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Il diritto all’ingenuità

Stamattina sono andato alla posta per pagare una bolletta, dopo 20 minuti di attesa, entra un tizio che si dirige verso gli sportelli e con tono non molto educato pretende di passare avanti.

Il tizio aveva un numero di turno chiamato dieci muniti prima.

Il tizio, però, non c’era quando il display l’aveva chiamato, si era allontanato, ed ora voleva, anzi pretendeva, passare, senza prendere un nuovo numero.

Al mio turno mancavano due persone, chi era prima di me si è infastidito, più che altro per la pretesa.

Bastava chiedere per favore, nessuno avrebbe disatteso un atto di gentilezza.

A rifiutarsi di dare il posto e prendere di petto il tizio, è stato un vecchietto.

Non mi dilungo, vi dico solo che sono dovuti intervenire i dipendenti della posta alla fine.

Alcune persone, compreso me, hanno preso le difese del vecchietto, la lite per poco (molto poco) non è degenerata in rissa.

 

Non amo fare a botte, mai reagito alle provocazioni e se è capitato di alzare le mani è stato solo per difendermi (questo tanto tempo fa, quando si era giovani e incoscienti). Non mi farà onore quello che scriverò, ma ammetto che: quel tizio avrebbe meritato una lezione.

 

Già dobbiamo fare i conti con la nostra vita a volte pesante, se si mettono a rompere le scatole pure questi tizi, diventa difficile restare calmi e non violenti.

 

La cosa che dà fastidio è constatare che esistono (anche qui dove la violenza non è scontata) persone che cercano la lite. Sarà banale come pensiero, visto quel che succede nelle piazze e la sera in alcune città.

Ma sento l’esigenza di affermare il mio diritto ad esser banale e ingenuo, non resta che questo per evitare la disillusione.

Ed è forse già tardi.

 

Dopo l’ultimo post ho reso palese (ancora una volta) il disagio in cui spesso mi trovo a vivere, un disagio etico e morale.

Non sempre, dunque, riesco a far coesistere in piena armonia quel che sono, con quel che vorrei essere. Non sempre, quindi, riesco ad evitare la disillusione e la malinconica consapevolezza di non esser così forte da vincere i miei demoni.

 

L’isolamento non è un’opzione accettabile per questa nostra società. Per quanto, volontariamente o involontariamente, cerco di evitare il contatto, non è possibile reiterarlo allungo. Alla fine, anche la solitudine è triste e dolorosa.

 

Che fare quindi?

 

Una volta trovato, con immensa fatica e sacrificio, l’equilibrio con la parte irrequieta e ferita che vive in me, come posso mantenere questo equilibrio stabile? Ed evitare di accettare gli inviti al caos della nostra società?

 

La mia compagna a volte mi accusa (a fin di bene – così dice) di vittimismo, quando cerco di giustificare un mio comportamento.

Lei si trincerà dietro l’ironia (io puntualizzo che più che ironia è sarcasmo, brutale e poco sensibile sarcasmo) e giustifica le sue parole a volte offensive (se io mi sento ferito, lo sono anche se chi le pronuncia dice il contrario) con l’intelligenza, perché chi è ironico è, intelligente e non ferisce, dice solo la verità. Una scusa per occultare dietro la verità, la sfacciata pretesa di poter dire quello che si vuole, e più la confidenza è intima e affettiva, più l’irriverenza si sostituisce alla delicatezza. Più passa il tempo più penso che l’ironia sia un altro scudo che nasconde l’inadeguatezza della vita.

 

Come restare, quindi, equilibrato e contemporaneamente non diventare vittima o comportarsi come una vittima?

 

Ci sta a questo punto una citazione illustre:

 

“L’onore della vittima è di non essere l’assassino.”

Khalil Gibran

 

Meglio vittima o carnefice?

Vista l’attuale società direi che la maggioranza ha scelto la seconda opzione.

 

La verità è che non sono un essere umano “normale”, la mia opinione potrebbe essere, quindi, distorta e non essere poi così saggia. A mio parere e non solo, se fossi sotto analisi, gli esperti concluderebbero la mia diagnosi con il disturbo borderline della personalità.

 

Meno male che non sono il medico di me stesso.

 

Ringrazio la natura per avermi concesso il dono dell’ingenuità e della mite timidezza, perché mi hanno permetto di pensare come una vittima, di agire come una vittima e non come un carnefice.

Mi è stato concesso l’onore dell’oppresso e non il disonore dell’assassino.

 

Che dite troppo retorico? Troppo drammatico? Troppo fuori tema.

