Febbraio 2018: Queen – A NIGHT AT THE OPERA (1975)
Data di pubblicazione: 21 novembre 1975
Registrato a: Trident Sarm, Roundhouse, Olympic Studios, Scorpio Studios, Landsdown Studios (Londra), Rockfield Studios (Monmouth)
Produttore: Roy Thomas Baker & Queen
Formazione: Freddie Mercury (voce, pianoforte, piano elettrico, percussioni), Brian May (chitarre, ukulele, toy koto, arpa), Roger Taylor (batteria, percussioni, cori), John Deacon (basso, piano elettrico)
Lato A
Death on two legs
Lazing on a sunday afternoon
I’m in love with my car
You’re my best friend
’39
Sweet lady
Seaside rendezvous
Lato B
The prophet’s song
Love of my life
Good company
Bohemian rhapsody
God save the queen
“Il concetto che anima i Queen è quello di essere regali e maestosi.
Il glamour è parte di noi, e vogliamo essere dandy”
(Freddie Mercury)
Non sono pochi quelli che storcono il naso non appena si parla dei Queen. Spesso le “loro maestà” del rock britannico degli anni ’70/’80 vengono relegate in una sorta di fastidioso senso del pudore per il quale difficilmente il purista amante del rock ammetterà di essere un loro fan, o quanto meno di apprezzare i loro dischi, e per diversi motivi, tra i quali sicuramente c’è il loro smisurato senso di grandiosità, il loro rock ampolloso, barocco, maestoso, e uno stile decisamente sopra le righe. Oltre al fatto che spesso i Queen piacciono in genere ad un genere di pubblico che si lascia spesso ammaliare da quel senso di grandeur. Insomma un po’ come per certi film carichi di effetti speciali, per i Queen spesso viene riservato un trattamento che non certo riserva il rispetto. Ma ci prendiamo la briga di esprimere il disappunto nei confronti di questo snobismo da quattro soldi, perché se è vero che i Queen sono espressione di magniloquenza e senso smisurato dell’ego, è altrettanto vero che per il glam rock degli anni ’70, essi sono stati una delle realtà più importanti e influenti di tutti i tempi, e il fascino di Mercury e compagni ancora tiene, nonostante tutte le resistenze del caso, o del cazzo, come dir si voglia.
Per carità, è altrettanto vero che le cose troppo in grande rischiano facilmente di sfuggirti di mano, e che l’eccesso o il barocchismo non sempre sono espressione di buon gusto, e che nel rock il cosiddetto “senso della misura” ha sempre dato una certa stabilità contro gli onanismi dei vari tecnicismi. È anche altrettanto vero pertanto che ai Queen il senso di codesta realtà, unita ad un successo smisurato e adorante, è sfuggito quasi presto di mano, ma almeno da queste parti non ce la si sente di misconoscere l’apporto del loro contributo.
I Queen sono uno di quei gruppi che ha saputo unire con intelligenza asprezze hard rock e raffinatezze glamour, esprimendosi con un linguaggio si pomposo, ammiccante soprattutto ad un certo progressive, ma anche sapendo coniugare con una certa disinvoltura diversi stili musicali tra di loro, dal cabaret all’opera, dal pop al rock, e con risultati sorprendenti, mettendo in evidenza le qualità eccelse di ogni singolo membro del gruppo: dalla voce possente e carismatica di Freddie Mercury ai tecnicismi chitarristici di Brian May, oltre ad una secca e quadrata base ritmica formata da Roger Taylor e John Deacon.
A night at The Opera resta la loro opera di maggiore spessore, il disco che più di ogni altro ha messo in mostra le loro abilità migliori: capacità di saper coniugare melodia e teatralità, arte visiva e ascoltabilità immediata. Perfezione massima ed emblema perpetuo della loro arte è Bohemian rhapsody, uno dei loro singoli più celebri, oltre che espressione massima di un’alchimia artistica capace di miscelare hard rock, cabaret, sketch e teatralità, oltre che una forte dose di emozione. In un certo senso i Queen continuano un discorso già iniziato nel tempo dagli Who, prendendo in prestito la vena glam di Marc Bolan e David Bowie, oltre che l’attitudine hard dei Led Zeppelin. A night at The Opera quindi è tutto ciò che nel rock è simbolo di grandioso e di stupefacente, già partendo dalla citazione apertissima all’omonimo film dei fratelli Marx.
