321. l’insostenibile pesantezza dei modelli

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E’ lungo da dire.
E oggi ho visto una rosa rossa fiorita. che sembra non entrarci niente, e invece c’entra eccome, è una conseguenza, una delle conseguenze.
La parola chiave della magnificente vignetta del genio Schulz è, in questo caso, “somigliano” e il concetto che sottolineo è quello espresso dal termine.
Cosa già scritta in questo mio blogghino, ma è talmente devastante che occorre ripeterla, e prenderne coscienza.
Vado velocemente.
Si apprende per imitazione e per creatività immaginativa, nonché, poi, per esperienza. Insomma, tutto ciò che costituisce l’apprendimento, è un  insieme di elementi in equilibrio tra loro.
Da tempo, l’aspetto imitativo è potenziato in maniera forte, da mezzi di comunicazione di massa, e, tra questi, quelli che comunicano con le immagini (televisione [pubblicità, trasmissioni, film], cinema, foto, ecc.) sono proprio i maggiori fautori del potenziamento dell’aspetto imitativo.
Imitativo di cosa? Di modelli proposti in ogni dove in ogni modo, soprattutto con i modi impliciti che più in profondo e velocemente arrivano alle persone, trasformate – come già detto e ridetto in questo blogghino- in consumatori, fruitori, spettatori: cioè in “figure” che imitano i modelli, chiamando tutto ciò “realtà”, “questi sono i tempi da vivere”, “moda”, “fanno tutti così”, ecc., insomma esprimendo linguisticamente l’adesione ai modelli a seconda del livello cultural-nozionistico di appartenenza, e non certo a livello di consapevolezza di ciò che sta accadendo.
L’equilibrio degli elementi che costituiscono l’apprendimento è stato fortemente alterato e sbilanciato verso l’imitazione.
La rete contribuisce anch’essa a questo sfacelo.
Questo andamento sembra non fermarsi, nonostante gli avvertimenti di chi, nel settore educativo e formativo, da tempo ha rilevato questa tendenza negativa.
Di Platone e del suo mondo ideale da tempo potremmo fare a meno. Soprattutto se, analizzando i modelli – di qualsiasi tipo e di qualsiasi epoca – ci accorgiamo che cambiano nel volgere del tempo e, attualmente, il cambiamento ha assunto una velocità vertiginosa, sulla spinta di un modello di economia che rivela sempre più i suoi limiti folli dati da una sua sopravvivenza basata sul maggiore progressivo consumo.

Le mode. Di ogni tipo.
Il consumo. Di ogni tipo.
Da denigrare e affossare chi dice il contrario. A meno che quel contrario non diventi a sua volta di moda, perché vi si intravede una possibilità di guadagno e di consumo.
Ne è un triste e doloroso esempio l’ecologia.
I pericoli insiti nel modello di vita intrapreso dopo la seconda guerra  mondiale, in Italia furono segnalati dal Club di Roma  nei primi anni Settanta del Novecento; e si creò all’epoca un movimento denigratorio, quei pericoli vennero fatti  passare come ostacoli alle “magnifiche sorti e progressive”, all’incedere di una modernità che, appunto, basava, in quegli anni, il consumismo come elemento identitario, e un modello americano come traino di questa identità, che tale non era, ma appunto, modello, imitazione. A queste imitazioni i mezzi di “imitazione di massa” hanno fatto da gigantesco megafono, mascherando con immagini mulinobiancolesche l’infimo processo in atto.
Poi, a un certo punto, sembra essere esplosa una coscienza ecologica, e per molte persone sicuramente è accaduto e accade; ma ciò che viene proposto come modello è sempre qualcosa che implementa la strada intrapresa del consumo, e questo è un elemento sicuramente più palese a chi vive da sempre in contatto con la natura.
E le rose fioriscono i primi di gennaio, e il cielo è terso, e la temperatura è dolce. E nel dopoguerra furono fatte svuotare progressivamente le campagne, e le persone furono indirizzate nelle città, nelle fabbriche. E la terra fu fatta apparire come il mondo sporco, arretrato, un mondo di cui quasi vergognarsi, il passato da cancellare; e la città e le fabbriche furono scintillate come il mondo pulito, moderno, perfetto, quello da anelare, il futuro verso cui camminare.

Ma i modelli sono pesanti da portare, sono fardelli che trasformano succhiano seccano l’identità: la fissano in uno solo degli aspetti che la costituiscono; pietrificano il suo flusso dinamico come fossero sguardi di Medusa.
I modelli, le mode, gli influencer; religioni e teologie che affossano i messaggi etici e d’amore che ne sono alla base.
Sono fardelli pesanti che omologano comportamenti perché ancor prima hanno omologato il pensiero. E ancor prima la capacità che gli esseri umani hanno di sapere e potere guardare se stessi. No, non vediamo più chi siamo; non lo sappiamo.
Montale ce lo disse: “Non chiederci la formula che mondi possa aprirti [… ] Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo,  ciò che non vogliamo”: E, comunque, già sarebbe un bel passo avanti sapere che “non sappiamo”, ma certe soglie – Montale scriveva nel 1923- sono state superate da un bel po’.
L’incertezza in cui mano a mano  siamo scivolati, non è data solo da contesti sociali, problemi di lavoro, ecc.; ma è da considerare e includere anche questo elemento, cioè il potenziamento dell’imitazione, e di imitazione di modelli negativi, limitanti. Per questo poi si arriva a parlare solo in negativo, come sottolinea Montale, in un circolo disfunzionalissimo e vizioso di crescente incertezza.

Modelli negativi, limitanti. Sì. Perché non è assoluto che non si debbano avere modelli -apprendiamo anche per imitazione, appunto- ma è da chiarire che il modello serve a suggerire un come, un processo che poi si personalizza, e non il cosa, che invece fa scomparire ciò che non è quella stessa cosa.
Ma tutto ciò che viene fatto tacere, poi parla in altro modo.
E di questo rifletteremo tra un po’.

Ed ecco allora, che ci sentiamo vivere solo se somigliamo a qualcuno a qualcosa, al cosa di qualcuno o di qualcosa.
Charlie Brown e Lucy sembrano avere coscienze stellari rispetto alle nostre, ridotte e abusate.
E forse sì, sono più veri di chi li sta leggendo.

“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
(Eugenio MontaleOssi di seppia, Torino, Piero Gobetti Editore 1925)

 

321. l’insostenibile pesantezza dei modelliultima modifica: 2024-01-04T15:46:03+01:00da mara.alunni