 

Vi confido che sono sempre stato sopra le righe, teatrale in certi comportamenti. Eccedo, a volte, negli estremismi. Zitto e solitario nella realtà, prolisso e retorico nelle opere ed omissioni.

 

Quello che vorrei ed ho sempre desiderato, è essere in pace.

Non lo sono quasi mai, in pace. Lo sono quando sono solo, vorrei esserlo anche quando sono al centro della società.

 

Chissà se capite quello che cerco di esprimere?

 

Perché un’altra accusa (sempre a fin di bene) della mia compagna, è di essere poco chiaro. Ed è vero, su questo non posso obbiettare, è la verità. Ed oltre alla poca dimestichezza verbale devo aggiungere un certo pensiero contorno.

 

Chissà!? Forse sono un po’ matto. Mi viene in mente la canzone di Cristicchi, “ti regalerò una rosa”, in particolare alcuni versi.

 

[…]

La mia patologia è che son rimasto solo

Ora prendete un telescopio, misurate le distanze

E guardate tra me e voi, chi è più pericoloso?

[…]

 

Un pensiero poetico straziante, ma attuale.

Al debole si dà la medaglia del pericoloso. Il forte? Vince, vince sempre, e in una lunga e cupa notte vive il lutto del buono che muore.

 

Mi sono dilungato un po’ troppo, mi scuso. Mi scuso per la lunghezza e per la cupezza del pensiero.

Buon fine settimana a tutti.

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Quel che ho

“Se desideri vedere le valli, sali sulla cima della montagna. Se vuoi vedere la cima della montagna, sollevati fin sopra la nuvola. Ma se cerchi di capire la nuvola, chiudi gli occhi e pensa.”
Khalil Gibran

Vedere, un verbo che ho vissuto con emozione, contrastante emozione, in questo ultimo periodo.

Ho già scritto di occhi e vista, in un lontano post: Occhi

Dal problema non si guarisce, semplicemente, ci si adatta e si vive prendendo le dovute precauzioni (mediche).

La prospettiva, però, cambia quando ti viene tolto qualcosa che più di tutto è scontato, più di ogni altra cosa è tuo, ti appartiene.

L’emozione e la riflessione che scaturiscono sono diverse.

Ti possono togliere internet, togliere la tv, togliere l’auto, persino il lavoro e con esso il sostentamento. Non hai la stessa reazione. Non è la stessa cosa. Non è come perdere qualcosa di prezioso e unico come la vista o l’udito.
Paradossalmente ti senti, però, più derubato se ti sottraggano il cellulare, l’auto o il lavoro, si arriva, persino, ad impazzire se la donna o l’uomo che hai accanto ti abbandona.

Non so se ha senso il discorso che ho appena scritto?
Sono stato una settimana senza poter vedere, stranamente i pensieri che mi sono affiorati in mente non sono stati quelli che immaginavo.
Mi vedevo, per restare in tema, disperato e affranto ed invece. La paura c’era e c’è, ma non la disperazione.
In questa situazione mi sono accorto di quel che ho, non di quel che mi è stato tolto.

P.S.
Voglio ringraziare chi mi ha mostrano affetto e vicinanza in questo momento particolare, non era scontato o dovuto:
La sempre presente e vitale elyrav, la sempre sorridente e ottimista OgniGiornoRingrazio, la sempre sensibile e materna stelladelsud16 e l’anima che più mi somiglia la struggente surfinia60.

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Danzare nella pioggia

Ringrazio ancora una volte le amiche per i commenti ricevuti, commenti che danno generosamente una visione di quello che sono e di cosa significa interagire. In un mondo finto tutto questo è reale e vero.

Ora, potrei continuare la riflessione, costruendo ancora sul pensiero passato, ma rischio e rischiamo di rimanere incatenati ad un sentimento cupo, cercherò, dunque, di non prolungarmi troppo.
Il senso di quello che mi è stato scritto è racchiuso, alla fine, in quel sentimento che è l’amore, la chiave di volta di ogni riflessione.

Nelle risposte ai commento ho scritto in due occasioni di come mi ha stupito leggere che l’odio non sia un sentimento che le amiche hanno vissuto o sentono di riconoscere.
Non condanno, impietosamente, chi perde la via, perché di fondo penso che c’è, sempre, una ragione alla follia e all’odio, la cattiveria in alcuni casi può essere una deforme essenza della natura di un essere umano, ma nella maggior parte dei casi è, un insieme di fattori che condizionano le nostre vite.
Il riscatto è una virtù che ha un valore immenso alla pari dell’amore e del bene assoluto. Le seconde possibile sono la via per guarire, perché chi fa del male in fin dei conti è malato, ferito nell’anima.
Mi stupisce, come ho scritto, leggere che non si è provato sentimenti che possono portare il cuore a odiare, perché tutti prima o poi restiamo feriti e ci ammaliamo, come si ammala il corpo.
Chissà, magari, la maggior parte degli essere umani non hanno mai avuto motivi per sentire nel cuore questo sentimento, portandolo, invece, a veicolare qualcosa di meno riprovevole e più auto infliggente. Ho scritto che la natura dell’odio porta inevitabilmente a cercare espiazione, per questo si cerca di far bene, per non cadere in quel che è dolore, l’odio, in fin dei conti, non è altro che una forma di dolore, che infliggiamo a noi stessi.
Ecco volevo sottolineare solo questo.

“Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici.”
Khalil Gibran

L’odio lascia profonde cicatrice, come il dolore che esso infligge. È il dolore che rende forti un’anima, la differenza, forse, è in quella profondità d’animo, in quella oscurità, che spezza lo spirito e anestetizza dalla sofferenza. Rimango dell’idea che la cattiveria è una porta e vi entra chi non sente nulla, chi non prova più dolore o mai ne ha provato.

Ora, non voglio come ho scritto all’inizio rimanere incatenato a questo pensiero, vorrei mutarlo ed evocare qualcosa di luminoso, cosa non facile visto quel che viviamo.
Persino la terra trema, ogni parte di questo mondo si scuote, come se una mano materna volesse farci fermare da quel che perseguiamo.
La storia insegna, a volte, i disastri hanno fermato guerre, unito fazioni, creato civiltà.
Oggi neanche la distruzione totale mette paura.
Ho sempre criticato il pensiero di chi per un bene supremo intimava e inculcava la paura (le chiese sono maestre in questo), oggi, il pericolo mi sa è proprio non provare paura.

“Era una mattinata movimentata, quando un anziano gentiluomo di un’ottantina di anni arrivò per farsi rimuovere dei punti da una ferita al pollice. Disse che aveva molta fretta perché aveva un appuntamento alle 9:00. Rilevai la pressione e lo feci sedere, sapendo che sarebbe passata oltre un’ora prima che qualcuno potesse vederlo. Lo vedevo guardare continuamente il suo orologio e decisi, dal momento che non avevo impegni con altri pazienti, che mi sarei occupato io della ferita.
Ad un primo esame, la ferita sembrava guarita: andai a prendere gli strumenti necessari per rimuovere la sutura e medicargli la ferita.
Mentre mi prendevo cura di lui, gli chiesi se per caso avesse un altro appuntamento medico dato che aveva tanta fretta. L’anziano signore mi rispose che doveva andare alla casa di cura per far colazione con sua moglie.
Mi informai della sua salute e lui mi raccontò che era affetta da tempo dall’Alzheimer.
Gli chiesi se per caso la moglie si preoccupasse nel caso facesse un po’ tardi.
Lui mi rispose che lei non lo riconosceva già da 5 anni.
Ne fui sorpreso, e gli chiesi: “E va ancora ogni mattina a trovarla anche se non sa chi è lei”?
L’uomo sorrise e mi batté la mano sulla spalla dicendo:
“Lei non sa chi sono, ma io so ancora perfettamente chi è lei”.
Dovetti trattenere le lacrime… avevo la pelle d’oca e pensai:
“Questo è il genere di amore che voglio nella mia vita”.
Il vero amore non è né fisico né romantico. Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà.

Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno.

La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia.”

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Ricordi in bianco e nero

Questo post potrebbe suscitare un pò di malinconia, avviso, dunque, i lettori, liberi di passare oltre.

Ieri sono stato al funerale di un parente, negli ultimi due anni, il quinto.
In questi (due) anni, se ne sono andati tanti pezzi del mio passato, quel passato costruito su quel nucleo di parenti vicino per affetto ai miei genitori, zii, prozii e cugini.

Così come è accaduto per i precedenti funerali, una frase si è ripetuta: “Ci si ritrova solo ai funerali”.
Parenti persi che si ritrovano. Se poi il grado di parentela dello scomparso o scomparsa è, più o meno, lontano le facce che si rivedono possono essere irriconoscibili e in molti casi sconosciute.

Ho rivisto cugini che non vedono, letteralmente, da quando ero bambino.
Mi fa riflettere il fatto che non li ricordavo per nulla, completamente dimenticati.
Siamo cosi presi dalle nostre vite o al contrario così presi dalla vite di persone che non conosciamo e a cui non siamo legati, che scordiamo i tanti legami che intrecciano ed hanno intrecciato le nostre famiglie.
A volte vedo su Facebook o twitter (le poche volte che entro) postare contenuti su vip e personaggi famosi neanche fossero parenti stretti e con quale solerzia ci si dedica attenzione e tempo.
Siamo presi dalle nostre vite ed è forse questo il problema che rende la società attuale, una società decadente.

