, se non per dire che la tal autrice è non binaria, dettaglio che attiene alle scelte sessuali della persona, ma non basta a qualificare il suo lavoro di artista. […] Perché non mi sono mai imbarazzato alla Biennale? Niente che abbia messo in discussione il mio punto di vista, che mi abbia scosso o mi abbia provocato. Solo artisti che mi elargivano editoriali su come va il mondo. Ma abbiamo forse bisogno di altri editorialisti? Come può aiutarmi a vedere l’invisibile un’arte così ponderata, un’arte che non osa, ma biasima e rimprovera? L’unico spiraglio lasciato aperto alla follia era lo sciamanesimo, che si poteva cogliere anche nell’effetto extrasensoriale di Kith and Kin, l’opera vincitrice del Leone d’oro compiuta dall’aborigeno Archie Moore. […] Forse si tratta di ritrovare la vena irrazionale dell’arte che scorre dentro di noi anche senza affidarsi alle pozioni magiche. Forse si tratta di ritrovare la libertà di rischiare, di forzare le forme, metterle in tensione, di abbandonarci al desiderio, a dove ci trascina con furia spietata, lasciando indietro gli scrupoli e l’opportunità di assecondare la corrente dei giusti. Lo dico pensando non solo alle arti visive, ma anche alla letteratura. Forse si tratta di rimettersi a camminare sul filo di nuovo senza rete, affrontare l’incognita del presente con più ardore e minor strategia. Stranieri ovunque non dev’essere un dogma per confortarci in una lotta alle identità, in fondo a sua volta neoidentitaria, ma può essere l’occasione per fare una coraggiosa esperienza di straniamento, ovvero per scoprirci ospiti di noi stessi, di una vita che è nostra eppure non ci appartiene, gettati allo sbaraglio dove niente, neanche più il corpo, è una patria, tutti intrusi a casa propria, paradossalmente soccorsi dall’ignoto che bussa alla porta. «Stranieri, vi prego, non lasciateci soli con i danesi!» (Padiglione Danimarca).

Mauro Covacich

Bravo Covacich. Ora che la cultura woke è al tramonto, o perlomeno sembra farsi meno pervasiva, e gli -ismi d’ogni sorta hanno stancato persino le persone di buona volontà, è ora di riappropriarsi dei ritmi del sole e della luna, della magia (non di quella smerciata in pozioni, ovviamente) e del sogno. Insomma, di tutto ciò che attiene ai sensi e alla sensibilità, e che sta tra cielo e terra senza smettere mai di stupire. Ma soprattutto si dovrebbe tornare a considerare l’artista come persona e non come tramite dell’attualità per urgente e trasversale che sia, provando anzi, attraverso le sue opere, a indovinare il messaggio di cui si fa portatore. Gli assemblaggi di installazioni evocanti incertezze incombenti lasciamoli a chi vive dell’immediatezza del raziocinio più che del significato ultimo di quello che vede o legge.