La fuga verso Tbilisi e le minacce di Kadyrov

Tbilisi: l'altra Georgia nel cuore del Caucaso

Le agenzie turistiche dicono che l’autunno è la stagione migliore per visitare Tbilisi, capitale della Georgia, ora però meta privilegiata dei giovani russi che scappano dell’eufemismo della mobilitazione parziale obbligatoria. Per soggiornare in Georgia (per un periodo di tempo non superiore a 360 giorni) non occorre un visto, ma quello che conta di più per gli incolpevoli in fuga è che non è concessa l’estradizione in Russia. Così russi e ucraini, accomunati dalla triste condizione di espatriati, convivono pacificamente tra loro e con gli autoctoni, i quali però, benché abbiano dimostrato d’essere ospitali, nondimeno cominciano a temere che la loro terra possa diventare terreno di rappresaglia per Putin, da cui nessuno li ha protetti quattordici anni fa.

Noi altri, che siamo al riparo dalla crudeltà più immediata della guerra, continuiamo a congetturare e segretamente a pregare un dio affinché non avvenga l’irreparabile. Tuttavia le ultime notizie non sono affatto rassicuranti: mentre Zelensky ha chiesto a Macron una dura risposta europea dopo i recentissimi attacchi russi, sinistramente il leader ceceno Ramzan Kadyrov scrive su Telegram: “Ti avevamo avvertito, Zelensky, che la Russia non aveva ancora iniziato. Smettila di lamentarti come una feccia. È meglio che scappi prima di essere colpito. Scappa. Scappa, Zelensky, scappa senza guardare l’Occidente“.

Che Dio ce la mandi buona.

Stalingrado, un capolavoro d’estrema attualità

Il 29 aprile del 1942, in un tripudio di bandiere tedesche e italiane, alla stazione di Salisburgo arrivò il treno del dittatore dell’Italia fascista Benito Mussolini.

Dopo la cerimonia di prammatica, Mussolini e i suoi accoliti si diressero al vecchio castello di Klessheim, antica residenza dei principi vescovi del luogo.

Lì, nei grandi saloni freddi riammobiliati di recente con arredi sottratti in Francia, si sarebbe tenuto l’ennesimo incontro fra Hitler e Mussolini, mentre Ribbentrop, Keitel, Jodl e altri collaboratori stretti del Führer si sarebbero confrontati con i ministri che avevano accompagnato il duce: Ciano, il generale Cavallero e Alfieri, l’ambasciatore italiano a Berlino.

I due sedicenti padroni dell’Europa si incontravano ogni volta che Hitler predisponeva una nuova sciagura nella vita dei popoli. Le loro conversazioni a quattr’occhi sulle Alpi al confine fra Austria e Italia portavano puntualmente a un’invasione, a manovre diversive di portata continentale e ad attacchi di fanteria motorizzata con relativo dispiegamento di milioni di uomini.

Quanto all’incontro di Salisburgo della fine di aprile del 1942, fu l’anticamera di una grande offensiva nel Sud della Russia.

Fra i consueti sorrisi di smalto e oro dei loro denti finti, in quei primi momenti insieme Hitler e Mussolini si dissero felici che le circostanze avessero concesso loro di incontrarsi di nuovo.

Mussolini pensò che l’inverno appena trascorso e la brutta sconfitta a ridosso di Mosca avevano lasciato il segno sul Führer: si era ingrigito (e non solo sulle tempie), le occhiaie erano più scavate, il colorito particolarmente spento e poco sano. Solo il trench era impeccabile come sempre. L’espressione torva e feroce della faccia, invece, si era persino accentuata.

Guardando il duce, Hitler pensò che di lì a cinque o sei anni sarebbe stato definitivamente decrepito, con la grossa pancia da anziano ancora più prominente, le gambe sempre più corte, la mascella più volitiva che mai. La sproporzione fra quel corpo da nano e mento, faccia e fronte enormi, da gigante, era spaventevole… Vero era anche, del resto, che gli occhi scuri e scaltri del duce non avevano perso in acume e durezza.

Parlarono dell’inverno appena trascorso. Mussolini si sfregò le mani, quasi bastasse il pensiero del freddo di Mosca a fargliele intorpidire, dopo di che si felicitò con Hitler: aveva battuto il gelo e pure dicembre, gennaio e febbraio, i tre generali migliori di tutte le Russie. Era solenne, la sua voce: con ogni evidenza le felicitazioni e il sorriso fisso, imperturbabile erano stati allenati con largo anticipo.

Ora che l’inverno era alle spalle, nulla avrebbe potuto salvare la Russia, l’ultimo nemico del «nuovo ordine» nel continente europeo, e l’offensiva ormai prossima sarebbe servita a mettere definitivamente in ginocchio i Soviet: avrebbe tolto il combustibile ai motori dell’Armata Rossa sulla terra e nei cieli, avrebbe negato il petrolio all’industria degli Urali e il carburante ai mezzi agricoli, portando con sé la caduta di Mosca. Sconfitta la Russia, anche la Gran Bretagna avrebbe capitolato.

E difatti di lì a poco passò a parlare della Russia. Hitler non vedeva e non voleva vedere che i duri scontri sul fronte orientale e le feroci perdite invernali avevano tolto all’esercito tedesco la possibilità di attaccare contemporaneamente a sud, a nord e al centro. Il piano della nuova campagna estiva era figlio solo e soltanto del suo libero arbitrio, e solo e soltanto la sua mente e la sua volontà avrebbero determinato il corso degli eventi bellici: questo credeva il Führer.

