Da secoli ormai non c’è grigiore o uggiosità del tempo che ti cambino l’umore. Neanche le belle giornate, a dire il vero. La tristezza ormai da secoli è giusto un velo spalmato su un pane odoroso e fragrante. E ti piace così, meglio che certe oche giulive o i loro neuropatici contraltari. Nel loro tono eccessivo riconosci il singulto trattenuto dell’isteria e questo, pare, per antiche disattenzioni di mammà.
Tre o quattro le cose avanzate come opzioni definitive per l’ultimo terzo di vita, ancora una forse ne scarterai, ma danno senso e gioia prima e dopo il sonno. Un sonno quieto e ristoratore che in passato pareva impossibile. Obliare l’anelito alla felicità è forse il presupposto per riottenerla in qualche forma. Forse, dico. Ne sia una accettabile parvenza o un surrogato, è frutto di un graduale lavoro di scarto. I collaudi, spesso auto-inflitti, sono stati superati e gli obbiettivi raggiunti. Anche amore e desiderio e relative maschere e decodificazioni, col loro “giusto” dire ed agire e la rava e la fava, ti hanno stancato. Non ti manca nessuno, non senti la mancanza di questa mancanza e così cammini libero e rinfrancato.
Le mani in tasca, calci noncurante il sasso con effetto teso a rientrare, perfino colpendo la base del lampione, sssstoc! Proprio come insegna il monaco Zen col suo cazzo di arco, ma veh, magguardaben…
Mi piace l’idea della felicita’ intesa come un graduale lavoro di scarto…credo che in fondo si ottenga cosi’!!!! Bel post, complimenti.