Saggi brevi

FELICE SERINO

PROFILI

Questi Profili (opera segnalata al Concorso Il Convivio 2018), di personaggi noti e meno noti bagnati dal crisma della bellezza, hanno un filo spirituale che li lega, ed è l’amore nel campo della poesia e dell’arte.

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DINO CAMPANA, IL DEMONE CREATIVO E LA NOTTE

A Dino Campana

Ritorna, che cantar canzone di voto

dentro l’acqua del Naviglio io voglio

perché tu sia riesumato dal vento.

Ritorna a splendere selvaggio

e giusto ed equo come una campana,

riscuoti questa mente innamorata

dal suo dolore, seme della gioia,

mia apertura di vento e mio devoto

ragazzo

che amasti la maestra poesia.

Alda Merini

La voce poetica che si apre verso le esperienze liriche che caratterizzano il dopoguerra è, senza dubbio, quella di Dino Campana. Egli rappresenta un caso a sé in tutta la letteratura italiana. Giudizi e accuse hanno accompagnato questo “alchimista” di versi del primo Novecento anche dopo la morte. “Alzai la testa e ricercai la stella / Avvelenata sotto cui sono nato”: questi due versi rivelatori sono la terribile sentenza che suggellò il suo destino. La vicenda stessa di quest’uomo appare come una lunghissima stagione di follia indomabile. Lo stesso Campana può riassumere la sua biografia in poche righe, in una nota trovata tra le sue carte dopo la morte: “Dino Campana nacque il 20 agosto 1885 in Marradi […].All’età di 15 anni, colpito da confusione di spirito, commise in seguito ogni sorta di errori ciascuno dei quali egli dovette scontare con grandi sofferenze”. Il padre era maestro elementare; la madre, Fanny, casalinga. Il fratello di Fanny, affetto da pazzia, viveva sotto lo stesso tetto quando già era nato Dino. Tutto il paese darà valore alla “ereditarietà”, stabilendo una connessione tra zio e nipote. Nel 1888 nasce il fratellino Manlio. A seguito di tale evento Fanny, per evitare ulteriori gravidanze, rifiuta ogni rapporto coniugale. Il marito, nel giro di qualche mese cade in depressione e deve essere temporaneamente internato nel manicomio di Imola. Fanny riversa tutte le sue cure al neonato, ignorando deliberatamente Dino. Il ragazzo si chiude in se stesso, scoprendo la gelosia fraterna e un odio aperto per la madre. Segue i corsi ginnasiali a Faenza, presso il Convitto Salesiano ma con scarso profitto.Nel 1897 si iscrive al Ginnasio-Liceo “E. Torricelli”. Colto da disturbi nervosi,deve tornare a Marradi, dove continua privatamente gli studi. Ricominciano gli scontri con la madre. Oltre al disadattamento ambientale, ora è oggetto di scherno da parte dei coetanei. Dino resta fuori casa quanto più può, si apparta, si rifugia nei boschi a contatto con la natura, legge, si nasconde nei fienili per interi giorni senza toccar cibo. Ogni volta che discende in paese, lo scherniscono, e allora il ragazzo s’identifica, perversamente, nel personaggio del pazzo. Nel 1903 s’iscrive a chimica pura a Bologna, ma passa subito a chimica farmaceutica presso l’Istituto di Studi Superiori a Firenze, per poi tornare a Bologna. La difficoltà di adattamento alimenta le turbe nervose che rendono necessario, nel 1906, un primo ricovero in manicomio, ove resta però pochi mesi soltanto, per intervento del padre. A 19 anni, Dino prende il primo treno per il nord. Sarà a Milano, poi in Svizzera, infine a Parigi, ove acquisisce conoscenze di pittura moderna che affioreranno nella sua opera letteraria. I viaggi disperati sono quelli di un eterno fanciullo, rapito nell’anima dal demone della poesia: “Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutto un chinarsi sull’abisso. Ero bello di tormento, inquieto, pallido assetato errante dietro le larve del mistero…”.

Campana conosce in terra francese i poeti “maledetti” Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Più volte lo fermano per vagabondaggio. Per sbarcare il lunario fa i più svariati mestieri. Infine torna a Marradi, ma per poco. Ama troppo la vita da nomade, l’aria aperta, la vastità delle valli coi suoi echi e i suoi silenzi rispecchianti i paesaggi segreti dell’anima, e che gli aprono il cuore sull’infinito. Ha compiuto 22 anni. Compone le poesie che formeranno i Canti orfici. La raccolta sarà ultimata nell’autunno 1913. Nella sua poesia visionaria sembra trasparire un rapporto spirituale con quella di Rimbaud. Si è molto insistito, all’inizio, sull’influenza del poeta francese, ma essa è stata giustamente rimessa in discussione dalla critica più recente. Nella poesia di Campana, la Notte è il suo simbolo visivo. E in essa appaiono lampeggiamenti, immagini frantumate… Egli cerca il risarcimento della sua fame di vita in una poetica dilacerata, sia come simbolo di bellezza ideale, sia come incarnazione di una condizione umana che fa di lui uno sradicato, un anarchico. Scrive Galimberti che Campana fu poeta “nel segno della poesia come vita”. Emilio Cecchi parla di “un esempio di eroica fedeltà alla poesia: un esempio di poesia davvero col sangue”. E il critico Angelo R. Pupino (1): “Lo stravolgimento allucinato della parola e trasformazione di questa in oggetto, avviene nel raggio di un non cospicuo numero di immagini-simboli (erotiche, soprattutto) che subiscono alcune variazioni e molte reiterazioni. Alla fine, l’impressione è di una forte componente letteraria, anzi intenzionalmente e sacerdotalmente poetica “. In Argentina, dove resta per poco, Campana svolge vari lavori per vivere. E’ in Olanda, Belgio, attraversa a piedi intere regioni. Viene arrestato per vagabondaggio e trascorre due settimane nel manicomio di Tournay. Torna a Marradi ancora una volta, per poco tempo, nel 1908. Vaga ancora, spirito inquieto e tormentato. Questa sua ansia di muoversi, di cambiare luogo corrisponde a un motivo profondo della sua poesia: il viaggio (soprattutto interiore), il senso di evasione dalla condizione presente, l’inseguire qualcosa (una Chimera) che non potrà mai essere raggiunto. Dino si reca a Firenze nel dicembre 1913, con in tasca il manoscritto dei Canti Orfici, e si presenta alla redazione di “Lacerba”, dove incontra Papini e Soffici che dirigono la Rivista.Frequenta intanto il gruppo di artisti e letterati che si riuniscono al caffè delle “Giubbe Rosse” e alla birreria “Paszkowski”. Tempo dopo scrive a Soffici per avere indietro il manoscritto, ma l’artista lo ha perduto durante un trasloco. L’episodio penoso sconvolge Campana, il quale, prossimo al collasso nervoso, ne ricompone a memoria la seconda stesura, deciso pubblicarlo. Gli editori a cui lo invia, lo ignorano, così egli in estate si decide a stamparlo a spese proprie, presso il tipografo Bruno Ravagli. Torna a Firenze dove vende personalmente il libretto nei caffè e nei luoghi pubblici, firmando il volume o strappando qualche pagina a seconda che l’acquirente gli sia “simpatico” o “antipatico”. Estimatore, con alcuni altri, della novità della poesia di Campana, è lo stesso Soffici. Silenzio, al contrario, da parte della critica. Deluso, Dino parte per la Svizzera, in cerca di lavoro. Intanto l’Italia entra in guerra (1915). Dino pensa di arruolarsi ma viene riformato. La delusione si trasforma in mania di persecuzione.

Si ammala di nefrite, reni infiammati. Mentre si trova a Genova, colto da una paralisi al lato destro. In settembre, viene curato in ospedale, a Marradi, per la nefrite e l’infezione luetica. Guarisce ma rimane preda di deliri e acute cefalee. Sviluppa un delirio persecutorio nei riguardi dei letterati fiorentini. La famiglia Campana si trasferisce intanto a Signa, presso Firenze. Dino si sente finito; il destino lo sovrasta come una spada di Damocle. Ha dato tutto al demone creativo; ora erra senza pace, l’anima lacerata… Ed ecco che quel destino (“stella avvelenata”) contro il quale egli impreca, deve riservargli un’ultima esperienza consistente in una felicità effimera che però si tramuterà in struggente dolore: il fatale incontro con Sibilla Aleramo (2). E’ l’estate del 1916. Nasce un amore disperato e divorante, ma anche trasfigurato in un alone di magia lirica: “Vi amai nella città dove per sole / Strade si posa il passo illanguidito / Dove una pace tenera che piove / A sera il cuor non sazio e non pentito / Volge a un’ambigua primavera in viole / Lontane sopra il cielo impallidito”. Un amore passionale che lo travolge; è come un incendio dei sensi, una fiammata. Infatti dura poco, meno di un anno. Per lui è il colpo definitivo; cade in delirio, si dà al bere, va spesso in escandescenze. Durante un episodio persecutorio, è fermato in stato di etilismo e trasferito al manicomio di San Salvi di Firenze. Da lì, il 18 marzo è inviato in internamento al manicomio di Castel Pulci. Ormai in questi posti si può dire che “è di casa”. E’ preda di visioni e di violenti deliri.

Ma non è da escludere che a condurlo in quello stato abbiano contribuito i rudimentali elettroshock n uso allora, che portano allo sfacelo della psiche. Dino è interrogato e “tormentato”, per tre anni consecutivi, dallo psichiatra Carlo Pariani (poi suo medico e futuro biografo). Finalmente nell’autunno 1930 viene ritenuto guarito.Ma ecco il cerchio si chiude: Campana muore il I° marzo 1932, per “setticemia primitiva acuta”. Almeno, questa la diagnosi; ma la verità, nei suoi riguardi, sembra ancora una volta negata: si dice che in realtà egli fosse morto per una ferita procuratasi scavalcando un recinto di filo spinato. Persino le sue spoglie devono peregrinare, fino a quando, nel 1946 saranno traslate nella chiesa di Badia. Dopo la morte, 43 composizioni vengono trovate per caso, trascritte su un quaderno. Saranno poi pubblicate in Canti Orfici e altri scritti (Vallecchi 1952), a cura di Enrico Falqui.

Chiudiamo questo breve excursus sulla vita e l’opera di Campana con le parole di Carlo Bo, che nell’introduzione ai Canti Orfici scrive: “La poesia ha continuato per altre vie, ha avuto illustri pretendenti ma non ha più coinciso con il destino di un uomo, così come era accaduto con Campana. Ecco perché va ripetuto che Campana resta l’ultimo poeta, il poeta toccato e divorato dal fuoco, il poeta che è entrato per sempre nel cuore stesso della notte e non ne è più uscito”.

NOTE (1) Letteratura mondiale del ‘900, 3 voll., Edizioni Paoline 1980. (2) Della scrittrice (18761960) s’innamorarono anche, a quanto ci risulta, Giovanni Papini, Vincenzo Cardarelli e Salvatore Quasimodo.

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DYLAN THOMAS: VIAGGIO ALLA FINE DELLA PROPRIA FERITA

Venere giace nella sua ferita,

colpita da un astro e le rovine sensuali creano

stagioni sopra il liquido universo.

Il bianco spunta nelle tenebre.

Il suo vero nome era Dylan Marlais. Dylan starebbe a significare: “Figlio marino dell’onda”. Il Nostro nasce a Swansea (Galles) il 27 ottobre 1914. La sola educazione formale che Dylan riceve è alla Swansea Grammar School che frequenta tra il 1925 e il 1931. Il padre, poeta egli stesso, è insegnante presso questa scuola. Il ragazzo non s’iscriverà all’università.Durante un breve periodo lavora come cronista presso un giornale locale, il “South Wales Daily Post”, e in questo stesso periodo pubblica le prime poesie. Presto si reca a Londra, ove entra a far parte di un circolo letterario che si raduna nella Charlotte Street a Bloomsbury. Tra le poesie pubblicate, e premiate, dal periodico “Sunday Referee” – a cui egli collabora – vi sono quelle della poetessa e narratrice Pamela Hamsford Johnson, con cui a partire dal 1933 Dylan inizia una fitta corrispondenza che sembra sfociare, dopo il primo incontro nel febbraio dell’anno seguente, in un legame sentimentale. Conosce in quello stesso anno il poeta gallese Vernon Watkins, che resterà uno dei più sinceri e disinteressati amici della sua vita. Già prima dei vent’anni Dylan comincia a bere smodatamente, asciandosi dominare letteralmente dall’alcool.A Penzance, in Cornovaglia, nel luglio 1937, egli sposa l’irlandese Caitlin Macnamara, modella del pittore August John, che l’ha presentata al poeta alcuni mesi prima. Dylan racconterà poi che appena dieci minuti dopo le presentazioni, sono già a letto insieme. Nell’agosto 1938, Thomas si stabilisce con la moglie a Laugharne, nel Carmarthenshire, in una casa di campagna vicino al mare, luogo denominato “Sea View” in cui sarà ambientato il “Dramma per voci” (Under Milk Wood, 1954). Dal 1941, egli lavora saltuariamente presso l’industria cinematografica e successivamente per la BBC con una serie di letture radiofoniche.Le sue opere poetiche Eighteen Poems 1934, TwentyFive Poems 1936, e alcune poesie di The Map of Love 1939, contribuiscono a dar vita al movimento denominato “The New Apocalypse”. Tali poesie, molte delle quali surrealisticamente oscure, visionarie, presentano un indubbio talento nel trattamento del ritmo e nel sapiente uso delle metafore. Dove maggiore è la capacità di controllare l’impeto creativo, è tuttavia da rilevare in Deaths and Entrances, del 1946. “Nell’inevitabile contrasto di immagini”, dichiara Thomas, “io cerco di ricreare quella pace che dura un attimo e che è una poesia”.Detto per inciso, la pubblicazione, ultima, dei Collected Poems 19341952 ( del 1952), raggiungerà la tiratura di 10 mila copie. Egli nasce predestinato a un successo duraturo, soprattutto post-mortem. Nella primavera del 1947, Dylan Thomas si ferma per qualche settimana in Italia, a Villa Beccaro, Scandicci (Firenze), dove tuttavia non si trova a proprio agio. Qui sostituisce l’enorme quantità di birra a cui è abituato, al vino italiano, con una conseguente ebbrezza che lo coglie molto prima, e la cui causa è un immaginabile squilibrio psichico.Conosce poeti di fama come Mario Luzi, Ottone Rosai, Piero Bigongiari, Eugenio Montale. Giovanni Papini definisce la poesia di Thomas come “l’opera di un ubriaco irresponsabile”. Nel marzo 1949, il Nostro torna a Laugharne, dove si trova a dover affrontare il problema di enormi rretrati di tasse da pagare. Nell’autunno 1953 riceve il premio Etna-Taormina.

In ottobre si reca per l’ultima volta in America (vi era già stato per brevi periodi negli anni 1937 e 1952), dove lo coglie la morte per delirium tremens, a New York, nel Saint Vincent Hospital, il 9 novembre. La diagnosi è: intossicazione alcolica delle cellule cerebrali. Il 24 novembre le spoglie di Dylan Thomas vengono sepolte nel cimitero di St. Martin a Laugharne. Da rilevare, che nell’anno 1982 è stata collocata una lapide in suo onore nell’ Angolo dei poeti dell’Abazia di Westminster, a Londra.

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L’opera thomasiana è definita caotica e ineguale. A volte la poesia sbocca nelle forme della preghiera o dell’inno; si vedano i “canti d’innocenza” o quelli del gruppo comprendente 12 frammenti di “Visione e preghiera “, che inizia con questi versi: “Chi / Sei tu / Che nasci / Nella stanza accanto / Alla mia con tanto clamore / Che io posso udire l’aprirsi / Del ventre e il buio trascorrere / Sopra lo spirito e il tonfo del figlio / Dietro il muro sottile come un osso di scricciolo? / Nella stanza sanguinante della nascita / Ignoto al bruciare e al girare del tempo / E all’impronta del cuore dell’uomo / Nessun battesimo si curva, / Ma il buio solamente / A benedire / Il barbaro / Bimbo”. (L’intero poemetto è diviso in due parti; i primi sei frammenti sono a forma di losanga, i secondi a calice). Sovente nella sua opera poetica pare che l’autore giochi sul caos e sul filo dell’ambiguo “per invogliare la critica ad arrendersi o a una condanna o a una accettazione incondizionata” (Gabriele Baldini nell’introduzione a “Poesie”, 1974). Ma di tutto si può accusare questo “alchimista” della parola, tranne che di faciloneria e di improvvisazione. Il tema di fondo è quello della recherche di un tempo infantile, d’innocenza, e l’ossessione è quella dello scavare in profondità nell’alveo primordiale della nascita, come viaggio doloroso verso l’altra “nascita” che è implicita nella morte. (“Dopo la prima morte non ce ne sono altre”: è l’ultimo verso di “A Refusal”). Si contano vari traduttori della sua opera poetica e in prosa che si sono cimentati nel difficile compito di interpretarla. Fra questi vogliamo citare, nel chiudere questo breve excursus, Eugenio Montale: “La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore, / Guida la mia verde età; quell’impeto che squassa la radice degli alberi // E’ per me distruzione. / E muto non so dire alla rosa avvizzita / Che questa febbre invernale piega anche la mia giovinezza. // La forza che guida l’acqua fra le rocce, / Guida il mio rosso sangue; quella stessa che asciuga le sorgenti che gridano, // Le mie raggruma / (…). La lirica [di Thomas] non ha un linguaggio da comunicare”, scrive Alfredo Giuliani, “è essa stessa il più alto e comprensivo messaggio possibile, informazione magica faticosamente raccolta dall’autore (…) la poesia sta ferma, romba dentro se stessa come una pietra cava, tutte le lacerazioni si rimarginano nel tessuto sonoro, sono soltanto figure del disegno elegiaco e celebrativo”.

