146. e oggi? chi ringraziamo oggi?

“grazie per il tempo che mi hai regalato ieri … quando parlo con te mi sento me stessa e vedo spazi da esplorare … tvb”
“tu mi dici che io ho una sorgente dentro che mi aiuta a superare questo periodo in cui mi sento fragile … c’è quella sorgente anche perché negli anni che reputo fortemente fecondi e strutturanti tu sei stata un faro di verità e di opportunità, di sintonia con il creato, di dolore del mio cuore che ha potuto aprirsi  con te … di lacrime che hai raccolto e messo in uno scrigno prezioso … se c’è in me questa sorgente che vedi è perché ho camminato anche diverse colline con te … grazie, dal profondo del cuore”
(Giulia a Malù, via whatsapp, 30 ottobre 2019)

Era il mezzogiorno di una fine di giugno, avevo sette anni. Sedevo a tavola con i miei genitori, pranzavamo dentro il silenzio dell’ora magica per eccellenza, l’ora che per i popoli antichi era quella della magia e dei sortilegi; l’ora in cui i Greci dicevano si manifestasse il dio Pan; Omero diceva che per un istante del mezzogiorno il giorno diventava notte e quella era l’ora riservata alle libagioni in onore dei morti; che Bernardo di Chiaravalle diceva “l’ora immobile, l’ora dell’ispirazione divina”; era il mezzogiorno, la porta attraverso la quale il mondo umano comunica col divino, il momento in cui ai vivi è concesso di accedere all’altro mondo, l’ora in cui il mondo umano e quello divino si confondono e si uniscono; l’ora magica in cui, se ci espone ai raggi del sole, si rischia di essere presi da follia e vaticinio; l’ora in cui non c’è l’ombra …
Non sapevo nulla del mezzogiorno, ma amavo quell’ora e, specialmente d’estate, io piccola e libera,  sentivo tutta la magia di quel momento.

Quel giorno la mamma aveva preparato pomodori freschi e del pesce e io ero pronta per mangiare, allegra e con la forchetta in mano … ma la forchetta rimase ferma a mezz’aria, bloccata da un pensiero, forse regalato dal mezzogiorno, e chiesi a miei genitori: “da dove viene la forchetta?”. La mamma mi guardò sorpresa e preoccupata: “dal cassetto delle posate”. “No no, da dove viene prima, prima del cassetto!” Solo dopo qualche secondo, il babbo disse: “dal negozio dove si vendono le cose per la casa”. “No” dissi ancora io “prima del negozio, prima …”.
“Su, adesso mangiamo” disse la mamma sorridendo.
Allora io cominciai a mangiare e … immaginare a ritroso, la strada che la forchetta aveva fatto per arrivare nella mia mano. Al negozio era arrivata trasportata con un camion, forse prima da un treno. Prima c’era una fabbrica dove lavoravano tante persone, e prima … la forchetta era di metallo, allora immaginai una miniera e i minatori sotto terra … Mi resi conto dell’immensità, del mondo, della fatica e dei sacrifici che c’erano dietro una semplice forchetta. Guardai il piatto, il bicchiere, la tovaglia, il cibo, la tavola, le sedie … guardai il mio mondo e mi sentii diventare immensa e felice, sentii le sconfinate multipluridiversità che stavano dietro il più piccolo oggetto e dietro il più piccolo gesto; e sentii anche un po’ di tristezza perché moltissimi di quei gesti erano di fatica sacrificio rinunce,  c’era qualcosa che non andava bene, che un momento di felicità non poteva essere costruito su tanti sacrifici.
Ma quello che più mi avvolse fu il senso di moltitudine, il canto che mi sembrò di sentire sgorgare da ogni cuore che viveva, che aveva vissuto.
Quel giorno, l’ora magica del mezzogiorno mi fece un grande regalo, si aprì la porta che connetteva il mondo umano e quello divino e compresi molte cose. Fu quel momento che indirizzò poi il mio stile di vita, i miei acquisti, la ricerca di un’essenzialità esistenziale, di una coerenza tra stile e contenuto, il fermarmi, il sostare, il camminare.
Fu da lì che cominciai ad amare i sistemi, le cose composte dalle differenze, una certa capacità di rispetto. Fu da lì, anche da lì, che il mio immaginario progressivamente si arricchì di persone di cose di fatti.
E che iniziai a pensare-dire grazie dovunque, sempre, a chiunque, a qualunque cosa.
Non tutto va bene, ci sono tante cose da migliorare; la nostra parte di mondo, il nostro stile di vita si regge sul sacrificio di molti , di troppi che intanto noi, incapaci di fare altro, possiamo ringraziare.

C’è una certa felicità nel chiedersi ‘e oggi a chi dico grazie?’ e nel rispondersi.
In questi giorni di festa, i grazie si estendono nel tempo e nello spazio, a tutte le persone che, prima di me e in ogni parte del mondo, hanno costruito le vite e la mia stessa vita, hanno fatto in modo che il presente ci fosse, si sono rese parte della splendida continuità che è la vita.

A chi prima di me, a chi insieme a me, a chi dopo di me: grazie.

