QUESTO POST È UN MIO PERSONALE DIVERTISSEMENT ED È MOLTO PROBABILE CHE SIA ALTERATO IL SENSO GLOBALE DEL TESTO DA CUI TRAGGO I BRANI. CHISSA’.
TESI E CONCLUSIONI DEL TESTO DA CUI SI ESTRAPOLANO I BRANI DI QUESTO POST, NON SONO DEDUCIBILI DA QUESTI STESSI BRANI CHE, NON AVENDO CITATA LA FONTE, SI CONFIGURANO INFATTI COME BARCHETTE SMARRITE IN UN GRANDE MARE, SENZA COORDINATE E SENZA CONTESTO E NON SERVONO PER COMPRENDERE IL SIGNIFICATO CHE L’AUTORE HA DATO LORO, INSERENDOLI NELLA COMPLESSITA’ DELLA SUA OPERA.
IL POST, CHE SI SOFFERMA SUL CONCETTO DEL SÉ E SI PRESENTA SENZA FONTE ALCUNA, È UN POSSIBILE SUGGERIMENTO DI RIFLESSIONE SU ALCUNI PUNTI:
. L’AFFERMAZIONE “IO SONO COSÌ, IO SONO QUESTO, IO SONO QUESTA”
. LA CIRCOLAZIONE DI FRASI DI CUI NON VIENE CITATA LA FONTE,
‘SUBLIME’ ABITUDINE DI UNA CONTEMPORANEITA’ SENZA LEGAMI E
CONTESTI E PRIVA DELLA CAPACITÀ DI ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ
. L’INTERPRETAZIONE RISPETTO AL TESTO TOTALE, E CHE UN POST COSI’ PROPOSTO TENDEREBBE A
SUSCITARE, MA CHE SI CONSIGLIA DI NON FARE 🙂
. ALTRO 🙂 🙂
” […]
Questa è dunque l’operazione compiuta da Locke a metà del XVII secolo: stabilendo l’io come riflesso della propria coscienza, aveva reso la persona, che ne era il supporto, un soggetto materiale dei diritti e dei doveri al lavoro sottomesso alla legge di Dio. Fare della persona un soggetto costituiva un doppio rovesciamento: da un lato, si trattava di ancorare la personalità al corpo (la testa) di un solo individuo, titolare dei diritti e dei doveri; dall’altro si trattava di circoscrivere questi diritti e questi doveri all’interno di un sfera del proprio, governata dalle esigenze della cura del sé. L’individuo, come lo concepiva Locke, era un lavoratore che attraverso il suo contributo personale al miglioramento dato da Dio, riceveva come ricompensa la capacità di rivendicarne i frutti e la consapevolezza che questa rivendicazione era fra i suoi diritti.
Questa figura dell’individuo, però, se poteva apparire come all’apertura di un nuovo orizzonte di libertà, in realtà realizzava il contrario: improvvisamente, dato che in quanto persona doveva essere trattato come soggetto, l’individuo veniva ridotto al sostrato materiale, che era il suo corpo. Lungi dal diventare i padrone di se stesso, l’individuo che si cura del suo sé diventava il soggetto di tutto ciò che era in grado di agire sul suo corpo, diventava una cosa soggetta a un proprio che era sempre quello di un altro, cioè il padrone della legge che organizza la devoluzione dei diritti e dei doveri.”
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Del resto Locke non ne fece mistero: il suo obiettivo principale nel definire il self come movimento proprio della coscienza era quello di assicurare che le condizioni per cui un individuo poteva essere detto identico a se stesso potevano essere finalmente determinate.
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Lungi dall’inaugurare il concetto di individuo libero e sovrano, Locke -come la maggior parte dei suoi contemporanei- propose uno scenario filosofico che autorizzava l’annullamento di ogni libertà e sovranità nella pura e semplice sottomissione alla propria identità, e quindi a se stesso.
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Il paradosso inaugurato da Locke è dunque il seguente: è nel momento in cui il sé si scopre come un’entità propria che esso scompare come soggetto della sua stessa identità – e dunque soggetto di coloro che ne detengono il potere di definire le coordinate perché hanno il controllo sul corpo che ne forma il sostrato.
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Nella storia della modernità occidentale, numerose istituzioni hanno accompagnato questa metamorfosi della persona in soggetto, istituzioni che avevano l’obiettivo di stringere ulteriormente il nodo dell’identità, intesa come condizione necessaria per l’esercizio di una forma di capacità, sia essa giuridica che politica. La prima di queste fu l’istituzione del nome, che da segno di identità legato alla genealogia in epoca romana assunse gradualmente lo stato di garante dell’identità,
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La Rivoluzione, le diverse restaurazioni e le Repubbliche la confermarono: la questione dell’identità era diventata abbastanza seria da richiedere l’attuazione di ciò che poteva provarla, ovvero stabilirla.