Nota – Per la vasta bibliografia si veda “Dylan Thomas – Poesie”, Oscar Mondadori 1974, o anche “Letteratura mondiale del 900”, Edizioni Paoline 1980.

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VINCENZO CARDARELLI, IL POETA DELLA SOLITUDINE

Il I° maggio 1887, a Carneto Tarquinia, zona maremmana, in provincia di Viterbo, nasceva Vincenzo Cardarelli, all’anagrafe registrato col cognome materno, Caldarelli (poi modificato) e col nome di Nazzareno. Il padre, che non appare nell’atto di nascita, teneva in casa Giovanna Caldarelli, la quale si guadagnava da vivere con la raccolta e la vendita di frutta e ortaggi. Dopo la nascita del piccolo, la donna fu messa alla porta e il figlio non venne riconosciuto. Un marchio che segnò a fuoco la vita di Vincenzo: “Io nacqui forestiero in maremma…e crebbi come un esiliato. Non ricordo la mia famiglia né la casa dove sono nato”. Più tardi il padre si risposò e il ragazzo conservò negli anni un buon ricordo della matrigna.Tuttavia la sua fu un’infanzia triste e inquieta: “Io avevo un vasto tesoro di sensazioni e di sentimenti; la mia infanzia. Fu come se una libecciata furiosa l’avesse dispersa. Io vissi in arida solitudine…Nascita, indole, educazione, tutto contribuì a fare di me un uomo amato da pochi, ingiuriato dai più, e compreso veramente da nessuno”. (Solitario in Arcadia, 1947). Il giovane cresce plasmando un carattere guardingo e permaloso, cinico e avvelenato. E’ tuttavia dotato di una sensibilità e un’intelligenza vivissime. Si sente subito perduto quando, concluse le elementari, il padre non gli consente più di continuare gli studi. A 17 anni scappa da casa, giunge a Roma con 7 lire in tasca. “Cercai la scuola nella vita, nel mondo”. Si adatta, per vivere, alle più umili occupazioni. In tali condizioni di vita, dove non v’è posto per studi regolari, la sua cultura è il frutto di un accanito impegno di autodidatta. La sua natura poetica emerge sicura. Nel frattempo conduce una vita precaria ed errabonda, di isolamento e solitudine. Nel 1908 entra, grazie ad aiuti, nella redazione dell’Avanti! come articolista. E’ un periodo di fertilità ed entusiasmo; scrive anche due articoli al giorno. E’ instancabile. “Le mie giornate sono / frantumi di vari universi / che non riescono a combaciare. / La mia fatica è mortale”. Rimarrà in redazione fino all’ottobre 1911 allorché la sede viene trasferita a Milano. Fra gli anni 1910-1911 collabora a riviste e quotidiani quali Il Marzocco, La Voce, Il resto del Carlino, e frequenta il caffè Paszkowski insieme ad artisti e letterati emergenti. Ma il suo fisico è minato ed è necessario il ricovero al Policlinico. Soffre di turbe gastriche, dolori renali, e spesso è preda di crisi depressive con irascibilità o prostrazione. Si tuffa nelle letture di Nietzsche, Leopardi, Pascal, formandosi culturalmente nel periodo di tempo necessario per rimettersi in salute. Se si vuole cercare una presenza femminile, l’ “amore” – l’unico – nella vita solitaria di Cardarelli, questa è Sibilla Aleramo. Egli se ne innamora subito, subendone tutto il fascino. Segue un periodo di convivenza con lei, a Firenze. Questa tormentosa passione amorosa che lo lascia quasi stravolto, non è altro che una fiammata: presto i due amanti si rivelano l’uno l’antitesi dell’altra: lei tutto istinto e passione, lui dalla naturale introversione che finisce per trincerarlo in difese e razionalizzazioni nevrotiche. Egli considera la “donna” come mistero adorabile, inafferrabile. “Io non crederò mai nella donna. Questa è la mia dannazione”. Il problema donna per Cardarelli diviene sinonimo di nevrosi, ed egli si lascia afferrare dalla misantropia, risucchiare dal vuoto esistenziale: “queste ombre troppo lunghe / del nostro breve corpo, / questo strascico di morte / che noi lasciamo vivendo/…/; mi sono sempre alzato da una disfatta…il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione”.Ha inizio un lungo vagabondare di luogo in luogo. Egli vive in camere d’affitto o ospite di amici. Dalla sua sensibilità e il suo spirito nomade, nasce una poesia autobiografica ed elegiaca: Profughi, Viaggi nel tempo, dove è rappresentato il bisogno di interrogarsi sul perché dell’esistenza. Frequente è la dedica ai suoi luoghi natali: “Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, con gli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille, il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso. Ma rimase seppellito, il solitario orgiasta, nella propria favola luminosa.

Benché la gran madre ne custodisca un ricordo così soave che, dove l’Etruria dorme, la terra non fiorisce più che asfodeli”. Collabora a La Voce e a Lirica; infine torna a Roma, dove fonda la rivista La Ronda che vede la luce nell’aprile 1919 (e vivrà fino a novembre 1922). La sua vena lirica, altissima, rievoca l’infanzia, l’amore per la campagna, le figure femminili, le stagioni nel loro mutare, il senso del tempo; il suo pessimismo di matrice leopardiana si nutre del tema della morte: “lasciatemi rivedere la mia terra, lasciatemi andare una notte a dormire con i morti”. Nascono le prose di Il sole a picco, premio Bagutta (1929), Il cielo sulle città, I Viaggi. Un altro tema caro alla sua sensibilità di poeta è quello del viaggio (reale o metaforico). Egli è “esule ovunque”. Ha scritto giustamente Luzi: “Noi sapremmo interpretare il nomadismo e le fughe del Cardarelli se non destinate dalla qualità della sua stessa sintassi spirituale (…) la sua vita psicologica assume una rapidità ed una gravità drammatiche: ogni incontro diviene un avvenimento fatale, ogni separazione un addio per l’eternità”. “Sento la poesia come sostanza, idee, concetti, situazioni poetiche, piuttosto che come puro linguaggio”, scrive il Nostro in Giorni in piena (1934). “A quella sua idea di poesia”, leggiamo da Alberto Frattini, “Cardarelli rimarrà sempre fedele: dalle sue più famose liriche – come Adolescente o Estiva, Liguria o Alla morte – ove nel linguaggio vigile e teso il tono pacatamente familiare trascolora e s’impenna su punte di misurata aulicità e la musica si sostiene a filo di un’acre intelligenza, di una macerata inquietudine, alle poesie d’amore – tra le più belle del nostro Novecento – ove il tessuto autobiografico è decantato e redento in rara levità di movenze, ariose e malinconiche, sino alle poesie del ’47, nel cui tono medio, “pianissimo e intenso” il De Robertis indicava la vera scoperta dell’ultimo Cardarelli”. Nel 1949 gli viene affidata La Fiera Letteraria, che dirige fino al 1955 (ma specialmente negli ultimi anni, solo nominalmente): una strana malattia ai centri nervosi condizionanti lo stato termico del corpo, non gli consente quasi più di lavorare. Lo si vede in piena estate, seduto al caffè Strega, in via Veneto, ancora col cappotto e cappello. E’ il poeta che ha già affermato: “Ora la mia giornata non è più / che uno sterile avvicendarsi / di rovinose abitudini / e vorrei evadere dal nero cerchio…/ E sogno partenze assurde, / liberazioni impossibili…/ Io annego nel tempo”. E’ il 1959 e la salute gli ha voltato le spalle: isolato in una pensione romana, quasi non può più fare movimenti fisici. Il 15 giugno, dopo la degenza di un mese, assistito dalla sorella, muore al Policlinico di Roma. A testimonianza del suo animo perennemente inquieto e sradicato, ci lascia questi versi memorabili: “Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino pace. / Io son come loro / in perpetuo volo. / La vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / la gran quiete marina, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca”

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SIMONE WEIL, IL FUOCO DELLA VERITA’

Personalità dal carattere forte e volitivo, che per la sua fede nella verità fu spesso pietra d’inciampo e che eccelse in coerenza fino al limite dell’estremismo più radicale, Simone Weil nacque il 3 febbraio 1909 a Parigi. A 14 anni attraversa una crisi di sconforto adolescenziale (“ho seriamente pensato a morire a causa della mediocrità delle mie facoltà naturali”). A 21 le si manifestano quelle cefalee che la faranno soffrire atrocemente sino alla fine della sua vita. (“Il mio impulso, nelle crisi di mal di testa” – confessa – “è colpire qualcuno alla testa”). Un estremo sforzo di attenzione le permette di lasciar soffrire la carne ” per conto suo, rannicchiata in un angolo”. All’inizio degli anni ’30, quando milita nei ranghi del sindacalismo rivoluzionario, la Weil professa un antimilitarismo radicale. “Il patriottismo (…) non tende ad altro che a trasformare gli uomini in carne da cannone” (1). Professoressa al liceo di Auxerre, Simone nel dicembre ’34 non disdegna di sperimentare il lavoro manuale, prestando opera come manovale presso Alsthom (società di costruzioni meccaniche) a Parigi (“lavoro durissimo, calore insopportabile, fiamme che lambivano le braccia…”). L’anno seguente la Weil lavora come fresatrice alla Renault. A settembre, in Portogallo, nel villaggio Pavoa do Varzim, a 80 chilometri circa a nord di Porto, ella percepisce l’affinità tra Cristo e i più poveri, scoprendo il cristianesimo nella sua dimensione più vera e straziante. Quella data, 15 settembre, è la festa patronale di Nostra Signora dei 7 Dolori. Nell’agosto ’36, Simone Weil s’impegna nella guerra civile in Spagna nelle file degli anarcosindacalisti. Partita per prendere parte a una rivoluzione, ella si rende conto di non far altro che partecipare a una guerra. L’anno seguente, Assisi è la prima delle tre tappe della sua conversione. “Fu una volta che ero intenta a recitare la poesia Love” [di George Herbert, n.d.a.] – scrive – “che Cristo stesso è disceso e mi ha presa”. Da allora la poesia diventa preghiera. La sua conversione assume contorni più netti durante il soggiorno all’abbazia di Solesmes, nella settimana santa. Ha allora 29 anni. Nella primavera del ’40, Simone conoscerà le Bhagavad Gìta, dalla cui lettura riceverà, per sua ammissione, un’impronta permanente. Su consiglio di René Daumal ella si avvierà allo studio del sanscrito, lingua originale del testo sacro. Dopo aver lasciato Parigi, il 13.6.1940, giorno in cui la capitale francese viene dichiarata “città aperta”, Simone in settembre s’installa a Marsiglia e prende contatti con gli ambienti della Resistenza. La rete alla quale appartiene viene scoperta, e nella primavera del ’41 ella viene interrogata per quattro volte dalla polizia. Ogni volta si aspetta di venir arrestata e prepara la valigia con alcuni vestiti… Resterà fino al marzo ’42 alla base dell’organizzazione e della diffusione dei quaderni clandestini della Resistenza, i Cahiers du Témoignage chétien per i sei dipartimenti del Sud-Est. Nel giugno ’41, Simone va a trovare padre Joseph-Marie Perrin presso il convento domenicano a Marsiglia, dietro richiesta di questi di conoscerla; lei gli chiede di voler fare l’operaia agricola, e il frate la indirizza da Gustave Thibon a Saint Marcel d’Ardeche. La Nostra si appassiona al Tao Te Ching e studia le Upanishads. Impara a memoria il Pater in greco; inoltre s’interessa molto di Platone e riconosce in lui un mistico, vero testimone di Dio. L’incontro con Lanza Del Vasto, avvenuto lo stesso anno, a Marsiglia, permetterà a Simone di percepire meglio il reale significato della “non-violenza alla Gandhi”. Come la Weil, anche Del Vasto si meraviglia delle compromissioni della Chiesa col potere e con l’impero della violenza.

Egli ricorda Simone in un suo libro, e ad un certo punto aggiunge che, ascoltandola parlare, “nel giro di dieci minuti non si vedeva più il suo viso; si percepiva soltanto l’anima, in cui risplende il fuoco della giustizia” (2). Il 6 luglio ’42, Simone Weil parte per New York. Qui conosce, fra gli altri, Jacques Maritain. Il 14 dicembre si stabilisce a Londra, dove viene assegnata come redattrice alla Direction de l’interieur de la France Libre (commissariat à l’action sur la France).

IL PENSIERO, L’OPERA, L’ESPERIENZA SPIRITUALE

Nel ’34 Simone Weil scrisse Rèflexions sur les causes de l’oppression sociale et de la liberté, considerato dal suo maestro Alain opera di prima grandezza, e che lei non pubblicò mai soprattutto per le critiche di un amico. La Weil si ricollega volentieri alle analisi proposte da Marx sull’oppressione dei lavoratori da parte del sistema produttivo della grande industria e sull’asservimento dei cittadini da parte del sistema di governo dello stato. Ecco come si esprime in uno dei suoi pensieri dal profondo spessore filosofico: “Il padrone è schiavo dello schiavo nel senso che lo schiavo fabbrica il padrone”. La Weil sarà anche tra i primi a denunciare le deviazioni della rivoluzione sovietica. Autrice di numerosi articoli su questioni sociali ( in L’ Effort, La Tribune, ecc.), ebbe anche varie conversazioni con Leon Trotsky, incontrato nel ’33 quando fu ospite dei suoi genitori per qualche giorno. Con lui nutriva divergenze di idee non tanto sul proletariato, quanto sulla difesa della “persona”. Una prossimità spirituale e politica tra la Weil e Georges Bernanos è davvero inconcepibile. Tuttavia, Bernanos denuncia “l’impero della forza” allo stesso modo di Simone. Egli teme che ben presto i giovani facciano “della crudeltà una virtù virile”, sicché la “misericordia” appaia loro segno di debolezza e stupidità. Ciò che ferisce più profondamente Bernanos è che i crimini della crociata franchista vengano commessi in nome del cristianesimo e con la benedizione della Chiesa. Il poeta Joe Bousquet, che Simone aveva conosciuto a Carcasonne nel marzo ’42, riconobbe immediatamente la poetica autentica dalle poche pagine che ella gli aveva mostrato. “Si direbbe che il ritmo dei versi è per voi quello della coscienza”, le scriverà in una lettera (3). (Nel 1918, a 21 anni, Bousquet era un corpo che viveva solo a metà, colpito da un proiettile alla spina dorsale). La Weil aveva scritto una decina di poesie e le aveva sottoposte al giudizio di Paul Valèry e dello stesso Bousquet. Ella compose anche Venise sauvée, tragedia in tre atti, durante l’esilio a Londra, e che rimase incompiuta. “Sono convinta”, scrisse in una lettera all’amico Bousquet, “che la sventura da una parte, e dall’altra la gioia come adesione totale e pura alla perfetta bellezza, implicanti entrambe la perdita dell’esistenza personale, sono le due sole chiavi per mezzo delle quali si entra nel paese puro, il paese respirabile, il paese del reale” (4). “A me fa impressione, nella vicenda di Simone Weil, la sua situazione di apolide”, scrive Giovanni Pizzutto. “In realtà Simone Weil è ebrea ma è contro il semitismo; è marxista ma rifiuta il totalitarismo; è europea ed innamorata della cultura greca e della religione indù; è vicina alla Chiesa (…) però non si sente di entrare nella Chiesa” (5). Il futuro papa Paolo VI diceva a Thibon che era cosa molto spiacevole che Simone non avesse spinto fino al battesimo la sua conversione al cristianesimo, perché meritava di essere fatta santa. Simone Weil apparteneva alla categoria dei predestinati che vivono “come se essi vedessero l’invisibile”. Per lei il vertice del cristianesimo era che l’amore e la verità si uniscono soltanto sulla croce. Perché la verità è terribile. Padre Perrin precisò i limiti entro cui Simone Weil rifiutava la formula agostiniana Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza.

