ALFIO SQILLACI, Dello scrivere di sé. Fiction e autofiction. Un’analisi parziale.
Il tema è capitale in ogni letteratura, ed è intricatissimo. Di chi possiamo parlare se non di noi stessi quando ci accingiamo a scrivere? “Parliamo tanto di me”, intitolava spudoratamente un suo libro Cesare Zavattini. È la domanda che si pone chiunque abbordi la fiction, dall’ammiraglio in pensione a Luigi Pirandello: debbo o non debbo “raccontarmi” mentre racconto? E come? Deponendomi, esponendomi, interponendomi, trasponendomi, nel racconto della storia d’altri? O viceversa, parlando di altri mentre parlo di me, ossia allargando l’orizzonte sul mondo a partire dal mio angolo visuale?
C’è la scelta della dissimulazione onesta. Chateuabriand in “Mémoires d’ outretombe”, ha enunciato mirabilmente il principio: « On ne peint bien que son propre cœur, en l’attribuant à un autre». Sì, funziona così: si proietta in un personaggio ciò che noi siamo, ma anche, attenzione, ciò che “non” siamo e che “vorremmo” essere: funzione ottativa quest’ultima del personaggio e della letteratura da tenere sempre in evidenza. Io sono goffo, bruttino e indeciso a tutto? (Stendhal, definito “cet idiot” da Flaubert). La mia vita è un inferno? Eccomi proiettato in un giovane splendente, amante appassionato, ricco di charme e di una vita spericolata. Stendhal sta a Julien Sorel quanto Alfred Hitchkock a Cary Grant. Il personaggio così creato avrà un po’ di sé, di autonoma e fantastica vita propria, ma anche un po’ di me. Io sono dentro di lui e lo agisco come un burattino. Essendone il suo dio creatore egli agirà secondo le mie intenzioni soggettive che farò sì, con l’intreccio, che divengano le sue, oggettive per così dire, tali ossia dal punto di vista della logica compositiva e della coerenza interna del racconto (c’è un terzo in commedia infatti: il lettore, che verifica e giudica, che se la beve o non se la beve).
Ogni uomo, ogni donna soffre nell’avere una sola vita, una identità, un paese, una lingua, un sesso, una carriera. Il romanzo (il racconto cinematografico) è l’arte che permette a ciascuno, autore o lettore, di sfuggire alla propria vita, ai limiti della propria esistenza. L’autore gode della libertà di inventarsi le vite immaginarie che intimamente desidera. Il lettore, per parte sua, identificandosi nell’eroe, compie lo stesso lavoro di sdoppiamento… di identificazione attraverso la proiezione.
Sia Madame Bovary che Julien Sorel che Gonzalo Pirobutirro “c’est moi”. Datemi una maschera e vi mostrerò il mio volto. “Vero” volto?
Ma di chi in verità parliamo quando parliamo di noi, quando diciamo “io”? «L’io, io! Il più lurido di tutti i pronomi!…», i pronomi sono pidocchi del pensiero, sbottava Gadda nella “Cognizione”. L’Io tradisce. E il fatto che la voce narrante venga dal suo interno non è garanzia di verità. Cosa sappiamo del nostro Io? Leibniz, il filosofo amato dal cognitivo Ingegnere brianzolo, precisava nella “Monadologia” e “Discorso di Metafisica” che solo Dio ha un «concetto completo» dei singoli «io», di Paolo o Giovanni che siano. Ossia di tutta la serie completa di atti e fatti! Paolo o Giovanni non sono riassumibili come la voce “Alessandro Magno” in un lemma di enciclopedia. Sotto la voce “Alessandro Magno” infatti non troverò un registro completo di tutto ciò che ha fatto Alessandro, ma soltanto informazioni che il redattore della voce avrà considerato essenziali per distinguere Alessandro Magno da altri personaggi storici. Immaginiamo però che sia Dio stesso a redigerne la voce. Solo lui potrebbe darci tutto Alessandro, la serie completa di tutti i suoi atti e fatti, darcene la sua “ecceitas”, il suo “possibile contingente” e il suo “necessario assoluto”, il suo noumeno e fenomeno, la sua essenza e la sua storia, il suo io sincronico e diacronico.
Ma noi, che pure diciamo “io”, non abbiamo un “concetto completo” di noi stessi. E in più, essendo venuti dopo Freud e Pirandello, abbiamo piuttosto certezza della rifrazione del nostro io, della presenza nascosta del nostro sotto-io (l’Es), dell’incombenza del Super-io, della sfaccettatura dei nostri piani di coscienza, del nostro essere e apparire per noi e per gli altri, della prismaticità dell’io. Sappiamo col brianzolo Ingegnere, che l’io è come un Club, dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono. E perciò, come i redattori dell’enciclopedia di noi stessi, procediamo alla “selezione epica”, spigoliamo tra i fatti della nostra vita, fra i nostri tanti io. Ci consoliamo con l’aglietto di piccoli fatti che tentiamo di illuminare col significato della nostra storia romanzata, con lo sguardo lungo e ricognitivo su noi stessi; che è l’unico modo, però, di dare forma, coerenza e significato alla nostra intera esistenza.
C’è chi, tuttavia, temendo l’inganno del riassunto e della selezione epica si adatta a ripercorrere ogni giorno i fatti della propria vita, come fa qui Stendhal, o come farà nelle oltre 17 mila pagine del suo “Journal” Amiel. Fatica sprecata, ché seppur larga, dettagliata, minuziosa, di “estrema sintesi” dopotutto si tratta. Direbbe Julio Iglesias (pardon!) in quella valigia – il romanzo –tutto il nostro passato non ci può stare…
Solo il romanzo insomma potrà dare il concetto completo e il senso di una vita: che si tratti de “Il rosso e il nero” o della “Cognizione del dolore”. Non redigendo un diario, ma scrivendo un romanzo possiamo dire chi siamo: nella menzogna del romanzo c’è la nostra verità.
(Appunti parziali. Il testo intricatissimo e complicatissimo di riferimento per gli studiosi e i lettori curiosi è il libro di Philippe Lejeune “Le pacte autobiographique” scritto e riscritto in quasi 50 anni. La prima edizione è del 1975, il mio ebook del 1996, ma ce n’è un’altra edizione più recente in circolazione).
Dissimulazione onesta, un post che sconfessa l’abusato indossar “maschere”.