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L’idea di istituire documenti di identità per tutti i cittadini di una data nazione è emersa solo gradualmente – cioè nel momento in cui, alla fine del XIX secolo, la questione di cosa sia una nazione sembrava essere diventata la domanda più importante che le autorità responsabili potessero porsi.
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Avere un’identità è sempre stata una condizione dell’esistenza; essere se stessi si basa sull’avere una personalità […]. Ciò significa che esistere significa soprattutto nell’esistere per le autorità che hanno il potere di riconoscere se un individuo è qualcuno o nessuno – o meglio: se un individuo è effettivamente la persona stessa, la persona che dice di essere, ma di cui non si può dire che lo sia veramente. Non c’è quindi identità personale se non è provata;
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La firma, ma anche la fotografia, l’antropometria e più tardi le impronte digitali: questo fu il repertorio elaborato nel corso degli anni dai primi responsabili dei primi servizi di “identificazione” delle varie forze di polizia dell’Occidente, per garantire la loro missione. L’obiettivo era quello di far confessare agli individui, anche contro la loro volontà, chi fossero ovvero quale nome poteva essere usato per collegare i vari tratti dell’identità che erano rilevanti per stabilirla, che venivano poi raccolti in un unico incartamento.
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Alcune di queste caratteristiche erano antiche (lo stato civile, la data di nascita, ecc.); altre erano nuove, come per esempio la nazionalità, e tutte finirono per produrre le identità che pretendevano di provare: per molto tempo, nessuno avrebbe pensato che appartenere all’autorità di una nazione potesse far parte del ‘sé’. L’identità moderna è anche questo: una performance amministrativa.
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La celebre tesi di Taylor in Le radici dell’io secondo cui ogni ontologia porta in sé l’insieme dei valori che permettono a un individuo di situarsi nel mondo, si dimostra quindi corretta, ma in un modo che il filosofo canadese non aveva previsto: quello del carattere poliziesco dei valori in questione. L’ontologia non è il discorso dell’essere; è il discorso del dover-essere – il discorso dell’incarnazione materiale, nel corpo, della volontà di controllo che le grandi categorie filosofiche di sé, di persona o di soggetto comportano. Essere è essere registrati; prendersi cura di sé, come è ormai consuetudine in Cina, preoccuparsi del ‘credito sociale’ che condiziona la capacità di ogni individuo di muoversi, di acquistare una proprietà o anche di trovare un lavoro – essendo l’identità una testimonianza automatica della virtù. Essendo il mio stesso che mi è proprio, il sé è anzitutto il proprio dell’insieme dei tratti la cui composizione singolare mi designa e che permette di provare che sono proprio io, che il mio io è davvero il mio sé, che è davvero il se stesso del sé-in-persona. Il discorso della cura di sé, lungi dal costituire l’orizzonte di una sorta di padronanza dell’individuo stesso, è l’organizzazione specifica, da parte di ogni individuo, della resa di questa padronanza di fronte a coloro che circoscrivono il valore dei tratti che definiscono il sé – dall’aristocrazia greco-romana ai padroni del lavoro del capitalismo contemporaneo. non c’è differenza, da questo punto di vista, tra la morale antica cara a Foucault, il pensiero del self sviluppato da Locke e gli esercizi di crescita personale […]: tutti non hanno mai avuto altro obiettivo che la concentrazione dell’individuo all’interno dei limiti del soggetto. In ogni caso, prendersi cura di sé assume di volta in volta l’aspetto di una modalità di esercizio della disciplina, quella di un corpo da cui ci si attende che si comporti in un certo modo, regolato fino ai dettagli in apparenza più intimi. Per dirla in un altro modo, la cura di sé è l’investimento totale dei corpi da parte di una preoccupazione per l’identità o la medesimezza sotto forma di una specie di servizio militare; un addestramento al servizio di ciò che si è arrogato il potere di decidere, di riconoscere chi è chi, chi è il sé. Quando Louis Althusser, in un celebre testo dedicato agli ‘Apparati ideologici di Stato’, evocava il riflesso del voltarsi quando si sente dire ‘Ehi tu, laggiù’, non diceva altro: l’ ‘interpellazione del soggetto’ che ha luogo quando si viene chiamati è in effetti una sottomissione. Non c’è alcun soggetto se non l’interpellato.