Tale formulazione del mistero cristiano è diametralmente opposta alla sua apertura universale. Simone riduceva la Chiesa, istintivamente, al grande animale sociologico, secondo l’espressione usata da Platone. La prova crocifiggente dell’amicizia con Joseph M. Perrin fu proprio il rifiuto di Simone per il battesimo. Ella era trattenuta sulla soglia della Chiesa da difficoltà insormontabili, come lei asseriva, di ordine filosofico. Ma pare acquisito che Simone sia stata battezzata dalle mani di un’amica, Simone Deitz, probabilmente alla fine di giugno ’43, all’epoca del soggiorno presso l’ospedale Middlesex di Londra, dove ella era stata ricoverata il 15 aprile, perché ammalata di tubercolosi. Quale significato bisogna dare a questo tardivo battesimo, sul quale ella preferì mantenere il silenzio? Riguardo il suo ineffabile desiderio di annientarsi in Dio, ecco dai Cahiers (17 quaderni di “pensieri” scritti dall’inizio del ’41, a Marsiglia, alla fine del ’42, in America) una breve preghiera, da far venire i brividi: “Padre, poiché tu sei il Bene e io sono il mediocre, strappa da me questo corpo e questa anima e fanne cose tue, e di me non lasciar sussistere, in eterno, altro che lo strappo stesso, oppure il nulla”. Desiderare d’essere nient’altro che lo strappo: sentimento inconcepibile per un comune mortale che non sia dotato di una “mente” superiore! Trasferita al sanatorio di Ashford, nella contea di Kent, il 17 agosto, Simone Weil muore dopo una settimana, nel sonno. Viene sepolta il giorno 30 nel “New Cemetery” di Ashford. Molte delle opere della Weil sono state pubblicate postume. Alcune fra le più importanti: Attente de Dieu, La Colombe, Paris 1950; La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950; Cahiers I, II, III, Plon, Paris, rispettivamente negli anni ’51, ’53, ’56.

Bibliografia e fonti – (1) Simone Weil, Oeuvres complètes. Ecrits historiques et politiques, Gallimard, Paris 1960 ; (2) Lanza Del Vasto, L’arca aveva una vigna per vela, Jaka Book, Milano 1980; (3) Joe Bousquet, Cahiers du Sud, Rivage, Marseille 1981 (rèedition) ; (4) Simone Weil, Pensée sans ordre concernant l’amour de Dieu, Gallimard, Paris 1962 ; Canciani, Fiori, Gaeta, Marchetti, Simone Weil, la passione della verità, Morcelliana, Brescia 1984.

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LA POESIA DI NIL

Nedda Falzolgher, detta Nil, nasce il 26 febbraio 1906 a Trento, quando quella parte del territorio è ancora sotto il dominio austriaco. Il padre era un bancario e la madre di ricca famiglia. Primogenita, sensibile, intelligente, vive nei primi anni una vita serena e gioiosa. La bimba cresce bene fino all’età di cinque anni, quando inattesa la disgrazia viene a stravolgere il suo destino: è colpita da paralisi infantile, o più comunemente detta, poliomielite. Ella si sente attratta per vocazione naturale verso la scrittura e la poesia; vocazione che rappresenta per il suo spirito sofferto una specie di resurrezione. “Nil non poteva andare verso le cose, ma le cose venivano a lei a cimentare la sua forza e la sua gioia, e tutto la investiva e subito l’abbandonava, lasciando segni di grazia sulla sua anima con il moto dell’onda marina che scrive parole di vita su tutta la riva” (da Il libro di Nil). I genitori cercano di renderle la vita meno disagevole possibile. La mamma la incoraggia in quella sua insaziabile sete di cultura che la indirizza verso la scrittura alimentando il suo mondo interiore. Nedda apprenderà ad uscire da quel mondo circoscritto dalle pareti di casa per conoscere il mondo esterno, perseguendo il raggiungimento di un ideale superiore. Dall’età di 27 anni, ella riceve in casa amici poeti e artisti, e la sua dimora diviene presto un punto d’incontro culturale. Fra i giovani frequentatori c’è un ragazzo, Franco Bertoldi, che resterà per lei un amore impossibile.

“Non ti darò contro il petto dolore

più che il rigoglio delle fronde sciolte.

Dammi tu spazio allora per questa morte:

io non ho solco per vivere

e non ho paradiso per morire;

e sento in me stormire

quest’agonia d’amore,

bionda, contro la zolla che la ignora…”.

Nella sua opera Il libro di Nil, pubblicato postumo dal padre, c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dove si leggono versi scritti durante la guerra.

“Stasera io sono stanca

delle tue mani lontane;

stanca di grandi stelle disumane,

com’è sazia l’agnella di erbe amare…”.

Il 2 settembre 1943 Trento fu bombardata e Nedda fu salvata dalle macerie, insieme ai genitori. In seguito, la ragazza inizierà una corrispondenza con Domenico, suo salvatore e amico, facente parte di un servizio di volontariato. Lo spirito altruistico e la bontà di Domenico fanno sì che Nedda si avvicini ad una dimensione spirituale personale intensa.

“Ma una luce è posata sulle cose,

come la carità senza parola;

e ogni vita attende sola

che la raccolga con gesto d’amore”.

La guerra termina e la ragazza può tornare a casa. Intanto la madre da tempo malata, viene a mancare nel settembre del ’50.

“T’amo, Signore, per la muta passione delle rose.

T’amo per le cose della vita leggere,

le cose che sognano i morti la sera

dentro la terra calda,

sotto il limpido brivido degli astri.

Ma più t’amo, Signore per la misericordia

delle tue grandi campane

che portano nel vento verso

l’anima della sera

la nostra povera preghiera”.

Nedda ha sempre continuato a scrivere nel trascorrere degli anni. Ora, sente la vita sfuggirle e soffre per quel che non ha vissuto.

“Ora tu vedi queste mie canzoni

simili tanto alle foglie che sperdi,

amaro Iddio del silenzio.

E sai che non hanno feste di sole

perché di tutto il sole tu inondi

la Terra dove cammina l’amore”.

“Ascolta ancora, Dio,

le sorgenti, e perdona,

e nella mano portaci, col seme

delle stagioni innocenti”.

Nil rende lo spirito il 2 marzo ’56, a 50 anni. Chiudiamo questo breve excursus con dei versi stupendi, nati da quest’anima candida:

“…Che ansia, allodola pura,

questo palpito d’angelo sommerso

che ha smarrito la vena dei venti;

sul respiro del mondo senti

ancora tutte le stelle

mutar la tua voce in chiarore…”.

[Notizie liberamente tratte da: Nedda Falzolgher – la poesia, la vita, Isa Zanni, Linguaggio Astrale n. 136/04]

Bibliografia Nedda Falzolgher: poesia e spiritualità, edizione Comune di Trento 1990 Nedda Falzolgher: il cuore, la poesia, edizione Comune di Trento 1990

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DALI’ GENIO E SREGOLATEZZA

Eccessivo, eccentrico, paradossale, contraddittorio. Non ci sono appellativi che non siano stati usati per esprimere le caratteristiche di questo personaggio eclettico e dissacrante, nato per eccellere e stupire agli inizi del XX secolo. Salvador Dalì è nato due volte. La prima, a Figueras, il 21 ottobre 1901, ma il bimbo morì a 21 mesi di vita. Il Nostro nascerà nove mesi e dieci giorni dopo la sua morte, l’11 maggio 1904. Egli si trascinerà dietro tutta la vita il peso di dover reincarnare il fratello maggiore di cui porta il nome: “una sorta di complesso di colpa del sosia, trasformato in fissazione paranoica, estetica” (Marco Vallora). “Tutte le mie eccentricità, tutte le mie esibizioni incoerenti sono la tragica costante della mia vita”, si legge in Conversazione con Dalì (1969), di Alain Bosquet. “Devo provare a me stesso che non sono il fratello morto ma quello vivo. Come nel mito di Castore e Polluce, uccidendo mio fratello ho conquistato l’immortalità per me stesso”. Come dire che la morte del primo Salvador è la molla, l’arco teso che lo lancerà molto lontano…nel firmamento della pittura. “Lo si voglia o no, sono stato chiamato a realizzare prodigi”, ha dichiarato. Nella sua biografia si legge che ha una relazione ambigua col poeta Garcia Lorca, ma si dice che Dalì abbia sempre rifiutato le ripetute avances di Federico. “Canto le tue ansie d’eterno illimitato”, scriverà il poeta in una sua ode dedicata all’amico.Dalì è stato uno dei maggiori esponenti del Surrealismo (nuovo spirito dell’arte battezzato da Apollinaire col nome di Superrealismo, al debutto del balletto Parade di Cocteau, 1917); costituito fra gli altri dai poeti Paul Eluard e Andrè Breton, dal cineasta Bunuel, dagli artisti figurativi Manritte, Ernst, Mirò, Man Ray; e ancora, Edward James, Hans Arp, Arpo Marx (solo per citare quelli che diverranno famosi). Sposò dopo una convivenza di molti anni, Gala Diakonoff di dieci anni più grande, moglie del poeta Eluard (da cui poi divorziò), ed ex compagna di De Chirico; una donna-manager avida di potere, la quale impostò da subito la relazione col ruolo di “protettrice”, o meglio di impresario, relegando a Dalì quello di “dipendenza”, e desiderosa di organizzargli la vita. In amore prediligeva il triangolo; ma grandi furono le sue sfuriate di gelosia quando nel periodo precedente la seconda guerra mondiale Dalì divenne amante di Edward James.Egli non era per lei che una semplice “macchina per far soldi”. “I Dalì sono due, uno appartenente al suo mondo di vivida, geniale e avvincente paranoia, in cui vive più della metà della sua vita; l’altro è l’accorto affarista, creato dalla moglie Gala” (Edward James a Dalì, marzo 1941). (Fu Andrè Breton a coniare l’anagramma Avida Dollars dal nome Salvador Dalì – cosa che divertì molto l’interessato). Il miele è più dolce del sangue (1927) fu il suo primo dipinto surrealista. Famosa la serie dei suoi orologi molli. Molti i disegni e i dipinti raffiguranti la moglie Gala. Soggetti della sua arte, anche i ritratti di Eluard, Lenin, Freud. Dal 1927 al 1929 fu il periodo per lui più prolifico e rappresentativo. Famoso resta il suo ritratto a una vedette del cinema, Mae West.

La sua potenza espressiva, l’intensità cromatica delle forme nello spazio e nella luce, davano voce e sangue alla tela. Alcuni dei suoi quadri, unici e dalla stesura raffinata, restano l’espressione dell’inconscio collettivo del XX secolo. Egli, il genio, ne è l’archetipo. Vogliamo qui aprire una parentesi per dire che nell’immaginazione popolare il genio è sempre dotato di poteri magici; è sempre considerato come agente di una forza esterna. Questo potere può risultare misterioso anche al genio stesso. Egli obbedisce a una sorta di desiderio istintivo, a una necessità interiore. L’arte visionaria di Dalì passa alla storia anche per i titoli bizzarri e improponibili quali, per citarne qualcuno: “Burocrate medio atmosferocefalico nell’atto di mungere un’arpa cranica”, “Teschio atmosferico che sodomizza un pianoforte a coda”, “Autoritratto molle con pancetta fritta”, “Lo svezzamento del nutrimento dei mobili”, “Acido Galacidalacide sossiribonucleico (Omaggio a Crick e Watson)”. Nella storia dell’arte, in modo specifico egli è il Surrealismo, in una rappresentazione personalissima, spesso dal contenuto delirante, definita “metodo paranoicocritico”.La sua opera apre le porte verso universi paralleli, in una visione allucinatoria; ma Dalì è ben consapevole del confine che separa il mondo reale dall’immaginario. Nel 1944 Alfred Hitchcock lo volle per la realizzazione delle sequenze oniriche per il film Io ti salverò, con Gregory Peck e Ingrid Bergman. Si trattava di illustrare i sogni del protagonista in preda ad amnesia. Egli era originale ad ogni costo e viveva di un protagonismo insaziabile. Sempre in equilibrio sulla corda tesa delle sue assurde trovate, ad una conferenza alla Sorbona del 1955, si presentò in una RollsRoyce bianca, stipata di cavolfiori. Nelle sue performances, ogni cosa che toccava si trasformava in oro. Scrive nel suo Diario di un genio: “in uno stato di permanente erezione intellettuale ogni mio desiderio è esaudito”. Un sempre crescente numero di psichiatri vedevano in lui un caso allettante dal punto di vista di uno studio ravvicinato. Egli è noto agli studiosi della psiche come un “perverso polimorfo”. Nell’opera daliniana gli istinti sessuali appaiono cerebralizzati e sublimati dall’arte. Dalì era sempre eccessivo e le sue manie grandiose e strampalate spesso infastidivano. Fu molto criticato dalla stampa e dall’opinione pubblica, e anche minacciato, per aver dichiarato di simpatizzare per il generale Franco. Fino alla fine, ebbe il culto paradossale della propria immagine. Negli ultimi tempi, fra gli alti e bassi della malattia che lo aveva colpito (morbo di Parkinson), si lamentava dicendo com’era difficile morire. (Gli era già mancata Gala da alcuni anni). Fantasma di se stesso, morì a 87 anni, il 23 gennaio 1989, nella clinica dove era stato ricoverato per collasso cardiaco.

Fonte: Meredith Etherington-Smith, Dalì, Garzanti 1994.

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MAETERLINCK, CUSTODE DEI SOGNI

Poeta e drammaturgo dal talento molto versatile, nacque a Gand, nella Fiandra, il 29 agosto 1862. Nel 1911 gli fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Già fin dal 1903 come candidato al Nobel il nome di Maeterlinck era stato fatto da Anatole France, al terzo posto dopo Tolstoi e Brandes. Secondo Maurice Maeterlinck, la scienza non ci insegna nulla, per il momento, sull’origine e sul fine della vita, e non è in fondo che “una espressione rassicurante e conciliante della nostra ignoranza”. Tuttavia, l’inconoscibile ci avvolge, e si manifesta a noi con presentimenti, sogni. “Lascerò senza rimpianto questo mondo assurdo del quale non ho capito nulla”, egli scriverà pochi giorni prima della morte, avvenuta il 7 maggio 1949. Maeterlinck è sempre vissuto vicino alla morte allo stesso modo in cui si piegava sui misteri della vita, senza separare l’una dall’altra: “Sarebbe mostruoso e inesplicabile che fossimo soltanto ciò che sembriamo essere”, affermava. Tra le sue opere memorabili molti drammi, tra cui si ricordano: La Princesse Maleine,1890; Pelléas et Mélisande, 1892; Aglavaine et Sélysette, 1896; Monna Vanna, 1902. Nella fiaba teatrale L’Oisseau Bleu (1909), ciò che rappresenta l’Uccello Azzurro è il segreto delle cose e della felicità. Vi si legge: “l’Uccellino Azzurro, il vero, il solo che possa vivere alla luce del giorno, si nasconde qua, fra gli uccelli azzurri del sogno che si nutrono di raggi di luna e muoiono appena sorge il sole…”. In essa sono rappresentati sotto forma di creature di sogno vari elementi o simboli archetipici quali La Notte, Le Stelle, La Luce, Il Fuoco, L’Acqua, Il Pane, Lo Zucchero, Il Latte, Il Cane, La Gatta, gli Alberi e gli Animali della foresta, L’Amor Materno, I Bambini Azzurri (che aspettano l’ora della nascita), Il Tempo. La fiaba è intessuta di immagini sognanti, di rara poesia: “I bambini fuggono dai giardini, le mani piene di uccelli che si dibattono, attraverso la sala tra svolìo di ali azzurrine…”. La morale che si legge tra le righe è lampante: quelli che hanno il cuore puro non cercheranno mai invano l’uccello azzurro anche se non esiste che al di là dei limiti del mondo. In Aglavaine et Sélysette, puro gioiello della letteratura, egli fa dire ad Aglavaine parole molto significative : “Se qualcuno deve soffrire, questi dobbiamo essere noi. Ci sono mille doveri, ma io credo che ci si sbagli raramente quando si cerca prima di tutto di togliere una sofferenza al più debole per addossarsela”. Per Maurice Maeterlinck ogni realtà porta sempre un velo di mistero e di sogno. Sotto questo velo, come bene asserisce in chiusura del discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel C. D. Af Wirsen, “si nasconde la verità profonda dell’esistenza e, quando un giorno il velo sarà sollevato, si scoprirà l’essenza delle cose”.