Disse a Mussolini che i Soviet avevano subìto perdite ingenti e non potevano più contare sul grano ucraino. Leningrado era sotto il fuoco ininterrotto dell’artiglieria. I paesi baltici erano stati strappati per sempre alle grinfie della Russia. Il Dnepr era nelle retrovie tedesche. Il carbone, la chimica, le miniere e la metallurgia del Donbass erano in mano al Vaterland, i caccia tedeschi volavano sopra Mosca, l’Unione Sovietica aveva perso la Bielorussia, buona parte della Crimea e le terre millenarie della Russia centrale: i russi erano stati cacciati da città antiche come Smolensk, Pskov, Orël, Kursk, Vjaz’ma, Ržev. Restava da sferrare il colpo di grazia, ma perché l’attacco risultasse davvero risolutivo, doveva essere inferto con una forza che facesse sensazione.

Verosimilmente, una tale quantità di artiglieria, divisioni corazzate, fanti, caccia e bombardieri non si era mai raccolta in un unico settore del fronte. Quella singola offensiva aveva in sé una valenza universale. Era la tappa ultima e risolutiva dell’attacco nazionalsocialista. Quella che avrebbe deciso le sorti dell’Europa e del mondo. E l’esercito italiano doveva fare la sua degna parte. Non solo l’esercito, anzi, ma anche l’industria italiana, l’agricoltura italiana e il popolo italiano tutto.

Vasilij Grossman, Stalingrado

Giusto per sottolineare che nessuno è innocente, basta guardare indietro. In qualche modo quello che accade oggi l’ha già messo in conto la storia.

Battaglia di Stalingrado - Wikipedia

Orsini: “La guerra c’è perchè la Nato è vigliacca”

Se danno 12mila euro a Orsini, noi il canone alla Rai non lo paghiamo più

Torna a Cartabianca il professore Alessandro Orsini, già al centro di polemiche che in alcuni casi hanno oltrepassato il limite, almeno secondo la sensibilità dello stesso, intenzionato a querelare il deputato Pd Romano per averlo definito “il pifferaio di Putin“. Invitato da Bianca Berlinguer a fare ancora una volta il punto sulla guerra in Ucraina, il professore ha detto con i suoi soliti toni pacati ma fermi:

La Nato prima ha provocato Putin assicurando all’Ucraina che l’avrebbe difesa, poi vigliaccamente è scappata. Ci sono 3 grandi vigliacchi: la Nato, l’Ue e gli Stati Uniti. Dobbiamo acquisire la consapevolezza che siamo grandi vigliacchi e stiamo mandando al macello gli ucraini“.

E sull’elogio riservatogli dall’agenzia Tass:

Il nemico mi percepisce come un uomo leale che dice la verità e che è disposto a riconoscere gli errori della sua parte. Per me è un grande onore, la missione profonda di uno studioso è dire sempre la verità senza paura di essere condannato o licenziato. Io non ho posizioni favorevoli alla Russia, io sono l’unico filoeuropeo: la priorità è la salvaguardia del territorio europeo e la difesa della vita dei cittadini europei“.

Poi l’affondo:

Ho sempre detto che Putin è l’aggressore e Zelensky è l’aggredito. Ho sempre condannato l’invasione. La mia analisi ha scatenato reazioni veementi per due ragioni. La prima è una ragione psicologica, le persone hanno paura che quello che dico sia vero. La gente ha paura che l’Ue abbia commesso errori gravissimi, che le nostre politiche espansive abbiano avuto un ruolo in questa crisi, che Putin non sia pazzo e che quindi siamo costretti ad assumerci responsabilità. La riflessione sulle cause è vitale per il futuro dell’Europa. Viviamo un delirio collettivo in cui vengo rappresentato come un estremista e invece sono l’unico moderato“.

Infine, infischiandosene d’apparire come un profeta di sventure, sulla svolta positiva dopo i colloqui di Istanbul tra le delegazioni di Kiev e Mosca ha affermato:

Sono scettico, Putin non può fermarsi finché non ha raggiunto il suo obiettivo. Putin ha utilizzato questo trucco anche altrove, cerca di ammorbidire gli interlocutori. Si combatte finché non avrà eliminato l’esercito ucraino dal Donbass. Putin è entrato in Ucraina con un obiettivo minimo, il Donbass, e l’obiettivo massimo, tutta l’Ucraina. Sotto l’obiettivo minimo lui pensa che sia una sconfitta: se fa la pace, tra 3 mesi può scoppiare di nuovo la guerra

Per non lasciare adito a dubbi, su una sua pagina Facebook Orsini ha scritto chiaro e tondo:

Condanno la vergognosa invasione russa e sono completamente schierato dalla parte dell’Ucraina. Difendo Zelensky e attacco Putin. Il primo è l’aggredito e il secondo è l’aggressore. Ma i russi sono miei fratelli. Io amo la Russia e il popolo russo. Non odio nessuno. Questa guerra non mi trasformerà in un uomo peggiore. La Russia e l’Italia hanno sempre avuto rapporti molto stretti. L’Italia è sempre stata il migliore alleato della Russia in seno all’Unione Europea. Oggi tutti fanno finta di non saperlo. Oggi tutti fanno finta di non ricordare che i governi italiani si sono sempre battuti per il ritiro delle sanzioni contro la Russia stabilite dopo l’invasione della Crimea del 2014 e per il ritorno della Russia nel G8. L’Italia si sta oggi trasformando in una nuova orrenda fattoria degli animali, dove il potere politico e mediatico sta prendendo il sopravvento sulla libertà individuale. Un professore universitario ha il dovere morale di difendere i principi alla base delle società aperte. Egli non deve temere nulla: né minacce, né rimozioni dagli incarichi, né licenziamenti. La prima qualità intellettuale di uno studioso è una qualità extrascientifica: il coraggio. L’Italia sia un ponte. Un ponte di pace”.

Vogliamo metterlo in croce perché, dati alla mano, dice la sua?