Egoismi di varia natura e contenuto ci incatenano all’io, lasciandoci a volte privi di memoria.
Memorie che ci sono, ma vengono confinate in stanze buie.
Ieri mi sono ricordato di una vecchia auto di mio padre, una Fiat 127 bianca, delle gite per andare a trovare i cugini al paese e di vecchi sapori e odori, oramai, estinti.
Oggi, quei cugini hanno i capelli bianchi e come me a malapena ricordano quei momenti.
Però, non mi condanno. Non ricordo, né ho fatto nulla per mantenere i contatti, non mi condanno per questo.
La mia natura riservata e timida, forzatamente isolata, costretta a isolarsi, non ha mai avuto bisogno di contatti, me ne dispiace, ma non mi condanno.
Il meglio di me l’ho appreso stando solo, sono, sempre, stato bene da solo o forse ho imparato, semplicemente, a stare bene da solo.

“Cantate e danzate insieme e siate felici, ma fate in modo che ognuno di voi sia anche solo, come sono sole le corde di un liuto, sebbene vibrino alla stessa musica.”
Khalil Gibran

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Rose

Ieri ho accennato le difficoltà della mia compagna nell’affrontare l’attuale influenza stagionale, soffermandomi sulla cura e l’affetto che essa (la cura) genera tra chi si dà l’uno per l’altra, tra chi si ama e cresce insieme nel bene e nel male.

Gli atti d‘amore che ho, sommariamente, descritto con la frase:
“Io le cucino, io l’accudisco, io le cambio il pigiama, io l’aiuto in questo momento di difficoltà.”
Sono forme alternative, strutture emotive che nascono su quel t’amo che sussuriamo nei momenti d’intima confessione, è sono la nostra forza, la mia forza.
Dire t’amo, sistemare un giaciglio o un tavolino per ristorare le sue esigenze, sono però atti che scorrono come l’acqua, facili sospiri che lasciano in bocca il sapore della primavera.
Ma non è sempre così. Oggi voglio scrivere una frase che è, nei momenti di difficoltà, nelle labbra di tutti noi: “essere forti.”
Esser forti per lei o lui.

“Dimostriamo compatimento per le sofferenze degli amici non con le lamentazioni, ma prendendoci cura di loro.”
Epicuro.

È vero a volte mi lamento, quasi, egoisticamente (purtroppo non sono perfetto) di non esser apprezzato per quel che con amore faccio e dico.
Chi è, sofferente, provato nel corpo e nella mente da un malessere, è sottoposto ad uno stress che porta inevitabilmente ed esser (temporaneamente) depressa o depresso, irascibile e al momento incapace di mostrare gratitudine.
Il malato o comunque chi soffre per un motivo o un altro è, inevitabilmente concentrato su di sé, il dolore lo richiama a sé, gli spasmi lo costringono a piegarsi su di sé. E questo porta a volte a rispondere, magari, male ad un atto che per noi è spinto dall’amore.
Bisogna esser forti anche quando e sopratutto ci si sente respinti.

È facile mettersi in dubbio e mettere in dubbio chi amiamo, soprattutto nei momenti di difficoltà, è nella natura umana complicarsi la vita sia fisica, che emotiva. Il perché? Ancora non l’ho compreso.
La mia compagna come ho avuto modo di scrivere in passato ha un carattere tosto, con un arsenale di frecce appuntite nella sua Santa Barbara. Dal suo arco scoccano frasi piene di ironia e sarcasmo, che sanno pungere e intaccare l’orgoglio, anche il meno irascibile.

Il buon Gibran scisse che esser generosi significa dare più di quello che puoi, e l’orgoglio sta nel prendere meno di ciò di cui hai bisogno, che può (in negativo) significare anche dare di meno.

Ed è vero! L’orgoglio, se poi è ferito, ti porta a dare di meno ed è in questi momenti che ci si deve dar forza e dare di più, quell’attenzione in più che fa la differenza nel momento del bisogno o cambiare le cose nel momento che non si ha bisogno.

Tutto questo per dire solo che a volte prendersi cura di qualcuno non è rose e fiori, ma può esserlo se si ricorda che le rose sono i tanti t’amo concessi e ricevuti. Quel mazzo di rose non appassisce mai, e la bellezza che vive in esso, può rendere luminosa anche una brutta giornata.