Fonte: Francois Albert Buisson, La vita e l’opera di Maurice Maeterlinck, 1965, Milano

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LA “STELLA” KAHLIL GIBRAN

Si può a buon diritto ritenere che Kahlil Gibran sia stato uno dei fondatori della New Age. Era nato a Bisharri (Libano) il 6 gennaio 1883. Diceva all’amico Nu’ayma che egli era un “falso allarme”; perché chiunque ignora la propria vera natura è destinato a restare un falso allarme. Gibran sentiva di non avere il diritto di impersonare il ruolo che si era scelto. Questo perché si rendeva conto di non mettere in pratica ciò che andava predicando. Era il 1921 quando stava lavorando alla stesura di The Prophet, e in seguito a letture pubbliche cominciava a essere identificato con quel ruolo. Nel 1895 la famiglia emigra a Boston, nel periodo in cui vi è un’emigrazione di massa di siriani in America. Gibran frequenta un gruppo di giovani poeti e artisti decadenti il cui leader è Fred Holland Day, fotografo ritrattista. Lo stesso Day favorisce la trasformazione di Kahlil in una sorta di rivoluzionario. Gibran ebbe rapporti di amicizia con famosi e influenti personaggi di Boston e New York, eppure si sentì sempre fratello dei poveri del mondo. Ai versetti della Bibbia e ai versi di Walt Whitman si ispirò per trasmettere il suo messaggio alle future generazioni – per le quali resta un punto di riferimento quale stella che rifulge per sempre. Dal giornale Al-Muhàgar su cui egli scriveva regolarmente, vogliamo citare un breve estratto, riguardante una sua monografia sulla musica:”Oh tu, vino del cuore, che sollevi colui che beve alle vette del mondo dell’immaginazione; onde eteree che sostenete i fantasmi dell’anima; mare di sensibilità e tenerezza; alle tue onde prestiamo le nostre anime e alle tue insondabili profondità affidiamo i nostri cuori. Conduci quei cuori oltre il mondo della natura e mostraci ciò che si cela negli abissi del regno dell’ignoto”. Gibran scrisse opere di poesia e narrativa (Le ali spezzate, Le ninfee della valle, Spirito ribelle). Fra i suoi autori preferiti si possono citare Whitman e Blake, Tolstoi e D’Annunzio, Ibsen, Strindberg, Nietzsche. Già a 19 anni i suoi scritti erano stati paragonati a quelli di D’Annunzio, ma egli stesso si rendeva conto che il paragone era esagerato. Per completare la sua istruzione, nel 1898 i suoi lo mandarono a Beirut. Da una dichiarazione rilasciata a Mary Haskell, sua corrispondente, si viene a conoscenza che “il ragazzo senza alcun motivo apparente rinuncia all’imbarco prenotato e cambia il biglietto con un altro sul piroscafo successivo. Quello sul quale sarebbe dovuto partire affonda con tutte le 800 persone circa che sono a bordo, poche ore dopo aver lasciato New York”. Gibran aveva carisma. Intorno alla sua straordinaria figura ruotano molti episodi, esposti dai suoi biografi, per la maggior parte da ritenersi fantasiosi o leggendari perché privi di verifiche. Ebbe una fitta corrispondenza epistolare con Josephine Peabody, affermata poetessa. La relazionasi approfondì a partire dal compimento del 20° anno di età di Kahlil. Lei aveva otto anni più di lui e il suo sentimento si può tradurre in un desiderio di dare protezione. Lo riteneva un “genio”, un “angelo” e un “profeta”. (Egli lascia una vasta produzione di disegni e dipinti; le immagini sono imperniate su una dimensione soprannaturale e di regni trascendentali, chiaramente ispirati a William Blake). Alla lunga, la sua relazione con Josephine finì per incrinarsi; a seguito di un litigio lei strappò tutte le lettere. Kahlil la riteneva la “donna fatale”, e forse questa fu la sua vera colpa. Nell’estate del 1904, a una mostra di suoi lavori, egli conobbe Mary Haskell, che avrebbe avuto una duratura influenza nella sua vita. Aveva 30 anni ed era attivista nel movimento operaio femminile. (Varie altre presenze femminili giocarono un ruolo importante nella vita di Gibran, alcune esclusivamente di natura erotica. Esse spesso posavano per i suoi ritratti). Nel 1908, dopo un breve periodo trascorso a Parigi, egli riprese la relazione con Mary, anche se lei gli fece chiaramente capire che non l’amava ma che voleva restarle amico. Aggiunse che l’accettare la richiesta di lui di sposarlo si sarebbe rivelato un grossolano errore. Nel 1911 Gibran, sempre più convinto che il suo futuro era New York, vi si trasferì. Infatti se non fosse stato così, egli non sarebbe mai arrivato all’attenzione del grande pubblico. Fu un periodo felice; la vita a New York gli faceva bene. Le sue lettere a Mary traboccavano di entusiasmo: “osservo con mille occhi e ascolto con mille orecchie per tutto il giorno”. Iniziò a tenere delle conferenze. Il suo mondo ora si stava rapidamente allargando e la sua stella cominciava a rifulgere. Può sembrare assurdo che un giovane di 28 anni faccia testamento, eppure Kahlil ne redasse uno a favore di Mary, lasciandole tutti i suoi quadri e le sue sostanze in denaro, poiché sentiva che sarebbe vissuto – profezia che doveva rivelarsi esatta – ancora per altri 15 o 20 anni. Negli anni successivi il rapporto di Kahlil con Mary si consolidava sempre di più. Lei nelle lettere aveva per lui espressioni di idolatria e venerazione. Lo andava a trovare spesso a New York. Non si rendeva ancora conto di venir usata. L’adorazione che nutriva per lui le impediva di vedere i difetti del suo carattere. Oltretutto, lei era per lui anche un grosso aiuto economico. Da parte sua Kahlil, affetto da narcisismo, sentiva di avere le stimmate del messia e viveva momenti di autentica esaltazione. Sosteneva di avere una “capacità di introspezione superiore a quella di Buddha e di aver fuso la sua consapevolezza con quella del pianeta e dell’universo”. Nonostante lo desiderasse ardentemente, la coppia rinunciò ai rapporti sessuali ritenendo di avere già un’unione perfetta, una specie di sesso spirituale; o forse la ragione stava anche nel fatto che i due “amanti” erano consapevoli che il sesso “spicciolo”, temporaneo, avrebbe finito per abbreviare la loro relazione, sopravvenendo la sazietà della ripetitività. Kahlil – si legge nei quaderni di Mary afferma di aver lottato per questo obiettivo e di esserci riuscito, per conservare “altri centri di energia superiore”. Nei 10 anni che seguirono essi si scrissero regolarmente ma i loro contatti andavano man mano diradandosi. Nell’aprile del 1920 fu costituita l’Associazione della Penna. Gibran fu eletto presidente e Nu’ayma segretario. L’associazione ebbe vita fino al 1931, anno della morte di Gibran. Ormai Kahlil non scriveva più in arabo ma in inglese. In un poemetto intitolato Il poeta (dall’antologia The Vision), egli scriveva: Un anello tra questo mondo e l’aldilà; una fonte di limpida acqua per gli assetati; un albero cresciuto sulle rive del fiume della bellezza, carico di frutti maturi per i cuori affamati… Un angelo mandato dagli dèi per insegnare agli uomini le vie degli dèi. Una lampada risplendente che il buio non vince poiché non sta sotto il moggio. Ad aggiornare l’immagine che avevamo di Gibran, ecco venirci presentata l’altra faccia, quella che non s’immaginava: la diagnosi (siamo nel 1929) parlava di ingrossamento del fegato, causa della sua dipendenza dall’alcool risalente presumibilmente ad almeno tre anni addietro. Nel novembre 1930 iniziava il processo degenerativo che doveva portarlo alla morte. Forse – è un’ipotesi – la difficoltà d’identificarsi col suo ruolo può essere stata la molla scatenante… Il suo capolavoro Il Profeta fu pubblicato da Knopf nel settembre del 1923 (ma era rimasto in gestazione per almeno 4 o 5 anni per essere perfezionato, sebbene l’idea del suo libro risalisse già al 1912, quando alcuni frammenti cominciavano ad apparire sui suoi quaderni o diari). Negli anni della depressione se ne vendevano in media 13 mila copie all’anno. Nel 1957 era stato superato il milione di copie. Attualmente solo nel Nord America le copie vendute raggiungono la strabiliante cifra di 9 milioni. Oggi The Prophet è anche disponibile su Internet. Da molti critici il libro venne sottovalutato perché ritenuto monotono; al contrario, l’Evening Post di Chicago lo ritiene tuttora una “piccola Bibbia”. “E’ il mio primo vero libro” – dice Gibran della sua creatura – “il mio frutto maturo”. Negli anni 60 correva voce che ogni hippy avesse nello zaino una copia del Profeta. Andando a sbirciare nei quaderni di Mary, si possono trovare molte descrizioni di sogni fatti da Gibran su Cristo – più che sogni vere apparizioni, rivelatrici del fascino che la figura di Gesù esercitava su di lui. “Visse come un capo” si legge in Il Crocifisso – “morì con un eroismo che spaventò i suoi assassini e i suoi torturatori […] “. Il suo libro ‘Gesù, figlio dell’uomo’ può essere letto quasi come un nuovo Vangelo apocrifo. Riguardo il successo di vendita, esso è secondo dopo Il Profeta. Gli dèi della terra, l’ultima sua opera, fu pubblicato appena dopo la sua morte. Gibran non seppe mai chi fosse veramente. Diviso tra oriente e occidente, simile a un crocifisso le cui braccia sono distese tra queste due polarità; immagine che richiama un fatto avvenuto quando egli aveva dieci anni: si dice che a causa di una spalla fratturata in una caduta, fosse rimasto per 40 giorni legato ad una croce. Kahlil Gibran morì di cirrosi epatica, dopo uno stato comatoso, il venerdì 10 aprile 1931, alle ore 22.55. Boston lo ricorda con una statua in marmo rosa, all’ingresso della Public Library. La targa con l’incisione: ” Kahlil Gibran 1883 – 1931, poeta, pittore”, è opera di Kahlil Gibran il Giovane, scultore di Boston. Chiudiamo questo breve lavoro con alcuni suoi versi, tratti da La processione:

E sulla terra la morte, per il figlio della terra,

è finale, ma per colui che

è etereo, è solo l’inizio

del trionfo che egli sente già suo.

Fonte: Robin Waterfield, Profeta – vita di Kahlil Gibran, Guanda 2000.

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RIMBAUD, IL MITO

Angelo o demone? Di Arthur Rimbaud si è detto tutto e il contrario di tutto. La sua vita nasconde misteri che il tempo moltiplica. Anima randagia, da poeta “maudit” muore quasi del tutto sconosciuto – prima che la sua fama si convertisse in mito attingendo alla immortalità. Un’infanzia la sua, triste e infelice – caratteristica che distingue molte grandi anime passate alla storia. La violenza dei gesti, gli oggetti branditi accompagnati da urla sono le immagini che Arthur conserva dell’unione tra i genitori. Lui, Frédéric Rimbaud, capitano del 47° reggimento di fanteria, per il ragazzo rimasto come genitore un’ombra inafferrabile; lei, Marie Catherine, figlia di agrari, legata al figlio da complice pietà. Nel 1864 il padre abbandona definitivamente la famiglia. Arthur ha 10 anni. Frequenta la scuola presso il collegio di Charleville, suo luogo natale (egli vi nasce il 20 ottobre 1854), si dimostra un allievo modello, è il più delle volte premiato, e la sua precocità si rivela anche nei risultati poetici. Ma il ragazzo è anche ruvido, maleducato, insofferente soprattutto nei confronti dell’ambiente familiare e della madre, con la sua rigidità cattolica e l’inflessibilità degli atteggiamenti. La tendenza a scandalizzare è la sua maniera di comunicare; accompagna con “merde, merde” la lettura pubblica di versi. E’ anticonformista ed eccentrico ed ha un magnetismo ambiguo, un fascino particolare,oscuro. Tra i 16 e i 18 anni ha una relazione burrascosa con Paul Verlaine; i due vivono insieme, da bohémiens. La relazione, che si vocifera abbia un indirizzo omosessuale, balza agli onori della cronaca quando Paul un giorno,e precisamente il 10 luglio 1873,al colmo di una violentissima lite ferisce l’amico al polso con una pistola. Nello stesso anno, a Bruxelles, Rimbaud ritira le prime copie di Une saison en enfer.Nel 1884, ad Harar, in Abissinia, organizza spedizioni commerciali nell’Ogaden, ma lascia presto questa attività per dedicarsi in proprio al traffico di armi per conto di Menelik. Mentre Rimbaud si trova in Cairo compaiono dolori lancinanti alla coscia e al ginocchio, primi sintomi del male che lo porterà alla tomba. Nel 1890 viene rintracciato in Abissinia da un gruppo di letterati parigini; in una lettera gli viene annunciato il suo nascente mito poetico. L’anno seguente il male si aggrava ed egli s’imbarca per Marsiglia, dove subisce l’amputazione della gamba; operazione alla quale la madre presta una fredda e frettolosa assistenza. Il cancro presto gli divorerà le altre parti del corpo, paralizzandolo. Tra allucinazioni e grandi sofferenze, la morte lo coglie il 10 novembre 1891 a Marsiglia. La vera vita è altrove”; “Io è un altro”: enigmatiche e memorabili queste sue “sentenze”. Suo compito è distruggere ogni tipo di convenzione sociale cercando la rivelazione dell’ignoto e dell’inconscio e adeguando i propri mezzi espressivi al carattere innovatore di tale operazione. Scrisse Verlaine nel 1872: “E noi l’abbiamo nel ricordo e lui viaggia. Sappiamo, sotto le maree e al sommo dei deserti di neve, seguire il suo sguardo, il suo alito, il suo corpo, la sua luce”. “Me ne andavo” – dicono alcuni versi di Rimbaud – “coi pugni nelle tasche sfondate, / anche il mio paltò diventava ideale: / andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo fedele; / perbacco! Quanti amori splendidi ho sognato”. Solo e trasognato, con un amore ideale a invadergli lo spirito, si sentirà felice andando “loin, bien loin, comme un bohémien par la nature”.

“Non può essere che la fine del mondo, più in là”: è il divorante desiderio di conoscenza, di infinito; esplorare l’inconnu. E’ l’Ideale del suo spirito a cui fanno da cornice l’immensità e il silenzio del deserto, il vento, il sole rutilante, un tempo senza tempo… Il deserto: “luogo ideale dell’esilio ma anche del regno, poiché l’esilio interiore permette di riconquistare il regno di sé” (1). Innumerevoli quanto inverosimili risultano gli amori attribuitigli. Si dice che durante il soggiorno in Africa, ad Harar, una notte di passione nel tentativo di possedere una fanciulla abissina infibulata, egli abbia usato un coltello… (il sangue, le urla, i parenti accorsi per vendicare l’oltraggio subito). Ebbe amori in vari altri paesi, Inghilterra, Italia (Milano, Napoli). “E’ il nostro sole nero”, scrive Renato Minore, “con disagio si entra in sintonia con l’intransigenza netta, ombrosa, irripetibile di quell’età. Quel prendere di petto il mondo per una sfida senza superstiti. E oggi siamo tutti superstiti: della rabbia come della pietà. Siamo ossessionati dalla leggenda di Rimbaud, dal suo fantasma e dalle sue scorribande di confine”.

Nota (1) Majid El Houssi, dall’introduzione a Moha il folle Moha il saggio, di Tahar Ben Jelloun, Edizioni Lavoro 1988. Bibliografia – Renato Minore, Rimbaud, Mondatori Editore 1991 Arthur Rimbaud, Poesie, Garzanti 1977.

