Sono stata nella zona centro-settentrionale, della parte del Kalahari appartenente al Botswana, nel 2006. Questa è la prima di alcune pagine dedicate a un viaggio particolarmente originale, tra i vari che ho fatto.
Premetto che quello che segue lo scrissi poco dopo avere fatto il viaggio stesso, quindi è un resoconto abbastanza corretto e non è mai stato pubblicato. La foto in copertina è di un uccellino caratteristico della regione, abbastanza comune, che è simile a un nostro corvo in miniatura, ma con la coda che si divarica, ed è chiamato “drongo”. Stranamente, a ripensarci, mi ricordo ancora di avere deciso di andare nel Kalahari chiedendomi se sarebbe stato l’ultimo viaggio in Africa della mia vita (per il momento infatti lo è stato), in quanto, come spiego, era dall’adolescenza che desideravo visitarlo.
Da quando, da adolescente, ho letto “Il grido del Kalahari” degli Owens sognavo di andarci e, per una volta nella mia vita, ho fatto le cose in regola e pianificato un minimo il viaggio e l’itinerario. In pratica, questo ha significato andare appunto nel deserto del Kalahari attrezzatissima, avendo affittato una jeep, portandomi dietro letteralmente un quintale di acqua nonché la riserva indispensabile di benzina, più vari ritrovati possibili della tecnologia in fatto di aggeggi da campeggio, ma da sola e nel pieno di una “stagione secca”, che per loro corrisponde al nostro inverno, che si è rivelata arida nel vero senso della parola.
Come spiegano tra gli altri appunto gli Owens, il Kalahari non è tutto un vero deserto, è in gran parte coperto di bassa vegetazione cespugliosa e ricco di isole di alberi; infatti, almeno nella parte settentrionale a volte piove, anche se non tutti gli anni e, quando succede, le distese aride si trasformano in praterie di erba alta. Il problema principale di questo clima variabile sono le conseguenti migrazioni degli animali: in particolare i branchi di erbivori, un tempo così abbondanti da riempire le pianure a perdita d’occhio, nei periodi di siccità si vorrebbero spostare verso la regione ricca di laghi che si trova più a nord, mentre si trovano la strada sbarrata dai “cordoni di difesa” veterinari, ovvero da dei reticoli di filo spinato che circondano gran parte dell’aerea protetta e che inizialmente avevano lo scopo di evitare il temuto propagarsi di epidemie tra il bestiame selvatico e quello domestico: c’erano già ai tempi degli Owens, ovvero negli anni ’70, e ci sono tuttora, non so se per un vero rischio di propagazione delle epidemie o se perché tra il Kalahari e le aeree protette più a nord passa una delle strade principali del Botswana e ci sono diverse zone abitate. In ogni caso, al momento del mio viaggio, oltre ai reticoli di filo spinato c’era anche il fatto che l’unico lago che si trovava abbastanza a sud perchè gli animali potessero raggiungerlo era completamente asciutto da anni, e che i pochi pozzi con pompe all’interno del parco erano tutti o quasi in via di riparazione per guasti; purtroppo, in gran parte del paese la scarsità dell’acqua costituisce un problema per gli abitanti prima che per gli animali, al punto che la moneta locale si chiama pula, che letteralmente, in Setswana, significa “pioggia”.
Con questa premessa, il Kalahari è un posto talmente incredibile da essere qualcosa di più che semplicemente bello, ed è difficile renderne l’idea, anche perché il mio è stato un breve viaggio di una decina di giorni, in cui ho potuto percorrere solo le strade sterrate più note della parte settentrionale del parco, il cui nome in Setswana è Kgalagadi; in realtà il deserto ricopre una regione enorme, estendendosi verso il sud del Botswana nonché in parte nella vicina Namibia; però, è stato un breve viaggio durante il quale mi è capitato di tutto, ed ho potuto vedere molto più di quanto sia capace di descrivere.