Niente testimonia meglio questo allineamento tra il sé e la polizia del nuovo genere letterario che è apparso recentemente nel mondo della crescita personale: quello dell’anticrescita personale, dei manuali per non doversi più prendersi cura di sé e finalmente accontentarsi di ‘essere se stessi’.
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E’ vero che, per Freud, la distinzione all’interno del soggetto delle tre istanze dell’Io, dell’Es e del Super-Io […] doveva portare a qualcosa di simile a un ordine coerente. La meccanica delle nevrosi che distribuisce le incomprensioni e le contraddizioni inconsce tra le diverse istanze della topica del soggetto è una meccanica spiegabile, per cui è sempre possibile conferire un significato, anche se oscuro, alle transazioni intime con le quali ciascuno cerca di cavarsela come meglio può. Ma questo orizzonte di coerenza o consistenza implica anche l’assunzione di una tesi decisiva: che guardare il soggetto umano come un che di compatto ha come unico risultato quello di ignorare il modo in cui sono distribuite le forze che cercano di imporgli il loro posto.
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Ciò che la psicoanalisi ha rivelato è che se l’Io non è più padrone in casa propria, è perché una serie di altri padroni hanno preso il suo posto, tirando i suoi fili da luoghi che resteranno per sempre inaccessibili.
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Lo scenario proposto da Freud era quindi paradossale: da un lato, offriva a coloro che lo avrebbero seguito la possibilità di liberarsi da secoli (o persino millenni) di pensiero sul ‘sé’; ma dall’altro, faceva poco più che sostituire una fortezza con un’altra. Essere un soggetto implicava sia una liberazione dalla prigione dell’essere, sia il riconoscimento che questa liberazione era essa stessa solo un momento in un processo più ampio di radicamento delle vite degli individui nel territorio contraddittorio della psiche.
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Credere di essere ciò che si è, insegna la psicoanalisi, significa smarrirsi nella madre di tutte le illusioni; in realtà, non si è ciò che si è; si è ciò che non si è – un non-sè, un non-io, un non-essere che segna il fallimento abissale di tutti i tentativi di sottoporre il sé a un regime di esercizio. Da questo punto di vista, la psicoanalisi è il contrario assoluto di qualsiasi forma di crescita personale, sia che si inserisca nell’orizzonte delle pratiche d ‘cura di sé’ care a Foucault, sia in quello del self-help […] Lo sviluppo di un essere umano non è lo sviluppo della sua persona, ma lo sviluppo della sua assenza – o comunque della sua frattura in tutta una serie di istanze sulle quali è inutile pretendere di esercitare un qualsiasi controllo.
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Cosa possiamo imparare da tutto questo? Forse la seguente lezione: che, per una serie di pensatori che vengono dopo la psicoanalisi […], anche se considerato come merda, cacca, carogna o porcheria, ci deve essere un soggetto in quanto condizione logica del vero. […] Il soggetto è una necessità.
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Senza l’effetto del soggetto, è impossibile attribuire una dimensione di verità all’effetto che emerge; è impossibile collegare ciò che appare e ciò che questo apparire comporta, ciò che accade e le conseguenze di ciò che accade; senza l’effetto del soggetto, la verità resta senza effetto tout court. Perciò è possibile dire che -in assenza dell’altro- il soggetto è l’effetto del vero – e quindi che il vero, se è vero, trova il su destino nella ‘porcheria’ con cui è fatto, poiché in quanto soltanto effetto, il soggetto è tutto ciò che la persona produce in effetto: il soggetto è l’effetto che fa il vero. […] considerare il soggetto come l’effetto dell’evento sembra poter condurre soltanto qui: nel circolo logico dell’effetto che è l’effetto di ciò che fa.
Di questo anello logico che forma un nodo tra le dimensioni dell’essere, del soggetto, del sé e della verità, è senza dubbio Lacan che ne ha proposto ancora una volta la definizione più rigorosa, sotto forma di una citazione inaspettata alla fine del suo famoso saggio […]: ‘Nel ricorso da noi privilegiato del soggetto al soggetto, la psicoanalisi può accompagnare il paziente fino al limite estatico del ‘Tu sei questo‘ [‘Tu es cela‘], in cui gli si rivela la cifra del suo destino mortale: ma non sta al solo nostro potere di esperti in quest’arte il condurlo al momento in cui comincia il vero viaggio.’
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‘Tu es cela‘, ‘Tat twam asi‘: questa frase è il mantra ripetuto alla fine di ogni verso di una parte decisiva della Chāndogya Upaniṣad dove il grande saggio Uddalaka Aruni spiega a suo figlio Svetaketu le lezioni più importanti da meditare per raggiungere finalmente jñāna, la conoscenza.