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PIER GIORGIO, IL BEATO DEI GIOVANI

Il 20 maggio del 1990 Giovanni Paolo II lo ha beatificato. Il suo esempio di carità è vivo in tutto il mondo. Sconosciuto in vita, egli ha acquistato fama dopo la morte. Due giorni dopo la sua “trasfigurazione” – come ebbe a definirla don Antonio Cojazzi – apparve sulla Rivista dei Giovani un articolo dello stesso Cojazzi, dove fu profetizzato: “Pier Giorgio Frassati imprimerà un nuovo giro al sangue della gioventù, e non solo torinese”. La sua figura affascina soprattutto i giovani: moderno, allegro, sportivo, pieno di gioia di vivere e amante della montagna – Mario Soldati ricorda “l’occhio nero ma scintillante, luminosissimo, le labbra aperte sempre al sorriso” -, esibiva la sua normalità con una fanciullesca gioia di scherzare. Suo padre, Alfredo, era proprietario e direttore della Stampa, senatore del regno e ambasciatore d’Italia a Berlino. Pier Giorgio nasce il 6 aprile 1901. Giovane liceale, frequenta l’Istituto sociale dei gesuiti dopo essere stato bocciato due volte al D’Azeglio. In seguito entra al Politecnico per diventare ingegnere minerario. Si iscrive alla “Fuci”, la federazione degli universitari cattolici. E’ tesserato al partito popolare di Luigi Sturzo. L’avvento del fascismo segna l’inizio di un trauma storico di cui anche Pier Giorgio è il cosciente testimone. Ha un amore segreto, Laura Hidalgo, segretaria della goliardica “Società dei Tipi Loschi”, l’allegra compagnia dei suoi amici di cordata, di cui egli è cofondatore; (si firma col nome di Robespierre). Dovrà in seguito rinunciare a questo amore a causa della necessità della sua presenza presso i genitori; una prova crudele, dolorosissima, a cui egli non si sottrae. La sua adesione al Vangelo si traduce in attenzione verso i bisognosi. Per il volontariato egli offre se stesso disdegnando il suo stato di agiatezza; di più, tutta la sua giovane e breve vita è offerta ai poveri e ai malati; vive vicino agli umili, ai dimenticati, vero “imitatore di Cristo”, come lo definisce Papini. Con i soldi che risparmia in segreto, acquista medicine per chi non può comprarne, dà una mano ai derelitti che va a trovare nelle soffitte o sotto i ponti; appena libero si reca al Cottolengo, quasi una corsa verso l’umanità miserabile. Uno spirito molto speciale, di una santità concreta, che si offre fino a giungere ad un abuso delle proprie forze. Pier Giorgio visse intensamente i suoi 24 anni prima che lo colpisse una poliomielite fulminante, il 4 luglio del ’25. Gli mancavano due esami per la laurea.Fino alla vigilia dell’agonia, fu quasi per tutti un segreto la sua malattia repentina e inesorabile. Morì in sei giorni, solo; soltanto Mariscia, la domestica tedesca, gli fu vicina fin dall’inizio. La madre (la pittrice Ametis) era al capezzale di sua madre morente; la sorella Luciana, sposata da poco, era appena tornata; gli amici – s’era d’estate – erano fuori Torino. Gli ultimi giorni Pier Giorgio stava sempre peggio, ma nessuno, fino all’ultimo, sembrava rendersene conto. D’altra parte, durante il calvario, egli non pensava nemmeno ad accusare la loro indifferenza, quasi fosse naturale. E poi lui, fino all’ultimo, cercava di minimizzare il suo male di una gravità sempre più evidente. Il giornalista Luigi Ambrosini, due ore dopo la sua morte, scrisse un articolo per La Stampa in cui, tra l’altro, diceva: “Le sue mani non erano fatte per raccogliere, ma per distribuire”. Il giornale uscì listato a lutto. Non era mai accaduto prima. Alle ore 19 del 4 luglio, di sabato, Pier Giorgio rese lo spirito. Fu sepolto a Pollone, in provincia di Vercelli – gli scorreva nelle vene sangue biellese. Pier Giorgio amava la vita: era innamorato della montagna, sciava, andava a cavallo, in bici, a nuoto, aveva una vera passione per Dante.

In un passo del suo diario si legge: “Ho lasciato il mio cuore tra questi monti con la speranza di ritrovarlo quando ritornerò”. L’alpinismo era per lui una scuola di coraggio, ma anche un mezzo per avvicinarsi a Dio. Raggiunta la vetta, recitava il Magnificat. “Io” diceva estasiato, “ho questo desiderio di sole, ho questa voglia di salire in alto, di andare a trovare Dio in vetta”. Aderì a vari gruppi cattolici, fra cui la conferenza di San Vincenzo. Spesso si raccoglieva per ore in preghiera. Era innato in lui il ferreo impegno di piacere a Dio, rinunciando alle agiatezze del mondo e a se stesso. Per rafforzare lo spirito contro le tentazioni, si concentrava per lunghe ore nella lettura di Sant’Agostino, di San Paolo, di San Tommaso, di Santa Caterina. A chi gli chiedeva se si sentisse chiamato al sacerdozio, rispondeva con la grande coerenza che lo distingueva: “Io voglio in ogni modo aiutare la mia gente e questo posso farlo meglio da laico che da prete”. “Gesù mi visita con la comunione ogni mattina”, confidò ad un amico, “e io gliela restituisco nel modo misero che posso: Visitando i suoi poveri”. Dice il filosofo Gianni Vattimo: “A rendere preziosa e simpatica la sua figura è la costante capacità di ‘abitare il tempo’. E poi i giovani hanno bisogno di incontrare testimoni, non solo maestri”.

Desideriamo chiudere questo breve lavoro (anche quale omaggio alla sua alta figura carismatica) con dei versi dell’autore, quasi un’epigrafe: Indiafanata da un vento di luce / -verso l’alto!- / ride la tua immagine d’aria

* Verso l’alto: una frase annotata da Pier Giorgio sulla foto che lo ritrae mentre s’inerpica sulle Lunelle, nelle valli di Lanzo, il 7 giugno 1925.

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RUDOLF STEINER E LA SCIENZA DELLO SPIRITO

Le anime umane vivono come nel fango, come nella palude, finché non sono iniziate nei sacri misteri. Platone, Fedone, cap. XIII

Uomo di profonda cultura spirituale, Rudolf Steiner è un personaggio ancora in buona misura da scoprire. Forse il più difficile da afferrare di tutti i pensatori del XX secolo. Antimaterialista convinto, il suo stile è esageratamente astratto. Con i suoi racconti sorprendenti su continenti scomparsi come Mu, Lemuria e Atlantide, a volte si è portati a sospettare che si tratti di un imbroglio spudorato. Ma Steiner non era di sicuro un ciarlatano. Figlio di un capostazione austriaco, era nato a Kraljevec (impero austro-ungarico) il 25 febbraio 1861. Per Steiner, la lotta per ottenere credito riguardo la sua concezione spirituale in un ambiente dichiaratamente non spiritualistico, è durissima. Egli parte chiaramente sfavorito. Ma il fuoco interiore che lo anima, il suo daimon, gli destina una luminosa carriera riservandogli alte cariche in cui si evidenziano proprietà di linguaggio e grande generosità. Steiner fin da piccolo divenne consapevole dell’esistenza di un mondo parallelo a quello terreno. Nella geometria egli trovava la giustificazione alla sua fede nel “mondo che non si vede”. “Devo aggiungere”, si legge nella sua autobiografia non ultimata, “che in quel mondo vivevo volentieri, perché avrei sentito come tenebra tutto il mondo sensibile circostante se questo non avesse ricevuto la luce da quello”. E in una sua conferenza possiamo leggere: “Tutti i patimenti che vengono sofferti al presente sul piano fisico, nel complessivo progresso dell’ umanità, sono solo un lato di un insieme il cui altro lato è soprasensibile”. Steiner fece le prime esperienze pedagogiche riuscendo a recuperare un ragazzo idrocefalo e a inserirlo poi all’università, dove divenne medico.Studiando le idee scientifiche di Goethe sotto la guida di Shrorer, egli inziò a sviluppare la propria filosofia spirituale. La figura di Cristo vi gioca un ruolo centrale. E’ importante non confondere la “percezione extrasensoriale” di Steiner con lo spiritismo. Egli era estremamente sospettoso verso quest’ultimo. Viaggiando in treno, conobbe un contadino di mezza età, Felix Koguzki, che esprimeva le sue profonde convinzioni religiose con un linguaggio oscuro.Steiner poté parlare apertamente delle sue esperienze (tra cui i contatti con i trapassati) senza timore del ridicolo.Il suo amico Schuré parlò più tardi di quest’uomo misterioso, Koguzki, come del “maestro”, e disse che era “una delle forti personalità che sono sulla terra per compiere una missione sotto la maschera di un’occupazione modesta”, cioè di un “Iniziato”.Koguzki indicò a Steiner certi passaggi di Fichte che lo aiutarono a vedere chiaramente il modo di confutare il materialismo scientifico dilagante. Le sottigliezze argomentative saranno un’arma per vincere i suoi antagonisti e gli scettici. Steiner frequentò il circolo di teosofia, dottrina che gli pareva essere concorde con il suo spirito. Conobbe ed entro lo stesso anno 1899, sposò Anna Ennincke, vedova con cinque figli, di otto anni più grande. Ma il matrimonio durò poco.

L’incontro con Maria Von Sivers segnò la fine definitiva del suo breve matrimonio e l’inizio della sua carriera di personalità pubblica. Steiner iniziò a tenere conferenze, e la gente, ora, cominciava a esserne affascinata. La sua prima opera fondamentale, “La filosofia della libertà”, indica il suo concetto base: l’uomo è in grado attraverso il proprio pensiero puro, di conoscere le leggi che governano l’Universo. Riconoscendo ed accettando queste leggi, egli diviene libero interiormente, e agendo in armonia con esse, è libero anche nel proprio agire. Nel 1902 Rudolf Steiner e Maria Von Siver fondarono la rivista “Lucifer-Gnosis”. Qui Steiner pubblicò le sue numerosissime conferenze, che furono in seguito raccolte in libri. Lo stesso anno egli ebbe la nomina a segretario generale della sezione tedesca della Società Teosofica, con approvazione di Annie Besant, succeduta a Madame Blavatsky. Ma quando la Besant giunse a parlare del quattordicenne Jiddu Krishnamurti, futuro maestro spirituale, come del nuovo Messia, la cosa suscitò sconcerto e non fu accolta bene neppure da Steiner, che diede le dimissioni da segretario. Era il 1913. (Si ricorda, en passant, che Krishnamurti rifiutò da adulto il ruolo messianico). Bisogna chiarire che mentre la Società Teosofica si richiama all’Oriente, Steiner si sentiva intimamente legato alle tradizioni occidentali, ai Rosacroce, a Goethe e soprattutto alla figura di Cristo. Nello stesso anno fu fondata da Steiner la Società Antroposofica. Antroposofia: dal greco anthropos (uomo) e sophia (saggezza) = scienza dell’uomo. Fra il 1913 e il 1915 fu costruito tutto in legno il primo tempio, il Goetheanum, a Dornach, presso Basilea. Era un centro di attività scientifiche e artistiche fondate sulla scienza antroposofica e capace di attirare le folle. Rudolf Steiner aveva grande magnetismo ed era suscettibile alle adulazioni. Sapeva esprimersi con un’autorevolezza e un’efficacia che impressionavano. Egli preparò migliaia di conferenze, in gran parte pubblicate. Molte di esse furono tenute anche in altri paesi. Steiner era instancabile e, soggetto a surmenage, recuperava facilmente. L’antroposofia ha trovato applicazione in molteplici campi: pedagogia, medicina, sociologia, architettura, agricoltura, biodinamica, arte, recitazione, danza (euritmia), e altro ancora. Tra le sue numerose opere, Steiner ha lasciato quattro libri fondamentali: La filosofia della libertà,1894,Teosofia,1904, L’iniziazione, 1904-1905, La scienza occulta, 1910. Maeterlinck ha detto di Steiner che i suoi metodi intuitivi sono una specie di psicometria trascendentale, per ricostruire la storia degli Atlanti e rivelarci quello che succede in altri mondi. Che egli fosse un profeta non ci sono dubbi. Maeterlinck lo aveva descritto come “uno dei più eruditi, ma anche dei più confusionari tra gli occultisti contemporanei”.Un biografo parla delle code di persone che aspettavano fuori della porta dello studio di Steiner da mattina a sera, per sottoporgli i propri problemi. Steiner soffrì anche un’altra delle conseguenze della celebrità: la maldicenza. La notte di San Silvestro 1922-23 avvenne un incendio e il Goetheanum fu distrutto. Fu per Steiner una prova dolorosa, che mostrò come l’Antroposofia avesse dei nemici. La rappresentazione del dramma inprogramma ebbe luogo ugualmente. Rudolf Steiner lasciò le sue spoglie mortali il 30 marzo 1925, a Dornach, a 64 anni da poco compiuti, mentre gli operai stavano costruendo, già da oltre un anno, il nuovo Goetheanum, interamente in cemento armato. Esso sarebbe stato inaugurato nel 1927. La malattia che avrebbe portato Steiner alla morte si era manifestata il Capodanno del 1924. Nonostante il progressivo indebolimento, egli tenne in vari paesi quasi 400 conferenze, organizzò convegni, ricevette centinaia di persone.

Infine il 28 settembre, privo di energie, dovette mettersi a letto. Steiner inviava i capitoli della sua autobiografia in tipografia man mano che li scriveva, con la scritta “segue”. L’ultimo inviato a fine marzo, non riportava la solita scritta. “La grande avventura è quella interiore”; “L’uomo è una creatura della mente”: questo il messaggio che egli ci lascia. “Il vero domicilio dell’uomo è il mondo dentro di sé. Basta solo che un odore o un sapore, un verso o poche note musicali ci richiamano verso il mondo interiore, per provare uno strano flusso di calore e di forza dentro di noi, quella sensazione che faceva scrivere a Proust: Ho cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale”. Ci limitiamo a riportare un breve stralcio tra i più significativi, da una sua conferenza tenuta nel 1916 a Liestal, in Svizzera: “Nella nostra volontà vive qualcosa che interiormente di continuo ci osserva. Attraverso questo spettatore interno, si penetra in un mondo spirituale che si può sperimentare come si sperimenta con i sensi il mondo sensibile. In tal modo si trova nell’uomo un altro uomo. Quando si arriva a conoscere questa entità dentro l’uomo, si conosce ciò che dell’uomo sussiste oltre la morte. Quella entità che non opera per mezzo del corpo fisico, che è spiritualeanimica, sussisterà dopo la morte e già esisteva prima della nascita”. Attualmente la Germania conta una sessantina di scuole steineriane. Inoltre, la medicina steineriana è oggi coltivata da medici di tutto il mondo. Le opere di Steiner constano di ben 354 volumi, pubblicati dalla casa editrice tedesca Rudolf Steiner Verlag. Vi sono ancora inediti.In italiano, tra le varie case editrici che hanno pubblicato le sue opere, è da menzionare la Editrice Antroposofica di Milano. I “Misteri” drammatici di Steiner (La porta dell’Iniziazione 1910, La prova dell’anima 1911, Il guardiano della soglia 1912, Il risveglio delle anime 1913), vengono rappresentati al Goetheanum ogni anno inseme al Faust di Goethe. Nelle rappresentazioni è compresa anche l’euritmia, un’arte nuova, danza e movimento armonioso insieme, definita “parole e canto visibili”, la quale ebbe applicazioni pedagogiche e terapeutiche, oltre che artistiche.

Bibliografia – Paola Giovetti, La vita e l’opera,Edizioni Mediterranee, Roma 1922; Colin Wilson, Rudolf Steiner, Longanesi, Milano 1986.