In particolare, ho visto le innumerevoli Pans, le distese che si riempiono d’acqua quando piove, e che nella stagione secca diventano lande di terra arida coperte a tratti da erba giallognola ma nelle quali può sembrare a distanza che vi sia ancora dell’acqua, perché c’è una forte variazione di temperatura tra giorno e notte e nelle ore più calde l’umidità che si è raccolta evapora in modo tale da creare un “effetto miraggio”; poi, mi sono trovata varie volte di fronte al fuoco vero e proprio, questo perché l’erba secca diventa così asciutta da incendiarsi per cause naturali, ed è stato affascinante ed inquietante nello stesso tempo.
Ho preso l’aereo fino a Maun, che è la principale città nel nord del paese, ed è infatti piacevole ed abbastanza grande; da lì, ci si reca anche in posti che devono essere almeno altrettanto spettacolari come il delta dell’Okawango, appena più a nord, in cui l’acqua abbonda e di conseguenza abbondano gli animali, anche nella stagione secca; io volevo invece vedere proprio il Kalahari. Il centro abitato più vicino ad una delle entrate nella parte settentrionale del parco si trova a circa 200 km a sud-est di Maun e si chiama Rakops: è piuttosto piccolo, e nell’insieme poco turistico, ma quando ci sono arrivata, nel tardo pomeriggio, si è rivelato accogliente, ed in particolare la proprietaria del supermercato locale è stata gentilissima, abbastanza da guidarmi con la sua auto ad un albergo che altrimenti non avrei mai trovato, perché era a pochi chilometri dalla cittadina ma perso nel nulla, con i suoi alti tetti a cono ed i bungalows sul retro.
I primi animali che ho visto, appena sveglia la mattina dopo, sono stati degli asini che brucavano in gruppo; il viaggio vero e proprio è cominciato così, tranquillamente, con diverse decine di chilometri di strada sterrata ed in parte sabbiosa che si snodava tra cespugli bassi, percorrendo la quale a volte sembrava di vedere un’antilope sfrecciare ai lati della macchina, ma succedeva in modo talmente rapido che non si riusciva a rendersi conto se fosse stata una realtà o meno.
Sono giunta all’ingresso, ovvero al Matswere Gate, di primo pomeriggio, un’alta entrata la cui cima in legno svettava nella distesa brulla, ed intorno qualche casa in cui abitavano i guardia-parco con le loro famiglie; ho compilato la lista dei pernottamenti previsti, che nell’insieme costituiva un itinerario già molto meno ambizioso di quello che avevo fornito all’ufficio del Department of Wildlife and National Parks di Maun appena un paio di giorni prima, quando avevo prenotato; per fortuna, comunque, nei giorni successivi sono in realtà stata libera di pernottare in qualunque sito a cui mi fossi trovata vicino al calare della notte.
La figura vorrebbe dare un’idea delle piste e delle soste possibili nella parte centro-settentrionale del Kalahari: i circuiti nel nord sono anche quelli consigliati dal DWNP ed attraversano la regione dove incontrare animali è più facile, soprattutto nella stagione secca; una deviazione possibile è rappresentata dalla visita della Motopi Pan, vicino al confine nord-ovest, tenendo conto che non ci si può fermare a campeggiare; poi, anche se il tragitto è piuttosto lungo e la pista diventa molto sabbiosa, credo valga comunque la pena di includere una sosta a Xade, l’entrata più vicina a Ghanzi, a sud-ovest di Maun, per rendersi conto di come cambia il paesaggio, con le prime vere e proprie dune, quando ci si inoltra nel centro; la zona oltre Xade, che io non ho visto, si estende fino nel vero sud del paese, ed è in questa vasta regione realmente desertica e poco accessibile che ancora vivono di caccia i boscimani, ma sono rimasti in numero relativamente piccolo, e si parla di trasferirli fuori dai confini del parco.
Continua in Kalahari B)
Tanta roba 🙂
da leggere con attenzione.
Non ho avuto modo di visitare il Kalahari, quindi non posso cogliere a pieno la tua descrizione, ma come ogni racconto aggiunge le fondamente all’immaginazione.