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Ora, secondo i testi della tradizione vedanica, la più seria, la più pericolosa di queste illusioni, quella da cui ogni brahman deve guardarsi se vuole un giorno raggiungere la realizzazione dell’ātman non è altro c he il sé.
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Eppure ātman può anche essere tradotto come ‘sé’ – ma a differenza del sé che ci farebbe rivolgere lo sguardo verso noi stessi, verso il nostro interno la nostra esistenza, il ‘sé’ coinvolto nell’ ātman è un sé dell’esterno, un’esteriorizzazione del sé.
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Perché è con questo che dobbiamo riconciliarci: con la dimensione dell’impossibile che attraversa tutte le ossessioni che il pensiero occidentale non smette di custodire – e di cui le tradizioni dell’estremo Oriente, che siano l’induismo, il buddhismo o le grandi scuole cinesi e giapponesi, non ne hanno mai avuto bisogno.
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sulla base dell’affermazione incauta che il soggetto è davvero il soggetto, che il sé è il sé, l’io è l’io e l’essere è l’essere, e che basta accettarlo. Solo che questo è proprio ciò che è inaccettabile – è ciò che resiste a tutti i nostri tentativi più o meno volontari, più o meno consapevoli di ‘accettare’ ciò che siamo, poiché non siamo nulla che possa essere accettato. Come Uddalaka spiegò a Svetaketu, non ha senso perdere tempo cercando di risolvere l’enigma di ciò che siamo, poiché siamo soltanto quell’enigma – solo l’asi – il ‘così’ che, nella sua semplicità, segna il luogo della nostra impossibilità. Essere impossibile: questa potrebbe essere una definizione accettabile dell’essere in quanto attraversa sia l’ontologia psicoanalitica che l’orizzonte vedantico della conoscenza – essere impossibile, come quando diciamo di un bambino che non riesce a stare fermo che è ‘veramente impossibile’. Di fatto, il soggetto è colui che non sa stare al suo posto – o meglio, colui che, per stare al suo posto, nel suo luogo, nel suo topos, smentisce che si tratta di un luogo in senso stretto, ovvero uno spazio in cui starebbe come un proprietario sta su una terra su cui possiede dei diritti. Il luogo del soggetto è sempre altrove, da qualche altra parte; non è un luogo proprio, ma al contrario il luogo di uno spossessamento
[…]
Ancor più del luogo di un”estasi’ che rivelerebbe la “cifra” del soggetto, è possibile parlare di una liberazione dal suo attaccamento permanente a quello che sarebbe il suo luogo proprio – che si chiami ‘sé’, ‘coscienza’, ‘io’ o ‘merda’. Questa liberazione, inoltre, è già avvenuta; il soggetto non è mai prigioniero del suo caput, come voleva Locke (e tutti coloro che, dopo di lui, pretendevano di relegare il sé al cervello, più di quanto lo fosse dei movimenti della sua coscienza – o del lavoro che ci aspettava che facesse. L’idea di lavoro, che Locke considerava come l’orizzonte di realizzazione dell’individuo che poteva rivendicare come proprio ciò che ne risultava, è un’idea che non ha altro scopo se non quello di inscrivere il corpo della persona nello spazio di imperfezione richiesto dalla polizia dello sviluppo personale. Come ci ha ricordato Mark Alizart, c’è un legame sostanziale tra l’affermazione del valore del lavoro e il perseguimento di un programma di riforma dei corpi – il programma di riforma nato con la rivoluzione evangelica e che ora trova la sua sintesi nel workout, nella ginnastica come lavoro. Dietro la cura di sé, si nascondeva infatti il lavoro del sé – in quanto il lavoro è l’unica pratica riconosciuta capace di legittimare un proprio […] Istituendo il ‘Tu sei questo’ vedico come termine ad quem della rivelazione psicoanalitica, Lacan ha spazzato via questo orizzonte di perfezionamento attraverso il lavoro
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Contrariamente a quanto voleva il famoso apoftegma nietzschiano (tratto da Pindaro) i pensatori cinesi non si preoccupavano di ‘diventare ciò che sono’, quanto piuttosto di essere ciò che diventano – cioè di dissolvere ciò che è possibile dire dell’essere nelle circostanze del divenire. Forse dovremmo anche andare oltre e sostenere che il cuore del pensiero cinese dell’oblio di sé, al contrario del pensiero greco della cura di sé, consiste nello stabilire che non c’è altro orizzonte possibile per l’individuo se non quello di essere il divenire tout court
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Piuttosto che parlare di ‘essere’ chiunque, dovremmo parlare di ‘può-essere’ chiunque, così come Nicola Cusano, a metà del XV secolo, parlava di possest per designare la possibilità di tutto così come si trova implicato in Dio.