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JAKOB LORBER, LO SCRIVANO DI DIO (1800 – 1864)

Per 29 anni scrisse ciò che la voce di Dio gli dettava. In casa aveva solo la Bibbia, eppure stupiva che scrivesse con tanta acutezza di materie di cui non s’era mai occupato (la sua preparazione scolastica era modesta). Secondo i suoi scritti, la materia nel senso materiale del termine, non esiste. Tutto è energia, ovvero forza spirituale e divina suddivisa in particelle infinitesimali (scintille di vita primigenia): affermazioni che concordano con le più recenti scoperte della fisica nucleare! L’intero universo è costituito da queste particelle originarie (elettroni o quanti), che altro non sono che “pensieri divini resi autonomi”. Lo spirito divino emana da una sorta di sole spirituale, e ad esso ritorna. Vediamo ora un brano fondamentale da Il grande Vangelo di Giovanni: la storia di Lucifero e della sua caduta, da cui dipese tutta la creazione materiale, che liberamente e volontariamente deve ritrovare la strada verso Dio. “Soltanto nelle opere la Divinità può conoscere la propria potenza e se ne rallegra, proprio come ogni artista capisce soltanto delle proprie creazioni ciò che è dentro di lui e ne trae gran gioia. Provvisto della Mia piena potenza, Lucifero, primo spirito creato, chiamò in vita altri esseri, in tutto simili a lui; essi furono parimenti autocreativi. Lucifero, sapendo di dover rappresentare il polo opposto di Dio, credette di essere in grado di assorbire in sé la Divinità. Credette nella sua follia di poter tenere prigioniera la Divinità. Ma il finito non potrà mai comprendere l’infinito. In questo modo si allontanò dal centro del Mio cuore e fu preso sempre più dal desiderio di riunire intorno a sé le creature sorte da Me per opera sua. Sorse una separazione delle parti, che fece sì che il potere da Me conferito a Lucifero fosse ritirato, ed egli rimase coi suoi seguaci privo di potenza e forza creativa. C’erano due vie: annientare Lucifero col suo seguito, per crearne un secondo, che però avrebbe compiuto lo stesso errore. Ma la via della libertà, seguita fino ad allora, era l’unica. Dove sarebbe il Mio amore, se esso non avesse rinunciato alla distruzione, trovando anzi nella saggezza un mezzo per ricondurre gli esseri perduti alla luce della conoscenza? Non restava che la seconda via, quella realizzata nella creazione materiale. Nell’uomo, a seconda del grado di malvagità, gli spiriti furono rivestiti di materia, esposti a lotte e dolori e tentazioni, per condurli gradualmente alla comprensione dei loro errori, e per dar luogo anche al loro volontario ritorno. Tutta la creazione visibile consiste soltanto di particole del grande spirito di Lucifero e del suo seguito caduto e bandito nella materia… Vedete dunque che cosa Io faccio a causa di un unico angelo superbo? Pensate che praticamente tutta l’umanità non è costituita da altro che da membra di quest’unico “figlio perduto”, e più esattamente degli uomini derivanti dalla sventurata discendenza di Adamo. Con il “figlio perduto” si intende dunque ogni singolo uomo in sé, e in ogni uomo che vive secondo la Mia parola, Io ritrovo il figlio perduto (cioè una parte essenziale di lui), che ritorna alla grande casa paterna… Per amore di un solo figlio Io sono pronto a sacrificare miliardi di mondi di ogni genere, se egli non potesse in altro modo ritornare di nuovo a Me. Se fosse necessario, Io preferirei privarmi di quest’unica eterna vita, piuttosto che perdere uno solo dei Miei figli. Comprendi tu questo amore? Con le sofferenze Io rendo miti i popoli. Li strappo alla follia di credere che i desideri mondani siano la prima cosa che l’uomo deve cercare. A tutti mostro che sopra di loro c’è Qualcuno che lascia sì fare loro quello che vogliono, ma che svolgere al bene ogni cosa – anche la più cattiva – che l’uomo compie…”

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UN SOLE SOTTERRANEO

Nel 1918 Joe Bosquet, ventun anni, viene colpito da un proiettile che gli spezza la spina dorsale; da allora fino alla morte, è un corpo che vive solo a metà. Bousquet si riferisce all’incidente come a una seconda data di nascita. Per lui, affondare nel buio vuol dire “attendere l’altra faccia del giorno”. Il sole sotterraneo è il sole mitico che, scomparso dallo sguardo oltre l’orizzonte, continua in segreto il suo corso fino alle “Radici della notte”. Bousquet riconosce in se stesso un essere sotterraneo, quell’abitatore del sottosuolo di dostoevkijana memoria. (“Scrivo le vene del buio”, 1967). “Proprio nei momenti in cui si sentirebbe maggiormente di odiare la vita tutto l’amore si china per poterci raccogliere”.”Porto in me un essere irrivelato. Mi conosce, ma non so nulla di lui, tranne che la mia persona è la sua ombra con i suoi appetiti inconfessabili e il suo bisogno di segreto” (1982). “Trascina intorno alla vita il tuo grido, il tuo immenso grido di bestia ferita. Spingi nella notte il lamento immenso in cui tutto il tuo spirito si ottenebra. Questo accecamento verità. […] L’anima non si sveglia che a pezzi” (ibid.). (L’anima sorgerà, ma come un sole sotterraneo). “Vorrei squarciare, come lo potrebbe un vomere, la profondità della mia anima per forzare ad entrarvi questa bellezza troppo pura per abitare in me. Vedo chiaramente in che modo la sua nudità, luminosa come un frutto, entrerebbe, a vele spiegate, nelle tenebre del mio essere, vi mescolerà il sogno della mia carne con quello della mia anima, espanderà in me i flutti della sua luce anonima come un cammino di luna dove la mia carne segreta si risveglierà alla sua presenza”. Bousquet deve partorire una verità più alta del suo dolore. Egli riuscirà, attraverso il potere della visione interiore, a creare un mondo trasversale che, pur non coincidendo con la realtà cruda, ne sarà il soffio vitale.

Tratto da I sotterranei dell’anima, Aldo Carotenuto, Bompiani 1993. Opere di Joe Bousquet: 1941, Tradotto dal silenzio; 1980, Papillon de neige; 1982, Da uno sguardo un altro; 1988, Lettere della guerra (J. Bousquet – S. Weil); 1989, Le cahier noir.

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ODISSEA DI UN INTELLETTUALE

“Rivoluzionario” non violento in perenne conflitto col potere e le istituzioni, potremmo definirlo uno spirito ginsberghiano, nonché di majakovskiana memoria. Teresio Zaninetti, che con Pier Paolo Pasolini ebbe una corrispondenza epistolare (vedi: Pasolini, Lettere 1955-1975, Einaudi 1988), è autore di un gesto clamoroso e provocatorio – come d’altronde nel suo stile anticonvenzionale. Ha chiesto al sindaco di Gozzano (Novara), 300 miliardi di risarcimento danni, morali e materiali, per l’assassinio del grande poeta, ritenendo lo Stato italiano e (quale suo rappresentante) il sindaco, responsabile della morte di Pier Paolo (!?). Dalla scomparsa di Pasolini, Zaninetti lamenta – come tanti – la disperazione di non poter più dialogare con una persona disinteressata come Pier Paolo. Teresio è un convinto marxista e un anticonsumista; non possiede un’auto né un televisore. Ha diretto tra gli anni 1982-’90 la rivista Logos, il cui percorso gli è stato reso irto e tormentato. Ha scritto, ultimo in ordine di tempo, il romanzo-testimonianza Le lacrime di Sisifo, Rosso & Nero Edizioni ’95; è critico teatrale e cinematografico e autore e regista di film. Scrive e dipinge anche con vari nomi d’arte, è poeta pluripremiato (ma più che poeta egli si reputa un giornalista serio e un intellettuale militante). Nato a Gozzano nel 1947, Zaninetti è stato uno degli organizzatori dei “percorsi” multimediali Aspettando Pasolini, con performances in varie città. Lasciamo che a presentarlo siano alcuni dei suoi versi: “Mi aprirò in due / come guscio di ramarro alla frontiera / nel rigonfio del vento, parentesi graffiata / nel prepuzio dei miei sogni rapaci / che già morte pregustano indolore / Mi aprirò in due e sarò in un libro nudo / (…)”. E da La finestra si apre: “La finestra si apre su uno specchio nato / sotto le menzogne di un calvario e dunque / di tanto più umano è l’orizzonte / e siamo qui per questo, / perché si veda, / perché si dica / perché sia orizzonte per altri orizzonti / e nessuno rimanga nella culla troppo a lungo / senza incontrare spazi concimati / dal lungo morire quotidiano / dei piccoli uomini che furono midollo e seme”. Versi, questi ultimi, che – insieme a quelli di tanti altri poeti – dovevano apparire incisi nella pietra lungo la strada che da Badolato marina porta a Badolato superiore, splendido paese medioevale lungo la costa jonica (ma gli amministratori che avevano garantito il finanziamento della Regione per permettere il lavoro, hanno finora risposto col silenzio). Luigi Bianco, che dirige il foglio I Medicanti, nel primo numero del ’96 definisce Zaninetti “un grande poeta e un grande pensatore ingombrante, che tutte le istituzioni stanno lasciando morire di fame e di disperazione”. Zaninetti conta fino ad ora ben cinque tentativi di suicidio; ultimo il 10 gennaio ’97. Ogni volta si è fatto i suoi venti giorni d’ospedale ed è tornato nella sua casa-carcere a Gozzano. Ha inoltre subito due infarti. “Ho visto lo strazio”, scrive Bianco, “di un uomo costretto a prendere una ventina di pastiglie al giorno per sopravvivere n qualche modo. Oggi non può fare nulla. Nemmeno vedere le sue bambine: alle quali è nocivo per le sue nevrosi e per le implacabili leggi dello Stato”. Teresio è separato dal ’79 – anno del suo primo tentativo anticonservativo. Riceve la ridicola somma di 300 mila lire al mese quale sussidio per il suo “stato psichico”. Ha scritto Marcel Camus: “Non avviene molto spesso che un uomo si senta il cuore puro. Ma almeno in quel momento, suo dovere è di chiamare verità ciò che l’ha singolarmente purificato, anche se questa verità può ad altri sembrare bestemmia…”. Evidente il candore d’animo del Nostro, nonché il suo amore sviscerato per la verità, appunto. Sentite con quale spirito e veemenza di sentimenti si esprime in una pagina di Logos: “Ci vogliono armi, fucilate di verità. Questo è soprattutto amore. L’amore che spinge anche quella ‘barca’ infranta di Majakovskij che, nonostante tutto, continua a navigare attraverso oceani e bufere portando, indistruttibile, la propria luce che perfora i secoli. Un amore che, sì, è anche violenza (…). Scrive di lui Roberto Roversi: “(…) con la scrittura Zaninetti gioca duro. Ma aggiungerei, che con intera la sua vita, di cui la scrittura è il mezzo estremo di comunicare con gli altri, Zaninetti è inesorabile, costante; irretito in una implacabilità tanto generosa quanto, direi, disarmata”. La sua poesia, è scritto da qualche parte, è materia incandescente; strappa un velo della mistificata realtà. La Rusconi Editore, presso la cui Redazione Teresio ha prestato la sua opera dal 1973 all’85, lo invitò a sottoporsi – in seguito al tentato suicidio del novembre ’79 – a una “visita di idoneità” presso la Clinica del Lavoro G. Devoto di Milano; l’esame psicodiagnostico diede il seguente risultato: “Nevrosi d’ansia da cattivo inserimento in ambiente lavorativo”. La risposta della Rusconi fu quella di costringerlo a triplicare, quadruplicare le dosi di tensiolitici, antidepressivi e ipnoinduttori del sonno…Il secondo tentativo di suicidio (1984) avvenne in concomitanza con una situazione di contrasto, avente per oggetto il periodico Logos, fra lui e l’azienda. La Rusconi gli revocava l’autorizzazione a “collaborare” (?) a Logos, attendendo una risposta di adempimento dei suoi impegni contrattuali; al che Zaninetti li richiamava all’art. 8 del contratto di lavoro giornalistico, là dove si afferma che il giornalista potrà manifestare le proprie opinioni attraverso pubblicazioni di carattere culturale, religioso, politico o sindacale, e facendo presente che nel “suo” periodico non erano ravvisabili lesioni degli “interessi morali e materiali” dell’azienda. Oggetto del dissenso era appunto un articolo apparso su Logos a loro parere “lesivo”.A seguito di una ulteriore missiva di Zaninetti – non avendo ottenuto riscontro alla prima – si faceva vivo per telefono un rappresentante del Comitato di Redazione della Rusconi, il quale, incavolatissimo, gli riferiva che dopo che il C. di R. aveva ottenuto dall’azienda di “mettere una pietra sopra” alla sua “licenza poetica”, egli aveva riattizzato il fuoco nel vespaio…Si giunge così fino al periodo di calvario di Teresio, consistente nell’essere messo “in prova”, dopo 11 anni di lavoro, presso la redazione di Eva-Express. “E’ preferibile morire di fame piuttosto che mangiare merda”,scrisse Teresio dando le dimissioni. Per lui, come per Sartre (uno tra i suoi “maestri”) nella vita “vince chi perde”; o per dirla con F. Scott Fitzgerald: “il vincitore appartiene ai vinti”. Nell’esporre su Logos le sue amare vicissitudini, Zaninetti ha preso spunto da un celebre verso di Luis Aragon: “Io non sono di quelli che barano con l’universo”. E c’è da concedergli piena fiducia. All’inizio del ’97 si istituisce un Comitato di solidarietà per Teresio, ed esce, ciclostilato, il fascicolo “Perché Zaninetti viva”; sottotitolo: “Se questo non è un lager – Una legge Bacchelli per T. Z.”, che consta in una “raccolta di frammenti di un vivere quotidiano incuneato tra coerenza visionaria e miseria reale”. Vi sono riprodotte lettere di Teresio che danno i brividi (ripetuti appelli ora di aiuto, ora di feroce accusa), sempre senza risposta, inviate a giornali quale Tribuna Stampa, al sindaco di Gozzano, al Consiglio Comunale e all’Assistente Sociale, in cui si rinfaccia ripetutamente l’impossibilità per un uomo di cultura di vivere con l’elemosina di 300 mila lire al mese.

Teresio scrive duro con frasi sputate, elencando provocatoriamente, i “debiti” a lui dovuti da parte delle Istituzioni. “Il Vs. neghittoso comportamento non fa che acuire la mia disperazione e la mia angoscia, che viene definita ‘depressione'(molto impropriamente)”. “Il Vs. silenzio continua a rappresentare la Vs. totale colpevolezza ed era, è e rimane tuttora un prolungato tentativo di omicidio da parte Vs. nei miei confronti”. E in un’altra lettera, indirizzata al sindaco e chiaramente provocatoria: “Chiedo a Lei e al Consiglio Comunale e allo Stato Italiano di concedermi l’eutanasia, perché io non desidero più ‘vivere’ in una società amorfa, inetta, assassina”. Gli veniva sanzionato da parte delle Istituzioni e dell’indifferenza sociale una condanna a morte civile, senz’alcun processo. Scrive Luigi Bianco: “Teresio sembra sempre più elevarsi a pedagogo ‘pasoliniano’: un educatore senza stipendi e interessi, finalizzato soltanto alla causa universale della ‘liberazione dell’uomo’ “. E Maria Grazia Lenisa, nella recensione a Le lacrime di Sisifo (Pomezia-Notizie, dicembre ’95): “Teresio Zaninetti è poeta di tutte le rivoluzioni, è l’uomo che dividerebbe il suo pane con gli altri, che vive fino in fondo il suo amore-dolore, fino alla risposta dell’odio più cocente contro ogni forma di potere oppressivo, prima di tutto in se stesso onde assassina (Sisifo non rassegnato) in sé Tiresia che gli consegna inerme l’ultima perla della verità”.

Dunque, vogliamo ribadirlo: un uomo che non sa “barare con l’universo”. Anche lo scrivente, che ha conosciuto Zaninetti nell’aprile ’97, ha firmato ben volentieri insieme a molti altri uomini di cultura, per fargli ottenere i benefici della legge Bacchelli. Una volta tanto si riuscirà ad alleviare la pena di un poeta senza dover ricorrere all’elemosina e respingendo la soluzione estrema del suicidio?

[Nota: Teresio Zaninetti morirà il 21 gennaio 2007]

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In un primo momento, il saggio era stato pubblicato col titolo “Vince chi perde”.

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Edito in proprio

2018

Tutti i diritti riservati

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COME IN UNO SPECCHIO

La sua vicenda presenta sorprendenti analogie con la storia di John Nash, resa nota dal film A Beautiful Mind, interpretato da Russell Crowe.

Davide è nato a Genova il 16 agosto 1970. All’età di 18 anni inizia a manifestare segni di disequilibrio.

La convinzione di non essere accettato dagli altri, i comportamenti strani, l’odio-amore per il computer (è diplomato in informatica), il tentativo di incendio in casa per distruggere i programmi da lui creati nel timore che glieli potessero rubare, le frequenti allucinazioni: evidenti manifestazioni della sua dichiarata schizofrenia.

Un punto di non ritorno? Pare di sì, anche se ci sono sprazzi di lucidità che fanno sperare che la malattia possa regredire.

Persone simili, tipiche border line, vivono in una sorta di sogno immenso che domina tutta la loro vita. Anche se, nella maggior parte dei casi, la realtà ha il sopravvento.

Due storie che, per certi versi presentano molte analogie: quella di Davide e di John Nash. Con le loro formule matematiche si sentono vittime di un complotto organizzato da uno psichiatra che in realtà sarebbe una spia che vuole rubare le formule. Senza distinguere la realtà dall’immaginazione.

Fa ben supporre, in ogni caso, che il professor Nash sia stato insignito del Premio Nobel nel 1994.

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SULL’ “EFFETTO PLACEBO” E LO SATO DI “CRISALIDE”

Quando il discepolo è pronto, il Maestro appare.

