Maggio 2018: Virgin Prunes – IF I DIE, I DIE (1982)

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Data di pubblicazione: 1982
Registrato a: Windmill Lane Studios (Dublino)
Produttore: Colin Newman
Formazione: Gavin Friday (voce), Guggi (voce), Dave-id Busarus (voce), Dik Evans (chitarre), Strongman (basso), Mary O’Nellon (batteria)

 

Lato A

 

                        Ulakanakulot
                        Decline and fall
                        Sweethome under white clouds
                        Bau-dachong
                        Pagan lovesong

 

Lato B

 

                        Baby turns blue
                        Ballad of the man
                        Walls of Jericho
                        Causasian walk
                        Theme for thought

 

 

I punk erano i figli bastardi di Ziggy Stardust!
Senza i Sex Pistols e senza David Bowie non sarei nella musica!”
(Gavin Friday)

Era come avere Dio e il diavolo seduti allo stesso tavolo
(Bono)

 

L’Irlanda degli anni ’70 stava vivendo un vero e proprio fremito di rinnovamento. Rispetto all’Inghilterra, la terra verde irlandese era in fremito per delle questioni politiche e religiose che ancora non trovavano soluzione, e se ci metti pure la “bloody sunday” di Derry del 30 gennaio 1972, quando il primo battaglione dell’esercito britannico aprì il fuoco contro una folla di manifestanti per i diritti civili, uccidendone ben ventisei, allora risulta ben chiaro quanto il risentimento, l’odio, il fanatismo potesse trovare terreno fertile. Questi sono i giorni dell’IRA, dell’attentato al pub di Guildford a Londra il 5 ottobre del 1974, dei quattro innocenti capri espiatori di una guerra tra terroristi e sistema britannico… Ma il rock era qualcosa che stava svegliando la coscienza dei giovani irlandesi in maniera ancora più forte, e senza il bisogno di ricorrere alle armi. Oltre Van Morrison e i Them per il decennio precedente, si andavano confemando i Thin Lizzy di Philip Lynott e i Boomtown Rats di Bob Geldolf, che stavano traducendo in “gaelico” lo spirito punk proveniente dall’Inghilterra.
In questo contesto si forma una comune alla fine degli anni ’70 nella Dublino operaia: il Lypton Village. I membri sono dei ragazzi ribelli a qualsiasi forma di legge, una spirito anarchico e comunque pacifista, amante delle arti e della lettura, oltre che delle avventure. Questi ragazzi andranno a formare due gruppi: gli U2 e i Virgin Prunes. Se i primi col tempo hanno rappresentato l’anima passionale, imperniata di calore religioso e romantico idealismo, e nello stesso tempo sperimentale del Lypton Village, i secondi ne rappresenteranno l’avamposto gotico, pagano, ed estremamente dissacrante.
Infatti, a differenza degli amici U2 (sarà lo stesso Guggi, nome di battesimo Derek Rowen, a rinominare Paul Hewson in Bono Vox, ma non dimentichiamoci nemmeno del fatto che il chitarrista Dik Evans era il fratello di The Edge), i Virgin Prunes non canteranno di dubbi riguardanti la fede, o non si lanceranno in dichiarate prese di posizioni di fronte alla barbarie terroristica, o non cercheranno un rapporto unico col proprio pubblico. Semmai preferiranno brancolare nel buio pesto di un inferno brulicante di reietti (loro stessi si considereranno dei “vergini derelitti”), nell’ancestrale bestialità, nel tormentare e shoccare il pubblico anziché chiamarlo ad un unione universale. I Virgin Prunes sono i figli maledetti dell’Irlanda, mentre gli U2 erano i bravi ragazzi, comunque tormentati, in cerca della Verità!
