Knots

La mia specialità era di sbrogliare nodi. Fui io a decidere di farmene un incarico, che ben volentieri mi cedevano. Quello era un ambiente di tende canadesi, ceppi, tele cerate e costruzioni in bastoni di legno. Ma tutto era tenuto insieme da corde e cordicelle di varia lunghezza, i chiodi erano quasi del tutto banditi.
Preti e capi scout si prodigavano, nel pio tentativo di inculcare principi solidi a preadolescenti con la testa altrove, turbata dalle prime polluzioni notturne. E attratta da un vago sentore di gnocca come quelli dal Paradiso.
Ma alla fine effettivamente ti avanzava una forte sensazione di effimero, di un mondo fermamente traballante, cagionevole e retto da un nodo piano, il più semplice e precario fra i nodi.
“Forse un mattino andando in un’aria di vetro…”

Per cui con il tempo ti sorprendi davvero a pensare che sia Dio ad esistere e tutto il resto no.

Deflation Times

Ad attrarre la mia attenzione è il tremolio di un violino, arnese che per qualche motivo ho sempre detestato. Questo suona una canzone balcanica dal tempo claudicante, zoppo come la persona che imbraccia lo strumento. Il guanto di lana grezza è tagliato alla falange e ne escono i polpastrelli induriti dall’esercizio sulle corde; intorno i portici semi deserti fanno da quinta alla strada in porfido. L’impressione, non solo mia credo, è che il mendicante accentui la menomazione, a far leva sul sentimentalismo pre-natalizio. Così come tende a indugiare su certe cadenze suggestive, d’inganno, intascando sbrigativi oboli da dita fredde e congestionate che sbucano svogliatamente dalle maniche pesanti. Ma a forza di darci dentro qualcosa ha imparato e non se la cava male in questa melodia straniante, a mezzo fra Goran Bregovic, Bela Bartok e le note in dissesto di un’economia al tramonto.
Rosso è l’orizzonte e cupo, ai passanti si mescolano poveracci e saltimbanchi e figure grasse e caricaturali come in un quadro di Grosz.