Buddismo Zen

Non voltarti a guardare il passato: non serve a nulla. Pensa che non appena il tuo presente e il tuo futuro diventeranno gioiosi, anch’esso cambierà significato, come una strada sassosa a chi è giunto attraverso essa ad uno stupendo luogo di villeggiatura. Noi vediamo la bottiglia “mezza piena” o “mezza vuota”: ma se la chiameremo nel primo modo, contribuiremo a renderla tale; se la chiameremo “mezza vuota”, contribuiremo a svuotarla sempre di più. E’ un discorso in realtà semplice ma apparentemente complesso (è complesso perché ci siamo messi in mente un sacco di idee strane e ci crediamo perché “lo dicono gli altri”).

Come si può trovare spiegato nel libro Visualizzazione (Edizioni Xenia), ognuno ha due emisferi cerebrali attraverso cui operano la mente e l’anima: il sinistro che è logico-razionale-matematico-cosciente (su di esso è modellato il computer), il destro visivo-musicale-inconscio-immaginativo (è il “cervello dell’artista”, che opera durante l’attività creativa, la fantasia, il sogno). Quest’ultimo – sul quale si fonda in realtà la pratica dell’ipnosi e dell’autoipnosi – ha poteri straordinari, nel bene e nel male, nel predisporre corpo e psiche. Una prova? L’ “effetto placebo”, che consiste nell’efficacia di farmaci in realtà inefficaci per malati convinti dell’efficacia del farmaco e che si “immaginano”(cioè si “vedono nella mente”) guariti.

Tale “effetto placebo” e il suo opposto, che chiamiamo “effetto delebo”, “funzionano” in realtà in ogni ambito della vita: in altre parole, “immaginarci” negativamente facilita l’autoprovocarci malattie psichiche e somatiche; “immaginarci” positivamente aiuta l’autoguarigione e lo star sempre meglio. Il segreto dei poteri “miracolosi” del “pensiero positivo” è tutto qui.

E’ possibile proprio come per un “listato” di computer riprogrammarci a piacere (vedi Visualizzazione).

Volendo sfiorare il discorso sulla fede, si può dire che chi ha perduto una persona cara può riacquistare “pensiero positivo” se riesce a credere che tale perdita corrisponde a una “nuova nascita in un’altra vita: la persona cara “trapassata” ad altra vita ci è vicina anche se non la vediamo con occhi di carne e, se ciò è avvenuto prematuramente, la “fiducia” (fede) in Dio ci fa capire che tale mistero ha un significato positivo e che un giorno esso ci verrà reso manifesto.

Apriamo qui una parentesi per affermare che un riferimento alla “crisalide” è quanto mai opportuno: per motivi religiosi (stato di “crisalide” è quello del Cristo fra la crocifissione e la Resurrezione; stato di “crisalide” sarà il nostro nel passaggio da questa all’altra vita); per motivi personali (“chi non è morto e rinato almeno una volta nella vita non sa cosa significa veramente vivere”, scrive Bassani); per motivi storici (sono convinto che alla soglia del terzo millennio dell’era cristiana l’umanità abbia intrapreso – ancora spesso inconsapevolmente – una svolta epocale preparata da uno stadio di crisalide: “ma non sapete voi che noi siamo vermi / nati a formar l’angelica farfalla?”, scrive Dante.

[Notizie raccolte dallo scambio epistolare avuto con l’amico prof. Giordano Genghini negli anni 1994-95.]

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LA PIU’ STRAORDINARIA AVVENTURA

Paracelo scrisse: “Il Cielo è l’Uomo e l’Uomo il Cielo e tutti gli uomini sono un Cielo e tutti i Cieli non sono che un Uomo”.

La più straordinaria avventura è quella dello spirito; l’incontro col Sé, con l’indicibile, nel momento in cui, scaduti i giorni terreni (il tempo osceno), egli consegnerà alla terra la sua veste di carne corruttibile. Per lui così intimamente naturale e congenito (e che ha gestito quale strumento concessogli per una vita in prestito), ora il “suo” corpo non è che una “cosa” da abbandonare. La vita fisica (la vita “offesa”, come qualcuno l’ha definita, o la morte-vita, come dicono in molti letterati e poeti), non è che una parentesi, un lampo. Un destino ben più alto che non l’umano transeunte, col suo carico di sofferenze, desideri ed esperienze lo attende, nel riunificarsi al cosmo con la sua controparte dalla quale egli si staccò nel momento in cui scelse di incarnarsi in un grembo, scendendo sulla Terra.Creatura di Cielo, ha vissuto una breve parentesi fuori dal cielo come creatura di terra (trovandosi lacerato dai due poli tra un intrinseco sentirsi appartenente all’infinito e un vivere una realtà contingente, tra ombra e luce, corpi e cose caduche); per poi tornare alle origini angelo tra gli angeli.

Cosa c’è di più straordinario e meraviglioso? Mistero indicibile, l’uomo, “piccolo sgorbio disegnato fra certe grandezze a noi ignote” (Sinjavskij), ma destinato a grandi cose nei disegni di Dio – questo frammento dell’Universo eppure infinito, compreso nella Mente infinita del Tutto.

“La vera alchimia interiore”, afferma Silvia Pedri nel suo articolo Indicatori del destino, “comprende anche la sfera del nostro io spirituale”; e aggiunge: “L’opera alchemica di esternazione del proprio destino ha il contenuto della forza angelica del corpo mentale, la modalità e l’azione di quella del corpo astrale e il luogo di esecuzione indicato dall’angelo del corpo fisico”.

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LILITH E IL SUO SIGNIFICATO MITOLOGICO

Moses de Leòn nel Sèpher ha-Zohàr (XIII secolo), definisce Lilith come seduttrice di uomini e strangolatrice di neonati. Lo scrittore riporta una credenza che identifica Lilith con la regina di Saba. Nella tradizione kabbalistica Lilith è rappresentata come una donna nuda il cui corpo termina con una coda di serpente. Presso gli ebrei esiste l’usanza di appendere amuleti sopra il letto delle partorienti. In La kabbalah e il suo simbolismo (1960), Scholem riporta una credenza narrata nel 1717: “Credono [gli ebrei] che quando un uomo perde il seme con l’aiuto di Mahlat e di Lilith, ne nascano spiriti cattivi”. In letteratura si ricorda che Victor Hugo dedica a Lilith una lunga poesia, in La leggenda dei secoli (1883). In La figlia di Lilith (1889), A. France la presenta quasi come una femminista. Un’altra poesia dedicata a Lilith la troviamo nell’opera di A. Crowley Lo scarabeo alato (1910). Citiamo ancora Primo Levi col suo Lilith e altri racconti (1981) e Anais Nin con Venus erotica. Infine, uno sguardo al mondo della celluloide: il regista R. Rossen gira nel 1964 il film terrore Lilith, mentre si fa notare in modo particolarmente incisivo nel 1970 il film di K. Anger Lucifer rising.

Si ricorda che Lilith in astrologia è considerata la Luna Nera; dallo studio dei transiti nei vari segni, e Case, si possono verificare gli aspetti più nascosti della sessualità. Nella Luna Nera è racchiusa una sensualità priva però del potere creativo proprio di Plutone. Essa sembra essere un punto focale legato al nostro passato, alla nostra “matrice karmica”. Secondo lo studioso Max Duval, essa è “il secondo fuoco dell’orbita lunare”. Pare che questo presunto secondo satellite terrestre fosse noto al tempo della civiltà egizia col nome di Nephtys. Si narra che il diluvio di Atlantide sarebbe stato provocato da un satellite di materia oscura avvicinatosi troppo alla Terra; questo corpo diventerà appunto Lilith.La Luna Nera e Lilith hanno gli stessi significati simbolici: esse simbolizzano il potere inconscio femminile in veste moderna, la forza della sua emancipazione; il che ci porta a considerare giustamente i rapporti tra uomo e donna sostanzialmente modificati. (E’ chiaro che Lilith spaventi il maschio tradizionale, che subito vede sorgere “complessi” di castrazione). Secondo la tradizione ebraica Lilith sarebbe stata la prima sposa di Adamo, la quale non volle sottomettersi al suo padrone, perché ella esprimeva l’uguaglianza dei sessi. La leggenda c’informa che Lilith, in seguito al rifiuto nei confronti di Adamo, fu allontanata da potenze superiori e sostituita da Eva.

Fonte: notizie liberamente tratte da I mondi ultraterreni, G. Berti, Mondadori 1998, e da Luna Nera-Lilith, F. Capone, Edizioni Capone 1978.

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ONEIROS

Il mondo apparente potremmo paragonarlo a una serie innumerevole di macchie o incrostazioni che,sovrapposte al Disegno originario della Bellezza infinita, rendono quest’ultimo invisibile a occhi di carne.

Tuttavia, il numinoso si lascia a volte “visitare” con lampi fugaci in veste onirica, tramite “presenze” costituite da archetipi.

Il sogno in se stesso possiede un evidente carattere numinoso. Esso è una seconda vita.

Più d’uno ha scritto che il sonno è il fratello minore della morte, e che il sogno sarebbe il cordone ombelicale con l’aldilà.

Il sogno, via regia per l’inconscio e sua autorappresentazione, si esprime col linguaggio dei simboli.Un sogno può essere concepito come un dramma in cui noi recitiamo tutti i ruoli, quello di attore, regista, autore, suggeritore, e anche quello di spettatore.

I sogni sono la voce della nostra natura istintiva e animale; la voce della sostanza cosmica che c’è in noi. Per Roger Callois i sogni hanno lo stesso senso della forma delle nuvole e dei disegni delle ali di farfalla. Filosofi come Platone, Aristotele, Pitagora, espressero la loro credenza nel carattere profetico dei sogni. Famoso fu il sogno del presidente Lincoln il quale “vide” la propria morte; impressionanti furono i sogni profetici di Edgar Cayce, uno tra i maggiori sensitivi del suo tempo.

Secondo gli antichi oniromanti, i sogni veritieri uscivano da una porta d’avorio, quelli falsi da una porta di corno.

Poiché tutto soggiace a errore, sostenne Cartesio, le immagini che vediamo a occhi aperti varranno quanto quelle che scorgiamo in sogno. Dice Guglielmo Marra: “Il sogno è lo specchio dove la veglia si riflette e si incontra con la sua immagine negativa”; e ancora: “Il sogno avrebbe la funzione di valvola, attraverso la quale si scaricano le tensioni accumulate durante la veglia” (Il mistero dei sogni, Meb Editrice).

Il doppio dell’io che vediamo in sogno è come l’immagine di Narciso riflesso nello stagno. Nei sogni sul “doppio”, nella letteratura cinese, si avrebbe un io che sogna un altro io che incontra un altro io.

Possiamo dire che il sognare presenta una qualche somiglianza con la creazione artistica; esso “è matrice dell’arte” (Proust).

Dice Schopenhauer che il sogno è una breve pazzia e che la pazzia è un lungo sogno. Abercrombie afferma che vi è una notevole analogia tra i fenomeni mentali nella follia e nel sogno.

Potremmo paradossalmente paragonare questa esistenza materiale a un sogno rispetto alla vita eterna o Realtà del Sé (totalità interiore dell’anima), allo stesso modo in cui il sogno stesso è tale rispetto alla vita mortale (un sogno nel “sogno”).

In definitiva, siamo noi il sogno del Sé, o è il Sé il nostro sogno?

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SIMBOLOGIA DELLE VOCALI

In una sua poesia Rimbaud assegna un colore diverso a ogni vocale. Secondo il poeta, il senso delle vocali si può riassumere così: A, nero; E, bianco; I, rosso; U, verde; O, azzurro. Egli usa poi questa tabella con paralleli basati sull’esperienza sensoriale. A tale proposito, Ernst Junger nel suo saggio L’elogio delle vocali * fa questa considerazione: “Poiché Rimbaud possiede uno sguardo che sa spingersi anche al di là della pura sfera artistica abbiamo qui un sintomo della profonda diversità fra le lingue. In ogni caso, ci sentiamo piuttosto inclini ad associare la A e la O al rosso e al giallo, colori di luce, mentre la I e la U sono più vicini ai colori della terra”. E ancora: “Nella sua Filosofia della composizione Poe definisce la O la più sonora delle vocali. La A è l’aquila, la O è il falco dell’universo sonoro”. “Noi usiamo per la O un ideogramma che riproduce la forma dell’occhio”. Secondo Junger, infine, la A significa verticalità e ampiezza, la O altezza e profondità, la E il vuoto e il sublime, la I la vita e la putrefazione, la U la generazione e la morte. Nella A invochiamo la potenza, nella O la luce, nella E l’intelletto, nella I la carne e nella U la terra materna, i sepolcri, l’età remota di Saturno.

Concludiamo questo breve excursus con la bella frase di Jacob Grimm, secondo cui “alle vocali nel loro insieme va attribuito un carattere femminile, alle consonanti un carattere maschile”.

* Ernst Junger, Foglie e pietre, Adelphi 1997

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SULL’ESSENZA DEL REALE

Amo ciò che non si vede. Soltanto nell’Idea, risiede il Reale; il tangibile e ciò che si percepisce coi sensi, è apparire, riflesso, velo esterno di una realtà invisibile.Sussulti di gioia mi dà il contemplare qualcosa di bello, di artistico, che aspira alla perfezione – si tratti di opera di Dio o dell’uomo -; mi emoziona non la cosa in sé (corruttibile), ma ciò che sta dietro, che vive dietro la cosa. Il cuore della “cosa”. Dove l’anima trova in se stessa la propria luce.

Il visibile, il contingente, non è che manifestazione, rappresentazione. Riflesso. (L’emanato = il relativo, lo speculare). La vera essenza è nel non-manifesto. Nell’Idea, nell’Indicibile.

Afferma Ida Magli (La Madonna, Rizzoli ’87): “Il nome è l’essenza. Le cose che esistono sulla terra sono copie dell’Idea che esiste in cielo”.

Sono cosciente che esiste un universo sottile, non manifesto, appunto, pur vivendo calato in un mondo più denso, dotato di una struttura concreta e di aspetti materiali. Pur sentendomi parte di questa realtà superiore, che mi unifica col Tutto, nella mia dimensione attuale non posso percepirla se non confusamente, come se leggessi una “visione” di Swedenborg. Di questa “realtà” posso possedere soltanto le apparenze, mai la sostanza.

Sentiamo, in proposito come si esprime Elémire Zolla nel suo volume Uscite dal mondo (Adelphi, ’92), citando il pensatore Arturo Reghini: “Reghini delinea l’esperienza centrale, l’estasi filosofica,cui più volte si dedicò, in alcuni articoli, specie uno a firma di Pietro Negri, sulla rivista “Ur” nel 1928: rievoca l’esperienza dell’immaterialità per cui ci si accorge che non si corporei,o meglio che il corpo è in noi, con tutte le altre cose, e tutto fa capo a un nostro centro profondo, abissale e oscuro […]. In questo stato la coscienza appare come una variabile e il corpo come una funzione. Si coglie spingendosi come in alto mare, anagogizzando, giungendola punto che in sanscrito ridirebbe di sandhya, contatto o interfaccia tra sonno profondo e morte: si diventa come pianta o pietra; come angeli si vede l’essenza del reale”.

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SOTTO UNA “CATTIVA STELLA”

“Quanti ebbero occasione di conoscerne la personalità sono concordi,nel dire di lui, che fu un essere umano con un “cuore alto come il cielo”, ma il destino sottile come carta. Di solito, quando una persona non rintraccia una propria luce ad oriente, finisce per possederla in una balsamica strada di ponente.

Ma per l’autore di questo “diario” nessuna luce risultò recuperabile: né a oriente né a ponente.


Così ha inizio l’autobiografia di Pietro Valassina, autore di un pamplet dal titolo Solo i cani hanno un cuore (supplemento al periodico Logos n. 35, nov.-dic. 1988).

Il i° ottobre del 1915 in una clinica di Milano una sconosciuta diede alla luce un bimbo, e poi subito si eclissò. Il piccolo, a cui venne dato il nome di Pietro, venne accolto nel brefotrofio provinciale e sottoposto a cure perché risultava colpito da paralisi infantile. Dall’età di 4 anni iniziò il suo calvario, sballottato tra istituti e famiglie sempre diverse, cosa che gli fece rimpiangere sempre una struttura familiare tradizionale. A 8 anni gli morì il padre adottivo e la prima “madre” si risposò. Fu per lui una ferita che sarebbe rimasta sempre aperta.