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Riccio

Ieri mi è capitato di rivedere un vecchio film, visto anni fa. La trama offre vari spunti per riflettere e visto che sono qui per raccontare, vi racconto le mie impressioni.

Il film è: Il riccio.
Tratto dal romanzo: L’eleganza del riccio di Barbery Muriel. Il libro letto senza grande passione a dire il vero, so che ha avuto tantissimo successo.
Sinceramente non l’ho trovato eccezionale, ma credo sia una questione di gusti, le mie letture sono più vivaci e sporadicamente più fantasiose.

Il punto su cui voglio concentrarmi, oggi, è sullo sviluppo narrativo di un personaggio in particolare.
Madame Renée, la portinaia, che (attenti pericolo spoiler) nasconde sotto la sua area all’apparenza sciatta e burbera, un’area animata dalla sola presenza del proprio gatto e dalla televisione, un’anima sensibile, amante della lettera e della filosofia giapponese ed è proprio questo interesse che la spingerà a fare amicizia con un nuovo inquilino, il signor Ozu Kakuro, per l’appunto giapponese, che riuscirà con la sua gentilezza e intelligenza a far aprire quel riccio chiuso da lungo tempo al mondo. Infatti Reneé, che è in realtà una persona coltissima per non scontrarsi con il mondo in cui vive, un mondo fatto di uomini superficiali e stereotipati, preferisce celare la propria cultura, nascondendo così quella natura unica e sensibile.
La conoscenza con il signor Ozu le darà luce e speranza per il futuro. Un giorno però, Renée viene investita da un camion mentre attraversa la strada e muore. Questa conclusione è a mio parere, forzata. Perché serviva all’autrice per fornire una nuova visione della vita alla vera protagonista del romanzo, la piccola Paloma, che decide dopo la perdita dell’amica, che forse c’è ancora qualcosa per la quale vale la pena vivere (la piccola era, infatti, un’aspirante suicida).
Il punto che m’interessa analizzare è la fatalità. Quel perdere tutto nel momento che, con fatica, si riesce a trovare la via d’uscita, a ridare nuovamente fiducia al mondo e agli uomini (in questo caso). Una cinica visione della realtà, ma non tanto falsa in verità. Da tutto questo nascono tutta una seria di riflessioni e quesiti.

Quanto tempo perdiamo per paura, per sfiducia? Ci nascondiamo, dissimulando quello che siamo pur di non esser feriti, ancora e ancora. E quando poi si riesce ad aver fiducia e finalmente scoprirsi, ci si rende conto che è tardi, troppo tardi.
Non sono totalmente d’accordo sul quel che è raccontato nel romanzo, ma in parte, forse, è un non voler accettare una realtà comune.
Come la signora Renéè, io vivo ed ho vissuto come un riccio, chiuso profondamente in me stesso. Al di là delle motivazioni ben più complesse di quelle raccontate nel romanzo, è un fatto che pochi, forse, una sola persona conosce parte (parte) di quel che vive dentro il mio cuore.

Qui racconto tanto, ma sono e resto comunque: un anonimo. Per quanto vera posso pensar sia questa realtà, non è la realtà.
Credo che come me siano in tanti a esser chiusi, rannicchiati come un timido riccio. Lo vedo e lo leggo, e la sensazione di stare perdendo tempo, c’è, ed è assillante, perché il tempo passa e una parte della mia vita, una parte importante è andata.

Quanti ti voglio bene si negato?
Quanti incontri si evitano?
Quando poi si è pronti a non negarli più e non evitarli più, la vita ti attacca pesantemente, quasi insensatamente e quel chiedere diventa una supplica.
L’ho visto accadere alla fine di molte vite. Penso a mio padre che solo alla fine quando era malato ha implorato l’affetto. Ma era tardi oramai.
La natura umana è complessa (mai stata facile da comprendere). Pensateci? Si riesce a dare più ad un oggetto che ad un altro essere umano.
Ho visto ragazzi aver più attenzione per il proprio iphone che per le ragazze che li accompagnavano.
Non so se la realtà è veramente così? Sì!!! So tante cose, conosco tante poesia e racconti, conosco la storia, so leggere un’opera d’arte, apprezzare una pietra vecchia di 3000 anni, ma poco conosco delle persone.
E se considerate che forse ho più amici qui, che nel mondo reale, capite che riccio sono e sono stato.

Non voglio chiudere questo post con la sfiducia. Come dice scherzosamente la mia compagna: sei uomo, quindi sei superficiale, ergo non hai motivi per esser pessimista. 🙂 Mi riallaccio al Post di ieri e concludo così:

“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c’è un’alba che ci aspetta.” Khalil Gibran.

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Buona giornata a tutti e buon week and.