181. per-donar-si

 

babboCi riusciremo.
Si, come un riflessivo; e sì, come un’affermazione.
Ce la faremo a perdonarci di aver lasciato che ci facessero del male.
Perdonare noi stessi, sì.
Riuscire a far crescere quelle parti immature che hanno lasciato entrare l’immaturità altrui.
Ce la faremo.
E forse dopo. E forse questa è la strada. Per perdonare gli altri.

Ti ho visto disteso sul letto d’ospedale, senza più vita. La stanza era inondata di una luce bianca che prima non c’era. Nudo, solo un panno a coprire il pube e un altro intorno al collo, a tenerti la testa. Eri elegante e bellissimo con quella specie di sciarpa, e anche tu bianco di un biancore nuovo. Le braccia lungo il corpo. Così ti avevano messo gli infermieri dopo che, appena  il tuo ultimo respiro, ci avevano pregato di lasciare la stanza perché dovevano fare “delle cose”.
Dopo, entravo nella tua camera, sollevavo il lenzuolo, ti guardavo incredula, come lo sono tuttora. E tutto era incredibilmente bianco. Uscivo, restavo vicino a mia madre e mia sorella senza riuscire a dire una parola, senza una lacrima, senza più te.

Un mese e mezzo dopo, tentando di tenere i fili di un dolore senza tregua con piccoli atti di vita, entro insieme ad altre persone in uno studio di restauro. Era una sorpresa che ci facevano gli organizzatori della Scuola che frequentavo, volevano farci vedere una cosa bellissima, dicevano.
Su un tavolo lungo, un lenzuolo bianco copre qualcosa. Lo sollevano. Ecco un Cristo morto. Disteso sul tavolo, le braccia lungo il corpo, la bocca un po’ aperta. Eri tu. Mi sono fermata un po’ distante lasciando che gli altri del gruppo vedessero per primi da vicino, mentre io tentavo ancor di più di tenere i fili del mio dolore.

Corpi. Mai come quest’anno la Settimana Santa si è presentata a me come corpo, mai avevo pensato quanto così corporea e così tangibile fosse la morte di un dio e la sua resurrezione. Mai, nemmeno nel periodo in cui facevo la ricerca sulla croce. Nemmeno in tutti i numerosi anni in cui scrivevo le riflessioni da leggere in chiesa per le Via Crucis. Nemmeno quando ero follemente innamorata del mio Signore Dio.

Corpi.
“Prendete e  mangiate questo è il mio Corpo. Prendete e bevete questo è il mio Sangue.”
Lavare e baciare i piedi.
Flagellare.
Caricare una croce.
Salire un colle.
Morire.
Essere deposti tra braccia amorose che continuano ad avere cura di un corpo che non sente più.
Risorgere.
Ho immaginato che il corpo risorto sia un corpo che somma in sé tutte le differenze e che possa essere mutevole, capace di trasfigurarsi, altrimenti non mi spiego perché i discepoli non riconoscessero il loro Signore.
Essere riconosciuto da un gesto, da un fare che torna ad essere vivo, che non vuole essere dimenticato: spezzare il pane.

Dopo la tua morte, questo Venerdì Santo mi rende visibile il Cristo senza vita. Ti somiglia, babbo. Vi somigliate. 
Non rispondete. 

Ma torno a pensare al perdono.
Non lo so perché.
Corpo e perdono.

Non ho mai amato quel perdono di cui sentivo parlare, quello rivolto agli altri, a farlo cadere dall’alto su chi ritenevamo ci avesse fatto del male o su chi davvero ce lo aveva fatto. Era un perdono pieno di  orgoglio, di superiorità, un perdono seguito sempre da un “però”.
Poi il tempo, le esperienze, le letture, la vita, gli alberi, la sorgente interrata da agricoltori che volevano sfruttare anche un centimetro di terra per le loro coltivazioni invasive.
Poi tu che non ci sei più, babbo. E il tuo corpo bianco di un bianco che non avevo mai visto. Ricomposto perché lontano ormai dalla sofferenza.
E questa Settimana Santa di lontananze e solitudini e sofferenze e incredulità.
Poi tutto.
La lingua, per esempio.
Nel medioevo cambiano il prefisso al termine latino con-dono. Lo fa la Chiesa. Ci mette per”, che ha un significato di completezza col suo senso di “attraversare”, così viene detto meglio quel “rimettere tutti i peccati”, cancellarli.

Ecco, allora.
“Attraversare”, passare dentro tutte le nostre parti non cresciute e uscirne nuovi. Far crescere quelle parti impaurite, avare, colleriche, predatorie.
Morire e risorgere.

Ti sento come fossi risorto in me, babbo. La tua morte mi ha insegnato ancora di più quanto sia urgente amare.
Si sbaglia, sbagliamo. Nessuno di noi è un essere risorto-risolto-illuminato. Ma non ci si può fermare nell’errore, rimanere prigionieri in quelle parti che ci tengono sospesi immaturi fragili.

Corpo.
Per-donar-si.
Ci riusciremo. Abbiamo questo corpo per farlo, queste emozioni, questi pensieri, quest’aria, quest’acqua, questo pane.
Riusciremo a perdonarci di aver lasciato che ci facessero del male.
Poi, dopo, sarà naturale che il perdono esca a lenire l’altro.

Per il male che, invece, abbiamo fatto, non trovo parole.
Sembra impossibile, eppure facciamo del male.
E quando chiediamo all’altro perdono – se riusciamo a chiederlo- è la richiesta a noi stessi di crescere, ma le conseguenze sull’altro del nostro errore?
Sono riflessioni che turbano da sempre il mio cuore, che mi indicano di camminare senza lasciar tracce nello spazio dell’altro, ma non so, non so come è lo spazio dell’altro e quante offese e quanto dolore possa nascere da un mio passo sbagliato.

Perdonare.

Il tuo corpo bianco, babbo.
Il lenzuolo che sollevavo per guardarti.
Tu. Che non eri più tu.
La tua voce, il tuo sorriso.
La tua Via Crucis tutta percorsa senza un lamento.
Attraversare. Risorgere.
Aiutami nel mio cammino, aiutami a perdonarmi.

 

 

 

181. per-donar-siultima modifica: 2020-04-10T19:32:25+02:00da mara.alunni