Il disco si apre con atmosfere enfatiche e drammatiche, tanto vicine a certe cose del celebre musical Jesus Christ Superstar, e i riff cromatici di Death on two legs, imponente e magistrale. Lazing on a sunday afternoon invece si concede atmosfere d’altri tempi, con la voce di Mercury filtrata che appare venire fuori da un grammofono, quasi come a voler rappresentare sonoramente la Londra di fine ‘800. Per I’m in love with my car Mercury lascia il microfono a Roger Taylor, che può esprimere tutta la sua passione per le automobili. You’re my best friend invece si apre con un piano elettrico e sintetico che tanto fa pensare ad alcune cose dei Roxy Music, ma virando verso un approccio decisamente più easy listening. Con ’39 si cambia decisamente registro, virando verso un folk bucolico di stampo decisamente country, facendoci respirare l’aria della campagna inglese, con Brian May a prendere in mano il microfono. Dopo questa arrivano i riff saturi del classico hard rock di Sweet lady, che tanto riportano alla mente gli Who o un certo periodo di David Bowie, mentre la ballata a la Belle epoque Seaside rendezvous chiude il primo lato.
Il lato B si apre con la lunga incursione progressiva di The prophet’s song, che si inizia su atmosfere lontane, trasportate dal vento, rievocando certi Pink Floyd, per poi costruirsi su una struttura hard tanto cara ai Deep Purple o ai Black Sabbath, senza mancare di sketch, echi e altri suoni rinfusi, toccando tanto l’hard più granitico, quanto il folk celtico. In Good company Brian May riprende in mano il microfono e l’ukulele, e per un attimo pare di avere ancora una volta a che fare con la coppia Lennon/McCartney, ancora in attività e affiatata come una volta. Ma è un’illusione, e i Queen lo sanno bene. Ed è qui che arriva la tragicommedia di Bohemian rhapsody, dove sono loro ora i padroni assoluti della scena. E si chiude con l’inno britannico God save the queen, suonato dalla chitarra di Brian May. Anche se qui la Regina sono loro! E l’omaggio va dato dunque alle loro maestà e non certo alla Regina d’Inghilterra.
Il successo che sortirà da questo album cambierà per sempre la carriera dei Queen, rendendoli una delle band più celebrate e seguite di sempre. Ma è anche da lì che inizierà il declino, dapprima tenendo botta con album dignitosi e con diversi spunti interessanti come A day at the races, New of the world o Jazz, e chiudendo in bellezza il primo periodo col maestoso Live killers, e poi cadere rovinosamente verso un pop-rock da stadio, dal quale, purtroppo non si riprenderanno mai più, la espressione totale fu il celebratissimo e pompatissimo concerto allo Stadio di Wembley. Qualcuno lì ci ha visto l’espressione massima della loro carriera. In questa sede ci limitiamo a ravvisarne solo l’espressione massima della loro popolarità, e niente di più. E non basterà David Bowie (Under pressure) a risollevare la situazione, poiché la malattia di Freddie Mercury ci metterà del suo. Ma su questi aspetti riserviamo un rispetto doveroso, perché l’Aids non è una cosa su cui fare ironia, e perché l’umanità viene sempre prima di ogni cosa. Freddie Mercury annuncerà il 23 novembre del 1991, con un comunicato stampa di aver contratto il virus. Il giorno dopo lascerà per sempre questo mondo, stroncato da una broncopolmonite alimentata dall’Aids. E nonostante le patetiche strategie messe in atto dal resto dei compagni per tenere su la band, chiamando dapprima George Michael, e poi Paul Rodgers (con cui hanno fatto diversi tour e inciso un disco), quando sarebbe stato doveroso, per rispetto del compagno defunto sciogliere definitivamente il gruppo, la voce di questo grande cantante resta ancora impressa nella memoria di tanti. Ed è questa la loro più bella eredità!
“Freddie Mercury e i Queen hanno dato un notevole contributo alla musica pop”
(David Bowie)