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E’ possibile dire che c’è un ‘può-essere’, e che questo può-essere, dispiegandosi ovunque, si dispiega indifferentemente in qualsiasi cosa – sebbene sia proprio questa indifferenza a garantire che qualsiasi cosa sia ogni volta qualcosa.
C’è un può essere chiunque: per quanto possa sembrare strano, per quanto possa sembrare deludente, questa è la massima che riassume nel modo più esaustivo ciò che accade quando ci si libera dal sé in favore di una pratica di incontro che si svolge interamente nelle circostanze. Improvvisamente, il linguaggio ereditato da quasi due millenni di storia del pensiero svanisce come un brutto sogno: no, non siamo mai ‘stati’ una persona; no, non abbiamo mai ‘avuto’ un sé; no, non abbiamo mai avuto a ‘disposizione’ una coscienza. L’unica cosa che siamo sempre stati o che abbiamo avuto è ciò che ci rende soggetti – nel doppio senso che i poteri hanno bisogno di un soggetto per dispiegare i loro strumenti, e che è anche come soggetti che si rende visibile l’inesistenza del luogo dove quei poteri pretendono di operare. Dal pensiero greco alla psicoanalisi, la storia dell’interesse della filosofia per ciò che costituirebbe il proprio di ogni persona è dunque la storia di un’autodistruzione organizzata – l’autodistruzione del soggetto che, dalla sua posizione di soggezione, osserva i poteri passargli accanto.
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Solo il potere è interessato a lavorare sul sé o agli esercizi del sé, perché solo il potere ha bisogno degli esseri performanti – cioè di soggetti che soddisfano la disciplina di un perfezionamento che li pone per sempre sotto il controllo di padroni che hanno la capacità di decidere i criteri di questa perfezione. Il diventare può-essere chiunque, invece, non richiede nessun esercizio, nessun lavoro, nessuna condizione; del divenire è possibile programmare soltanto l’incondizionalità, il fatto che ci sarà divenire e che starà a chi lo attraversa accompagnarlo o dargli un senso. Tale accompagnamento, tuttavia, è colmo di potenze che speta a ciascuno esplorare senza sapere bene dove porteranno, ma sapendo che condurranno da qualche parte, che questo ‘da qualche parte’ non sarà altro che il richiamo di una qualche altra parte, sempre altrove.
E’ proprio questo richiamo che la storia dell’identità ha costantemente cercato di rendere inudibile, da quando il sé si è imposto a scapito di tutte le altre istanze, di tutte le altre strategie, che avrebbero potuto preservarne l’insistenza, la presenza, la risonanza. Considerando che la posta in gioco del sé era, nel movimento della coscienza, qualcosa come l’identità di un individuo considerato come persona, Locke ha lasciato in eredità a questa storia uno strumento del potere di cui stiamo solo cominciando faticosamente a liberarci.
[…]
Nella logica dell’identità, si ha solo un’identità identica a coloro che la condividono – quindi non si ha alcuna identità, si è, dal punto di vista delle qualità, solo una copia perfetta di tutti coloro che, pur rivendicandola come propria, condividono questa qualità. Il discorso dell’identità è un discorso di clonazione:
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L’ontologia è insostenibile: è il luogo di una contraddizione permanente, che essa è capace di risolvere solo se accetta di aprirsi alla comprensione che ‘essere’ ha senso soltanto nel dislocamento operato da un verbo copulativo – e non nella marchiatura dell’identico. Se l’operazione dell’essere è l’operazione della copula, allora l’essere è la categoria insostenibile su cui si infrange ogni possibile identità, ogni possibilità di somiglianza, a favore di una fluttuazione generale che poggia sul divenire, sugli incontri e sulle circostanze. Essere è divenire, perché l’essere non è mai essere -mai del tutto, mai nel modo sognato da chi ritiene che l’idea di essere permetterebbe loro di definire le linee di demarcazione che determinano gruppi più o meno costituiti, di cui sarebbe possibile, per coloro che ne possiedono la chiave, dire la verità.
[…]
Dobbiamo dunque farla finita con noi stessi, perché dobbiamo farla finita con tutto ciò che poggia sull’idea che saremmo qualcosa per garantire che non siamo qualcos’altro, che non cominciamo a vagare fuori dai cardini ontologicici che formano le frontiere politiche del possibile.
[…]
Nulla è impossibile, infatti, tranne ciò che è irragionevole
[…]
Nulla è impossibile, tranne l’impossibile.”
porre attenzione anche a certe trasmissioni televisive
che fanno passare come sinonimi ‘identità’ e ‘lavoro svolto’