Dice tutto il loro primo album, emblematico sin dal titolo “If I die, I die…” (se muio, muoio), quasi a voler spazzare via qualunque forma di speranza. A queste canzoni, che hanno anche la forma di una mini-piece teatrale, vi si aggiunge anche un visionario di pagana e primitiva rozzezza, una sorta di regresso allo stadio animale per liberare l’umanità dalle sovrastrutture. Colin Newman dei Wire in cabina di regia incanala questo spirito verso una forma dark di stampo glam, dove David Bowie incontra i Pere Ubu, e le atmosfere si fanno cupe senza un briciolo di luminosità.
Apre la strumentale Ulakanakulot, ansiogena e funerea, e apre le danze per ciò che potrebbe essere il viaggio all’interno di un affascinante incubo. Ed è con glaciale straniamento che si aprono la decadente Decline and fall e la cantilenante Sweethome under white clouds, mentre echeggia di Bauhaus la spettrale Bau-dachong. Pregna di tematiche naturaliste l’arabeggiante Pagan lovesong, in cui solo lo spogliarsi della civiltà e il ritorno allo stato di natura è la via che può salvare l’uomo dalla catastrofe.
Apre il secondo lato il synth-pop spastico di Baby turns blue, dove Friday incrocia il modo di fare di un Brian Ferry in preda al delirio, mentre Ballad of the man procede in una misura apparentemente più convenzionale, approcciando un motivetto pop di facile portata, un po’ come Bruises dei Gene Loves Jezabel, tanto per prendere un esempio comune. La “biblica” Walls of Jericho invece propone un altro tipo di mutazione: da dannati a predicatori (in riferimento anche all’esperienza con il gruppo cristiano Shalom, condivisa anche da Bono, The Edge e Larry Mullen degli U2). Caucasian walk però rispedisce tutti all’inferno, drammatica, con un giro vorticoso di chitarre e un basso cavernoso e pulsante, e una violenza tribale degna del più ancestrale paganesimo. Chiude i conti una decadente e anticonformista Theme for thought, con tanto di declamazione di Oscar Wilde.
If I die, I die… è un capolavoro di spettrale bellezza, un viaggio dentro un’ossessione, un incubo ad occhi aperti, cui i Virgin Prunes offriranno anche delle decadenti performance dal vivo. Una pietra miliare del glam-dark-rock che non mostra alcun segno del tempo che è trascorso, e che ancora oggi continua a partorire figli maledetti ovunque.
Gli U2 saranno baciati da un successo mondiale di vaste proporzioni, tanto che non esiste anima viva nel mondo che non conosca i quattro ragazzi di Dublino. I Virgin Prunes invece non avranno la stessa fortuna, e la loro carriera terminerà piuttosto presto, verso la fine degli anni ’80, senza purtroppo per loro bissare la bellezza del loro esordio, prima che Gavin Friday desse vita ad alcuni progetti solistici, senza molta fortuna. Il mondo forse è stato un po’ troppo bastardo con questi figli di Irlanda: ha premiato forse eccessivamente gli U2, e ha oscurato l’importanza dei loro fratelli malsani e decadenti. Ma il tempo è galantuomo: e se oggi ribadiamo la bellezza e l’importanza storica dei capolavori della band di Bono (in questa sede abbiamo citato lo storico capolavoro The Joshua tree), non possiamo che fare altrimenti anche con i Virgin Prunes!

 

Il collegamento tra gli U2 e i Virgin Prunes lasciava sbigottiti i profani. Erano come lo yin e lo yang, facce opposte della moneta del rock’n’roll. Da un lato avevi una semplice guitar band di quattro elementi che puntava a toccare il cielo e teneva a trascinarsi dietro il proprio pubblico, dall’altra c’era una gang di provocatori della performance-art che respiravano fiamme e zolfo nel tentivo di shoccare il pubblico e suscitarne una reazione: positiva o negativa non importava”
(Neil McCormick)

Maggio 2018: Virgin Prunes – IF I DIE, I DIE (1982)ultima modifica: 2018-05-28T10:02:32+02:00da pierrovox

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