184. un’occasione mancata? “ma tu, tu sei la pianta”, “l’inimmaginabile è immaginabile”

E’ questo il tempo di “tornare come prima” o progettare nuovi modi di vivere?

Guardo il mondo da lontano, come fossi su una navicella che naviga nello spazio intorno alla nostra amore Terra.
Il mio lontano è il silenzio e la solitudine, imposti ma anche da sempre ogni tanto cercati da me, per mia personale iniziativa.
La lontananza fa incredibilmente da lente di ingrandimento di cose già viste e considerate da ormai molto tempo: il nostro stile di vita -occidentale, nord del mondo, paesi più sviluppati- volto all’autodistruzione, con le nostre allegre e spensierate partecipazioni o omissioni.

Stupiscono le reazioni consolatorie e autoconsolatorie esplose in questo periodo di sollecitata prudenza, come fossimo imberbi fanciulli incapaci ancora di trarre lezioni efficaci, mature da un’esperienza nuova.
Stupiscono le iniziative dei soliti noti e che come risultato hanno quello di sollecitare ancora di più la nostra incapacità di confrontarci con l’imprevisto, la fuga in “ciò che facevamo prima”, la rassicurazione che anche se tutto cambierà resterà però tutto come prima, parafrasando il Tancredi del Gattopardo.

Come prima?

Davvero vogliamo come prima?

Davvero ci manca avere il decimo paio di scarpe o mirare ad averlo?

Buttare via un’occasione così severa ma utile per dismettere le folli dis-abitudini della vita consumistica, predatoria e ingannevole che conduciamo?
Abitudine, un abito che possiamo togliere e che invece scambiamo per pelle e per vita …

Dalla mia navicella osservo gli stili di vita, le mode, le convinzioni, i dis-valori che abbiamo lasciato radicare nelle nostre esistenze: il superfluo, lo spreco, la schiavitù.
Osservo come ogni “gruppo” teme la crisi, la chiusura, la scomparsa … ecco, molto la ‘scomparsa’ dal palcoscenico narcisistico della tragedia che chiamiamo “vita”. Ed ecco allora chi si ribella ai decreti PCM, chi parla di galera, di limitazione di diritti fondamentali, di economia che fallisce; ecco l’arietta primaverile che diventa colpevole -lei, certo, non la nostra irresponsabilità adolescenziale- di uscite insulse e azzardate, … Imprenditori, commercianti, vescovi, rappresentanti della cultura e della scuola, tutti gridano a gran voce il loro pericolo d’estinzione, le loro esigenze, le loro frustrazioni, tutto ciò che invece la vita di  prima rassicurava e protraeva.
Come non amare quel papa Francesco che, al contrario di tanti vescovi, raccomanda invece ubbidienza e prudenza, rendendo anche in questo modo l’essere umano al centro di ogni progetto? E suggerendo, anche in questo modo, una nuova via da percorrere per ridefinire i contenuti dei concetti di ‘essere umano’ e di ‘vita’? E, quindi, di una nuova economia? L’economia, così difesa a più voci, non è solo ‘questa’ economia in atto.
Come non amare chi parla di esseri umani prima che di economia (questa economia), di prudenza e non di voglie insoddisfatte, di creatività e non di incapacità di immaginarsi nuovi e rigenerarsi, di disponibilità al nuovo e non di capricciosi ‘rivoglio’ di “questo e quello per me pari sono” purché si tratti di consumare?
Consumare dimenticando ciò che siamo, il motivo per cui siamo al mondo, le capacità che sotterriamo dietro un’apericena, un vestito alla moda, una vacanza indotta che da soli non avremmo mai sognato di fare, oggetti e arredi di fugace durata: tutto ciò che diciamo “la mia vita”, “voglio vivere la mia vita”; una vita basata sullo scarto di quello che -sempre più- consideriamo come un inciampo sulla strada dell’edonismo, del neoliberismo, del nulla.

Ora il consumo ce lo portano anche direttamente a casa,  più di quanto già facessero prima le grandi aziende alla  Amazon. I piccoli si sono adeguati.  La trattoria vicino casa offre pizze e piatti pronti; il negozio d’abbigliamento all’angolo crea il gruppo WhatsApp per acquistare da casa; i piccoli generi alimentari inventano pacchetti sullo stile natalizio; le librerie sembrano voler creare nuovi canoni di riferimento per ogni scienza e letteratura …

Era un’occasione questa. Questo star soli e questo silenzio.
Certo, non siamo tutti uguali. Ma era un’occasione per tutti, specialmente quindi per chi avrebbe ancora la responsabilità di indirizzare opinioni. E l’avrebbe avuta ancora per poco, se avessimo avuto la capacità di ascoltare il silenzio. Saremmo stati capaci delle nostre scelte, se avessimo ascoltato il silenzio.
E l’annuncio dentro il silenzio:”Ma tu sei la pianta”, scrive Rilke; e la molteplicità dei “miracoli”, scrive Szymborska.
Scrivono il nuovo, non il “come prima”.