” Tutto brilla nella natura all’istante del meriggio. L’agricoltore, che prende cibo e riposo; i buoi sdraiati e coperti d’insetti volanti, che, flagellandosi colle code per cacciarli, chinano di tratto in tratto il muso, sopra cui risplendono ininterrottamente spesse stille di sudore, e abboccano  negligentemente e con pausa il cibo sparso innanzi ad essi; il gregge assetato, che col capo basso si affolla, e si rannicchia sotto l’ombra; la lucertola, che corre timida a rimbucarsi, strisciando rapidamente e per intervalli lungo una siepe; la cicala, che riempie l’aria di uno stridore continuo e monotono; la zanzara, che passa ronzando vicino all’orecchio; l’ape, che vola incerta e si ferma su di un fiore, e parte, e torna al luogo donde è partita; tutto è bello, tutto è delicato e toccante.

Chi crederebbe che quello del mezzogiorno fosse stato per gli antichi un tempo di terrore se essi stessi non avessero avuto cura d’informarcene con precisione?
Fu sentimento antichissimo che gli Dei si lasciassero di tratto in tratto vedere dagli uomini. Nell’età d’oro ,dice Catullo, quando la pietà e le virtù regnavano ancora sulla terra, soleano gli abitatori del cielo discendere spesso a visitarla.

Ben tosto le apparizioni, in luogo di essere desiderate, furono temute. Gli antichi tremarono al solo immaginarsi di poter vedere un Essere di cui non conoscevano la figura, e del di cui potere avevano una spaventosa idea. Raccontavasi che Pane si era qualche volta fatto vedere agli agricoltori, i quali dopo la sua apparizione erano stati sorpresi da morte improvvisa.

Il tempo destinato al sonno, cioè quello della quiete e del silenzio, è stato sempre il più proprio a risvegliare le chimeriche idee di fantasmi e di visioni, che quasi ogni uomo ha succhiate col latte. Si tace, si è solo, si è nelle tenebre: ecco i timori panici in folla, ecco i palpiti, ecco i sudori angosciosi, l’orecchio in aria per spiare ogni romore, i sospetti, e talvolta ancora le visioni immaginarie. Se tutto ciò è proprio dei fanciulli, noi possiamo considerar come tali gli antichi volgari, allevati in una religione che dava peso ai loro errori, e autorizzava i loro spaventi. Soleasi un tempo dormire regolarmente nell’ora del meriggio dopo il pranzo. Questo costume può sembrare antichissimo, e comune anche agli Ebrei.

Può dunque credersi che siffatta consuetudine fomentasse in qualche modo la persuasione in cui erano gli antichi, che gli Dei e i Geni comparissero in singolar modo, e atterrissero gli uomini nel tempo del meriggio.

Credevasi volgarmente, a dir di S. Girolamo, che v’avessero certi Demonii particolari, chiamati meridiani, e fra gli Ebrei è commun sentimento che la voce Keteb, che si ha nel testo originale del Salmo (90, 6), significhi un Demonio fierissimo, che assalisce apertamente e di giorno, mentre gli altri meno arditi si contentano di tendere insidie di notte. Non può dedursi dalle parole del Salmista che egli credesse ai folletti o agli spiriti vaganti precisamente nel tempo del meriggio, ma bensì che Ebrei fossero persuasi della loro esistenza.

Anche le ombre dei morti riputavansi comparire e andar vagando sul mezzogiorno, come vedesi sì nei citati versi di Stazio (Thebaid., lib. IV), sì presso Filostrato, il qual narra che i pastori non ardivano nel mezzogiorno avvicinarsi a Pallene, ossia Flegra, dove giacevano le ossa dei giganti, per timore degli spettri che apparivano in quel luogo facendo uno strepito spaventevole (Heroic., cap. 3).
Quando agli Dei, dice Porfirio che nell’ora del mezzodì essi vanno passeggiando a diporto μεσημβριάζοντες, cioè, meridiantes: ovvero, come taluno ha creduto, che essi s’incamminano allora ai tempii per dormire (Porphyrius, De antro nympharum). «Quando il sole – così egli scrive – declina verso l’austro, non è lecito agli uomini entrare nei tempii. Allora passeggiano gl’Immortali. Perciò suol porsi sulla porta il segno del meriggio e dell’austro (…)».
È dunque evidente che gli antichi aveano del tempo del meriggio una grande idea, e lo riguardavano come sacro e terribile. Noi abbiamo a rallegrarci che di un pregiudizio una volta sì commune, e di cui si trovano vestigi nei libri più antichi, rimanga ora appena la rimembranza, essendo esso totalmente cancellato dalla mente dei popoli.”

(tratto da: Giacomo Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, )

s-l1600

146. e oggi? chi ringraziamo oggi?ultima modifica: 2019-10-31T21:57:45+01:00da mara.alunni

2 pensieri riguardo “146. e oggi? chi ringraziamo oggi?”

  1. “Un giorno ho visto un bambino che veniva verso di me reggendo una torcia accesa.
    – Dove hai preso la luce?- gli chiesi.
    Lui subito la spense con un soffio e mi disse:
    – Hasan, dimmi dov’è andata e io ti dirò dove l’ho presa.”
    Hasan Basri
    Se risaliamo le origini della forchetta scopriremo dov’è andata la luce, probabilmente…
    Un caro saluto Mara 🙂

    1. Grazie. E’ così vasta la vita, e la risposta del bambino la rende immensa, oltre la nostra più smisurata immaginazione. Grazie grazie di questa condivisione che mi ha molto molto emozionato e mi ha fatto conoscere molto che non sapevo.

I commenti sono chiusi