E’ lungo da dire.
E oggi ho visto una rosa rossa fiorita. che sembra non entrarci niente, e invece c’entra eccome, è una conseguenza, una delle conseguenze.
La parola chiave della magnificente vignetta del genio Schulz è, in questo caso, “somigliano” e il concetto che sottolineo è quello espresso dal termine.
Cosa già scritta in questo mio blogghino, ma è talmente devastante che occorre ripeterla, e prenderne coscienza.
Vado velocemente.
Si apprende per imitazione e per creatività immaginativa, nonché, poi, per esperienza. Insomma, tutto ciò che costituisce l’apprendimento, è un insieme di elementi in equilibrio tra loro.
Da tempo, l’aspetto imitativo è potenziato in maniera forte, da mezzi di comunicazione di massa, e, tra questi, quelli che comunicano con le immagini (televisione [pubblicità, trasmissioni, film], cinema, foto, ecc.) sono proprio i maggiori fautori del potenziamento dell’aspetto imitativo.
Imitativo di cosa? Di modelli proposti in ogni dove in ogni modo, soprattutto con i modi impliciti che più in profondo e velocemente arrivano alle persone, trasformate – come già detto e ridetto in questo blogghino- in consumatori, fruitori, spettatori: cioè in “figure” che imitano i modelli, chiamando tutto ciò “realtà”, “questi sono i tempi da vivere”, “moda”, “fanno tutti così”, ecc., insomma esprimendo linguisticamente l’adesione ai modelli a seconda del livello cultural-nozionistico di appartenenza, e non certo a livello di consapevolezza di ciò che sta accadendo.
L’equilibrio degli elementi che costituiscono l’apprendimento è stato fortemente alterato e sbilanciato verso l’imitazione.
La rete contribuisce anch’essa a questo sfacelo.
Questo andamento sembra non fermarsi, nonostante gli avvertimenti di chi, nel settore educativo e formativo, da tempo ha rilevato questa tendenza negativa.
Di Platone e del suo mondo ideale da tempo potremmo fare a meno. Soprattutto se, analizzando i modelli – di qualsiasi tipo e di qualsiasi epoca – ci accorgiamo che cambiano nel volgere del tempo e, attualmente, il cambiamento ha assunto una velocità vertiginosa, sulla spinta di un modello di economia che rivela sempre più i suoi limiti folli dati da una sua sopravvivenza basata sul maggiore progressivo consumo.
Le mode. Di ogni tipo.
Il consumo. Di ogni tipo.
Da denigrare e affossare chi dice il contrario. A meno che quel contrario non diventi a sua volta di moda, perché vi si intravede una possibilità di guadagno e di consumo.
Ne è un triste e doloroso esempio l’ecologia.
I pericoli insiti nel modello di vita intrapreso dopo la seconda guerra mondiale, in Italia furono segnalati dal Club di Roma nei primi anni Settanta del Novecento; e si creò all’epoca un movimento denigratorio, quei pericoli vennero fatti passare come ostacoli alle “magnifiche sorti e progressive”, all’incedere di una modernità che, appunto, basava, in quegli anni, il consumismo come elemento identitario, e un modello americano come traino di questa identità, che tale non era, ma appunto, modello, imitazione. A queste imitazioni i mezzi di “imitazione di massa” hanno fatto da gigantesco megafono, mascherando con immagini mulinobiancolesche l’infimo processo in atto.
Poi, a un certo punto, sembra essere esplosa una coscienza ecologica, e per molte persone sicuramente è accaduto e accade; ma ciò che viene proposto come modello è sempre qualcosa che implementa la strada intrapresa del consumo, e questo è un elemento sicuramente più palese a chi vive da sempre in contatto con la natura.
E le rose fioriscono i primi di gennaio, e il cielo è terso, e la temperatura è dolce. E nel dopoguerra furono fatte svuotare progressivamente le campagne, e le persone furono indirizzate nelle città, nelle fabbriche. E la terra fu fatta apparire come il mondo sporco, arretrato, un mondo di cui quasi vergognarsi, il passato da cancellare; e la città e le fabbriche furono scintillate come il mondo pulito, moderno, perfetto, quello da anelare, il futuro verso cui camminare.
Ma i modelli sono pesanti da portare, sono fardelli che trasformano succhiano seccano l’identità: la fissano in uno solo degli aspetti che la costituiscono; pietrificano il suo flusso dinamico come fossero sguardi di Medusa.
I modelli, le mode, gli influencer; religioni e teologie che affossano i messaggi etici e d’amore che ne sono alla base.
Sono fardelli pesanti che omologano comportamenti perché ancor prima hanno omologato il pensiero. E ancor prima la capacità che gli esseri umani hanno di sapere e potere guardare se stessi. No, non vediamo più chi siamo; non lo sappiamo.
Montale ce lo disse: “Non chiederci la formula che mondi possa aprirti [… ] Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: E, comunque, già sarebbe un bel passo avanti sapere che “non sappiamo”, ma certe soglie – Montale scriveva nel 1923- sono state superate da un bel po’.
L’incertezza in cui mano a mano siamo scivolati, non è data solo da contesti sociali, problemi di lavoro, ecc.; ma è da considerare e includere anche questo elemento, cioè il potenziamento dell’imitazione, e di imitazione di modelli negativi, limitanti. Per questo poi si arriva a parlare solo in negativo, come sottolinea Montale, in un circolo disfunzionalissimo e vizioso di crescente incertezza.
Modelli negativi, limitanti. Sì. Perché non è assoluto che non si debbano avere modelli -apprendiamo anche per imitazione, appunto- ma è da chiarire che il modello serve a suggerire un come, un processo che poi si personalizza, e non il cosa, che invece fa scomparire ciò che non è quella stessa cosa.
Ma tutto ciò che viene fatto tacere, poi parla in altro modo.
E di questo rifletteremo tra un po’.
Ed ecco allora, che ci sentiamo vivere solo se somigliamo a qualcuno a qualcosa, al cosa di qualcuno o di qualcosa.
Charlie Brown e Lucy sembrano avere coscienze stellari rispetto alle nostre, ridotte e abusate.
E forse sì, sono più veri di chi li sta leggendo.
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
(Eugenio Montale, Ossi di seppia, Torino, Piero Gobetti Editore 1925)