Ma questo accade anche nelle singole vite. A volte succedono cose che non prevedevamo: fatti, emozioni, sentimenti che irrompono nel già dato. Dipende da noi.
Considerarli un errore, un peccato, uno smarrimento e abortirli.
Considerarli un ‘esperienza che proviamo a vivere, per poi tornare al già conosciuto al già vissuto, rassicurati dal fatto di non aver smarrito la strada, di esserci mantenuti sulla retta via.
Considerarli una proposta vitale per uscire da una terra nota e non per questo giusta, e avventurarci verso il mondo etico che ci aspetta per essere costruito.

E così. E’ così.
Così nella vita privata come nel mondo. “Non toglieteci l’abito a cui ci siamo abituati!” è il grido attuale, quello della paura, purtroppo. Abituati dalla e nella paura?

Abituati perché?
Abituati in che modo?
Abituati da quando?

Venivano da fuori, da interessi altrui le voci delle sirene da cui non ci siamo difesi e a cui ci siamo abituati.

Piangiamo una generazione che il virus ha portato a proseguire Altrove il cammino.
Quella generazione, e anche la mia, ha conosciuto “abiti” diversi, ben diverse e semplici e umili e parche abitudini di vita.
Non è un “bel tempo antico” che piangiamo, ma una visione del mondo costruttiva seria impegnata misurata.

Fatta di pane.

Fatta di persone che sapevano fare molte cose, non solo saper usare macchine che lavorano dentro un progetto di cui non conosciamo inizio e fine e finalità.

Dalla mia navicella vedo il realizzarsi e il compiersi di tracce che apparvero nel mio mondo negli Anni Ottanta.
Il clamore accompagnò il loro diffondersi e il loro affermarsi.

Ma l’annuncio del profondo avviene nel silenzio.
Solo così si può sentire e ascoltare.

 

Ognuno di noi è costituito da irripetibili momenti: suoni, immagini, idee, miti, racconti, esperienze.
Tra le mie preferite vi è quella del momento dell’Annunciazione descritto nei Vangeli.

Un’annunciazione non è una conferma del già noto e del già dato.
Ribalta il mondo conosciuto. Sconvolge. Scandalizza. Richiede di essere seguita e non di fuggire nel mondo di prima. Un’annunciazione è un nuovo abito.
E quante annunciazioni richiede una vita perché realizzi se stessa?
E quante annunciazioni richiede il mondo per incamminarsi su strade che siano di “crescita” per tutti i suoi abitanti?

Ascolta.
C’è silenzio.
Ascolta.
Non ripetere i gesti già fatti.
Ascolta.
C’è silenzio.

 

RAINER MARIA RILKE, L’Annunciazione. Le parole dell’Angelo

Tu non sei più vicina
a Dio di noi;
siamo lontani tutti.
Ma tu hai stupende mani benedette.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
io sono il giorno, la rugiada,
ma tu, tu sei la pianta.

Sono stanco ora, la strada è stata lunga,
perdonami, ho scordato
ciò che Egli, immenso sul trono gemmato
e assiso sul sole,
manda a dire a te, che mediti
(mi ha vinto la vertigine).
Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta.
Ho steso le mie ali,
immenso nella piccola casa;

quasi manca lo spazio
alla mia grande veste.
Eppure, non fosti mai così sola,
vedi: mi senti appena;
nel bosco io sono un soffio di vento,
ma tu, tu sei la pianta.

Gli angeli tutti sono presi
da un turbamento nuovo:
certo il desiderio non fu mai
così immenso e vago.
Forse, ora s’annunzia qualcosa
che tu comprendi in sogno.
Salute a te, la mia anima vede:
tu sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta,
presto verranno ad aprirti.
Tu che sola intendi il mio canto:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.

Sono venuto a compiere
il sogno millenario.
Dio mi guarda, mi abbacina…

Ma tu, tu sei la pianta.

 

 

WISLAWA SZYMBORSKA, La fiera dei miracoli

Un miracolo normale:
l’abbaiare di cani invisibili
nel silenzio della notte.
Un miracolo fra tanti:
una piccola nuvola svolazzante,
che riesce a nascondere una grande pesante luna.
Più miracoli in uno:
un ontano riflesso sull’acqua
e che sia girato da destra a sinistra,
e che cresca con la chioma in giù,
e non raggiunga affatto il fondo
benché l’acqua sia poco profonda.
Un miracolo all’ordine del giorno:
venti abbastanza deboli e moderati,
impetuosi durante le tempeste.
Un miracolo alla buona:
le mucche sono mucche.
Un altro non peggiore:
proprio questo frutteto
proprio da questo nocciolo.
Un miracolo senza frac nero e cilindro:
bianchi colombi che si alzano in volo.
Un miracolo – e come chiamarlo altrimenti:
oggi il sole è sorto alle 3,14
e tramonterà alle 20.01
Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe:
la mano ha in verità meno di sei dita,
però più di quattro.
Un miracolo, basta guardarsi intorno:
il mondo onnipresente.
Un miracolo supplementare, come ogni cosa:
l’inimmaginabile
è immaginabile.

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184. un’occasione mancata? “ma tu, tu sei la pianta”, “l’inimmaginabile è immaginabile”ultima modifica: 2020-04-29T15:55:58+02:00da mara.alunni