Un giorno Pietro si sentì chiamare “bastardo” e fu per lui un marchio impresso a fuoco. A 10 anni era già scappato di casa più d’una volta, Durante una di queste fughe ebbe l’incontro più tenero e”umano” della sua vita: un cane molto grosso e molto mansueto, con cui fece amicizia. In compagnia di Bill – così lo battezzò il ragazzo – trascorse 18 giorni. Grande fu il suo dispiacere quando dovette separarsene, poiché lo rintracciarono e ricondussero in seno alla famiglia, per essere destinato (fino a successiva fuga) a lavoro durissimo e a maltrattamenti, che sovente giungevano fino alle sevizie gratuite.

Verso i 15 anni fu rinchiuso in un istituto di Arese, dove si trovò subito a disagio per la disciplina ferrea. Era sempre triste, piangeva e il suo chiodo fisso era la mamma.

Il suo animo s’inaspriva sempre di più. Ma finalmente parve che il direttore dimostrasse verso di lui un volto un po’ più umano: s’interessò a far rintracciare la madre di Pietro e gliela fece incontrare. La donna però subito si mostrò fredda e distaccata. Pietro restò all’Istituto fino a 21 anni. Fece il “premilitare”, poi fu accolto in casa della mamma. Ma la sua infelicità non lo abbandonò! In casa risultava di troppo; la madre aveva un amante e per lui era peggio di un’estranea. Un giorno Pietro fu ricoverato d’urgenza per appendicite acuta. Una volta dimesso, tornò a casa, ma nel frattempo la mamma aveva cambiato residenza. Si recò alla nuova abitazione ma si vide respingere con la motivazione che non c’era posto per ospitarlo!
Non trovava pace da nessuna parte.

Fu in seguito rinchiuso presso la Sacra Famiglia, perché risultava “deficiente e bisognoso di cure”. Ma vi restò poco perché si fece cacciare via.

Trascorse un periodo nero: faceva la fame e desiderava morire. Infine, riuscì a trovare lavoro come fattorino; lavorò fino all’età di 25 anni, quando avvenne la chiamata alle armi: il ritardo al servizio militare era dipeso da riforma per bassa statura. Dato lo stato di guerra fu fatto idoneo e assegnato al 3° Genio di Pavia. Dopo sette mesi fu destinato al fronte di Grecia.

Tempo dopo, in seguito a un attacco aereo in cui fece da scudo a dei bambini, veniva rimpatriato con una nave-ospedale. Aveva subito lesioni al cervello.

Si succedevano continui attacchi epilettici; fu ricoverato all’ospedale di Arezzo. Gli riconobbero le infermità per causa di servizio. Richiamato, fu aggregato all’8° Fanteria di Monza. Nel raggiungere il Corpo, fu assalito da un attacco epilettico fortissimo. Si riprese, ma per strada lo sorprese un attacco aereo e proprio davanti all’entrata del rifugio cadde una grossa bomba che procurò danni e feriti. Malgrado ferito, Pietro si caricò in spalla una G. di F. ferita gravemente e si trascinò fino a Porta Venezia, dove trovò militi che li soccorsero. Fu ricoverato in gravi condizioni.

Qualche tempo dopo, essendosi ripetuti gli attacchi epilettici, Pietro fu ricoverato all’ospedale di Baggio. Qui da una ispezione di un generale tedesco fu deciso che i militari guariti dovevano essere trasportati in campi di concentramento. Avvenne che un giuda, suo “compagno”, per un compenso di 70 mila lire, lo fece catturare. Fu caricato su un carro bestiame e avviato al Campo di concentramento di Walsrode. Da qui, fu trasferito al Campo di Sant’Antonin a Bitterfeld (Sassonia), dove fu costretto a lavorare duramente. Non resistendo alle sofferenze, tentò di fuggire, senza riuscirvi; dopo essere stato ferocemente torturato, fu inviato al campo di sterminio di Buchenwald, e dopo una ventina di giorni trasferito a Osendorf, dove rimase per otto mesi, condannato ai lavori forzati; dopo di che (pesava soltanto 38 chili!) tornò a Sant’Antonin.

Pietro fu liberato dagli americani. Rimpatriò nel ’46 e venne ricoverato in pietose condizioni, all’ospedale Bristol di Merano. Fu sottoposto a visita psichiatrica e internato nel Manicomio di Pergine.

Infine fu dimesso. La guerra era finita. Terminata la prigionia, ma i guai continuavano. Pietro si sentiva solo e abbandonato; l’unico amico restava Bill, un bastardo, come lui. Riuscì a trovare lavori saltuari, ma invariabilmente veniva licenziato o per mancanza di lavoro o a causa della sua malattia. Si trovò una complice-amante, e rubava oggetti d’oro che lei riusciva a piazzare bene.

Poi tutto finì, quando lei gli scrisse che s’era fidanzata. Dimesso dal carcere dov’era intanto finito, la trovò che s’era sposata. Dopo essersi ingrassati a sue spese, i due invitarono Pietro a
sparire.


Conobbe un’altra donna, Celestina. Godeva allora di una pensione di invalidità di guerra. Ma presto tutto finì con il trasferimento di lei in Francia, e fu meglio così perché aveva un carattere impossibile. Dopo qualche mese, Pietro si legò a un’altra donna, Gaetana Palermo, che pensò di legare al suo assetato affetto con un regolare matrimonio. Non l’avesse mai fatto! Era cattiva, bugiarda, dedita all’alcool; sovente veniva arrestata dalla Squadra del Buon Costume. Dopo cinque mesi dal matrimonio, Pietro un giorno si ammalò e fu lasciato solo in casa. Lei ritornò il giorno dopo, per cui egli non poté trattenersi dallo schiaffeggiarla. Lei, ubriaca, sporse denuncia per maltrattamenti, sfruttamento e altro. Pietro venne arrestato immediatamente.

La moglie si premurava di fargli delle visite, ma al solo scopo di strappargli una delega per la riscossione della pensione. Mentre a lui assicurava aiuto in occasione del processo, fuori complottava con Celestina, ritornata intanto dalla Francia, sua amica di marciapiede, che, anche perché gelosa, approfittò dell’occasione per contribuire alla sua totale rovina.

Il complotto gli valse una condanna di 5 anni, 9 mesi e 5 giorni di reclusione, più sei mesi di Casa di cura, lire 80 mila di spese processuali, interdetto dai Pubblici Uffici per sei anni, decaduto dalla patria potestà, dall’autorità maritale, risarcimento danni alla parte lesa, eccetera. Dopo oltre un anno di detenzione, si aggiunse la sorpresa che la moglie dava alla luce un “figlio”, frutto delle sue scorribande. Pietro presentò denuncia di adulterio e misconoscimento di paternità, ma poco più tardi ritirò le denunce, non volendo per il piccino la sua stessa sorte disastrosa. La moglie cominciò a inviargli una fitta corrispondenza, fatta di strane dimostrazioni di affetto, però non dimenticando di far richiesta in ogni scritto dei libretti delle sue due pensioni di invalidità (quella di guerra e quella di lavoro). Nel contempo anche il padre della moglie entrò in scena per strappargli la delega della riscossione delle pensioni, poiché, asseriva, era lui che provvedeva ai bisogni del bambino. Quest’ultima precisazione veniva però smentita dalla figlia della moglie, che assicurava che le spese erano sostenute dall’Opera Maternità e Infanzia, e diffidava dall’inviare deleghe o denaro.

Pietro si limitò a farsi soffiare 15 mila lire. Da allora non si hanno più notizie di entrambi. Per il fatto che la condanna superava i 5 anni di reclusione, anche le pensioni gli vennero sospese.

Per le tragiche situazioni morali, giuridiche e materiali, le condizioni psichiche di Pietro tendono ad aggravarsi. A causa della semi-infermità mentale fattagli beneficiare nella sentenza di condanna, l’espiazione avviene presso una sezione per minorati psichici, presso il Manicomio Giudiziario.
“Dalla cella che occupo qui in Napoli, guardo ora mestamente volare i passeri e i colombi. E invidio la loro libertà. I miei pensieri si accavallano e fra questi penso sovente al mio presente e al mio domani. L’avvenire è buio. Avvilentemente buio. Buio. Buio. Anche qui ho la compagnia delle bestie. E’ quando scendo in cortile. Sono due cagne”.

”Conto di farmi ancora vivo per dire se la mia sorte è cambiata; o se essa si è accanita con la consueta ferocia contro di me”.

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GRIDANDO L’AURORA

Edito da Feltrinelli, nell’aprile del 1980 usciva Nero di Puglia, una dura testimonianza di Antonio Campobasso, nato da una pugliese e da un padre africano mai conosciuto. Più che un’autobiografia essa è una singolare cantata meridionale-africana avente come leit motiv la schiavitù e il dolore, come precisa Alfonso di Nola nella prefazione, dove aggiunge: “Campobasso nulla ha commesso, molto ha pagato”; “il suo urlo è diventato il tam-tam di una negritudine occasionale”.

Antonio nacque a Bari mentre l’Italia partoriva la Repubblica, il 2 giugno 1946. Campobasso è uno scrittore nuovo, e la sua prosa spesso cede il passo all’andamento impetuoso dei versi. Egli ci racconta la sua vita “con un vigore e un ritmo tali da superare la barriera del fatto privato per diventare segno dell’emarginato”. Lasciamo che sia lui stesso a presentarsi: “Ed eccomi ora qui, Antonio Campobasso, devo gridare la mia cronaca e cerco un giudice per un processo che non si farà mai”. E ancora: “Non sapevo che un colore e un odore umano diversi ti pesano addosso. Ero nato, così per caso, in un paese mio/non mio, in mezzo alla guerra…”.

A tre anni e mezzo la figura di sua madre svanì ed egli fu sempre privato del suo affetto. Antonio visse insieme alla nonna, a Triggiano, conoscendo povertà e fame. Verso i nove anni già cominciava a essere preso a schiaffi dalla vita quando i coetanei gli facevano pesare la sua diversità coprendolo di farina e di insulti.

Nel giugno 1955 Antonio passò all’orfanotrofio di Giovinazzo, dove tutto era regolato sotto l’insegna della carità cristiana. Il presidente era un magnate della dc. Dopo quindici giorni Antonio ricevette la prima punizione: digiuno completo per non essersi presentato per la Messa. E da allora, altre punizioni, a catena… Infine passò al reparto dei grandi, e il direttore gli consentì l’iscrizione alla scuola d’arte. La professoressa di disegno fu il suo primo amore, e nel desiderio di possederla, l’immagine femminile si confondeva con quella della madre (la quale intanto viveva in Inghilterra).

Poi il sogno si spezzò: la donna desiderata si sposava. Seguì un periodo di crisi in cui Antonio a scuola si dimostrò un buono a nulla. Era l’ottobre del ’62, sette anni trascorsi in orfanotrofio, quando il direttore decise che per il ragazzo era giunta l’ora di lavorare. Lo mandò presso suo fratello che gestiva una trattoria, asserendo che quella era “una porca fortuna che gli cadeva addosso”…

La giornata per il ragazzo non aveva respiro, il tempo lo inseguiva tra pulire e lavare e servire. Usciva dalla nuova “prigione” soltanto una volta alla settimana. Alla fine ne ebbe abbastanza di quella schiavitù e fuggì. Fu subito ripescato e picchiato essendo anche accusato ingiustamente di aver rubato mille lire dalla cassa. Antonio gridò in faccia al padrone che non intendeva più servirlo; alla fine questi gli consegnò 500 lire e gli disse di sparire per sempre. Era il marzo del ’63.

Il Nostro iniziò la vita di vagabondo e per sopravvivere cominciò a rubare. Una notte fu pescato da due poliziotti e condotto in questura. Da qui al riformatorio il passo fu breve. Destinazione il Nicola Fiorelli di Bari. Antonio Campobasso fu schedato e incasellato.

Un giorno per accorrere in difesa di un ragazzo scoperto a fumare, afferrò l’agente e lo scaraventò a terra. Lo ricoprirono di botte e di sangue, e poi su in infermeria, dove lo attendevano non cure ma altre botte. Interrogato, sputò in faccia a un agente che faceva apprezzamenti nei riguardi di sua madre che se l’era intesa con un negro. E giù altre botte con più ottusa ferocia, fino a massacrarlo, usando anche un tubo di gomma tolto al rubinetto dell’ambulatorio. Per una settimana Antonio non riuscì a muoversi dal letto.

Da Bari, egli passò al riformatorio di Delicato, e poi a Urbino. Il desiderio di libertà si faceva irresistibile, e un giorno scappò saltando il muro del cortile nell’ora della Messa, ma fu subito ripescato e rinchiuso in cella di isolamento. Ben altre cinque volte scappò da Urbino insieme ad altri compagni, rubando auto per allontanarsi, ma ogni volta lo riacciuffavano, isolandolo e pestandolo. Il riformatorio lo aveva strutturato: gli aveva indurito quella sua scorza di aggressività e ribellione. In seguito a un’ordinanza verbalizzata nei suoi riguardi, Antonio fu dimesso per “irrecuperabilità sociale”. Ottobre ’65.

Alla questura gli presero le impronte digitali. Era un delinquente.

Vagava di città in città riprendendo la vita del vagabondo, rubava auto usando le chiavette delle scatole di Simmenthal, per correre lungo ignote vie… Il 7 settembre ’66 a Napoli, ruba una macchina e si lancia a folle velocità verso Lìcola. I carabinieri lo fermano perché ha i fari alti, e lo portano in caserma. Lo interrogano a forza di schiaffi, gli impongono di confessare furti mai commessi e infine lo consegnano al carcere di Poggioreale. Antonio lo chiama “tomba di vivi”. Quanto alle violenze subite, scrive: “questi ceffoni mi pesano addosso da sempre, non li cancello, sono la barriera tra l’essere e il non essere, fra il negro che porta in sé gravi odori di lontane foreste e il mondo distante ed ignoto dei bianchi profumati degli aromi di lievi profumi…”. E ancora: “Questi ceffoni mi danno il diritto di rifarmi il selvaggio di antichi abissi, mi chiamano a danzare la danza del fuoco, la danza della morte…”.

A Poggioreale tutto è ritmato, giorno e notte, da pestaggi e da celle d’isolamento. “Le guardie hanno fini gusti sanguigni…”, scrive Campobasso.

Giornate e minuti pesano come secoli. Oltre all’ora d’aria e l’ora della minestra, tutto il resto si immerge in un vuoto sconfinato e allucinante.L’11 luglio 1968 a Poggioreale si crepa per l’afa e manca l’acqua. I detenuti sganciano lo scarico della tubatura. Non si riesce più a sopravvivere. Il 12 luglio, dopo una protesta, alcuni detenuti vengono prelevati, pestati e reclusi in isolamento. Gli altri, durante il passeggio, decidono di non tornare nelle celle se prima non siano stati liberati i loro compagni. Il direttore acconsente a farli risalire, ma il maresciallo dichiara che “nelle condizioni in cui si trovano non possono risalire”. I detenuti fingono di rientrare, salgono al padiglione “Salerno”, vi sirinchiudono, spaccano tutto, scendono al reparto isolamento e liberano i loro compagni.”Questa è la rivolta di Poggioreale che la stampa del potere borghese ha gonfiato e trasformato in un attentato contro la sicurezza dello Stato…Questa rivolta, piccola cronaca legata ad acqua che manca, a cessi che non funzionano…”; così scrive Campobasso riguardo alla rivolta che lo faceva uno dei trenta protagonisti. Accusato di sequestro di persona, violenza, resistenza, devastazione, lo spedirono a Messina dove restò due mesi e mezzo. Da quel momento ebbe inizio un lungo periodo in cui Antonio venne sballottato da un luogo all’altro, lungo lo stivale – itinerario che egli chiama “atlante dei tormenti”. Il periodo più lungo fu di cinque mesi, al Manicomio di Aversa.Dopodiché egli riprese il suo transito infernale attraverso gli istituti carcerari. Da Benevento a Volterra, a Spoleto, a Porto Azzurro… Ad Alghero per due volte ingoia chiodi; relativa cura di patate bollite… Il 21 giugno ’74, Bari gli apre le sbarre.La storia di Antonio Campobasso non è ancora conclusa. A Roma lo pescano nuovamente perché deve scontare una condanna aggiuntiva.”Ho pagato il mio colore con il mio sangue”: questa è la forte affermazione di Campobasso. Ed essa dice tutto.Dopo vario girovagare, Antonio per vie traverse finisce in una scuola di recitazione dove ha l’opportunità di affinare la sua naturale vocazione di attore. Così termina la sua narrazione: “Non so se domani sarà per me un’aurora o una morte. Attendo gridando l’aurora”. Quell’ “aurora” da lui tanto invocata dopo tanto buio.
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