Com’è morta Darya Dugina, giornalista e politologa e figlia dell’ideologo di Vladimir Putin, Alexander Dugin, e chi l’ha uccisa? Sui media russi oggi emergono nuovi particolari sulla morte della donna, che ha perso la vita nell’esplosione della propria auto a Bolshiye Vyazemy, nella periferia di Mosca. Secondo quanto afferma la polizia russa – citata dall’agenzia Tass e ripresa dal quotidiano Izvestija – la bomba installata sull’auto della Dugina sarebbe stata innescata a distanza. «Ora è stato accertato che la bomba sull’auto di Dugina è stata innescata a distanza. Presumibilmente, l’auto è stata monitorata e il suo movimento è stato seguito», ha detto una fonte della polizia.
L’obiettivo era il padre Alexander
L’auto sulla quale viaggiava Dugina era una jeep di proprietà del padre: è presumibile che il vero obiettivo dell’attentato non fosse dunque Darya, ma suo padre Alexander, da tempo ritenuto uno dei politologi più vicini al presidente russo Putin, e con qualche legame anche con i leader populisti nei Paesi occidentali. Per il momento, affermano i responsabili delle indagini, si seguono «tutte le piste» sui possibili mandanti ed esecutori dell’attentato: ma fonti filorusse e alcuni media governativi hanno già puntato il dito contro l’Ucraina, che ha risposto negando ogni coinvolgimento.
Padre e figlia dovevano rientrare dalla tenuta di Zakharovo, sede di un convegno sul tema della ‘tradizione’ al quale sabato sera era intervenuto il filosofo. Inizialmente, hanno raccontato i testimoni, i due avevano deciso di rientrare a Mosca sulla stessa automobile, ma all’ultimo momento c’è stato un cambio di programma: il padre Alexander è salito su un’altra vettura e Darya si è messa alla guida di una Toyota Landr Cruiser per far ritorno da sola nella capitale. Cinque minuti dopo, l’esplosione, mentre l’auto percorreva l’autostrada Mozhaisk a tutta velocità nei pressi del villaggio di Bokshiye Vyazemy, 20 chilometri a ovest di Mosca. Residenti locali hanno riferito che la vettura ha preso fuoco mentre era ancora in corsa per poi schiantarsi contro una barriera.
Le prime immagini diffuse sui social hanno mostrato le fiamme, frammenti dell’auto sparsi sull’asfalto e un uomo, apparentemente lo stesso Dugin, accorso sul luogo della tragedia, che osserva la scena con le mani tra i capelli. Gli investigatori parlano per ora solo di un omicidio «premeditato su contratto». Ma non si sbilanciano né su chi possano essere i sicari né, soprattutto, i mandanti. Denis Pushilin invece, capo dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, nel Donbass, ha apertamente accusato Kiev, definendo i dirigenti ucraini «vigliacchi infami» e «terroristi».
Per il suo sostegno pubblico all’operazione militare russa, Darya Dugina, come il padre, era oggetto di sanzioni varate dalle autorità americane e britanniche. Secondo Londra, Darya era «una fautrice di alto profilo della disinformazione» di Mosca. Mentre il Dipartimento del Tesoro americano la indica come caporedattore del sito United World International, che gli stessi Usa ritengono sia di proprietà di Yevegny Prigozhin, stretto alleato di Putin. Dopo essersi laureata alla facoltà di Filosofia dell’Università statale di Mosca, Darya Dugina aveva cominciato a collaborare con media filogovernativi impegnati nel sostegno all’immagine del governo russo all’estero, tra cui la televisione Russia Today. Aveva inoltre fornito contributi a siti conservatori sotto lo pseudonimo di Darya Platonova.
Alexander Dugin, chi è il politologo vicino a Putin
«Una guerra santa contro l’Anticristo e il satanismo» rappresentato dal «moderno sistema di valori occidentali»: Alexander Dugin ha definito così l’invasione russa dell’Ucraina, «una questione di essere o non essere» che la Russia farà di tutto per vincere, «anche fino a una collisione nucleare». In Occidente si è guadagnato l’appellativo di ‘Rasputin di Putin’, o anche di ‘cervellò dello zar, perché nei discorsi del leader del Cremlino le parole d’ordine di Dugin sono sempre più frequenti. A cominciare dal concetto di ‘Nuova Russia’ per indicare i territori ucraini da «liberare», oppure i ripetuti richiami all’ortodossia russa che lo zar sbandiera facendosi immortalare in chiesa e presentandosi come paladino della cristianità e della tradizione.
Non mancano le sortite in Italia del filosofo padre della ‘Quarta Teoria Politica’ (scavalcando fascismo, comunismo e liberalismo) che nel 2018 ha benedetto il governo gialloverde. «Ha vinto Salvini, che con le sue felpe e le sue magliette ha contribuito a far smetter di demonizzare il populismo, e anche i Cinque Stelle. Insieme a loro ha vinto il popolo, in questa nuova lotta contro le élite per ritrovare la propria identità», disse allora. La «grande simpatia» per il leader leghista, che Dugin aveva intervistato a Mosca nel 2016, è però durata poco. «La sua trasformazione in senso atlantista e liberale è un peccato, perché ha perduto la dimensione del vero populismo», commentò Dugin un paio di anni fa, deluso per «l’influenza della destra liberale Usa su Salvini». In una delle ultime uscite il nuovo Rasputin aveva indicato in Giorgia Meloni la nuova favorita, per le sue critiche alle misure anti-Covid e la distanza «dalle politiche fallimentari del globalista e liberale Draghi»: «Ho un presentimento, si farà strada», il vaticinio.
Dugin, 60 anni, figlio di un ufficiale dell’intelligence sovietica, arrivò alla ribalta delle cronache russe all’inizio degli anni ’90, in pieno disfacimento dell’Urss. All’epoca scriveva sul quotidiano di estrema destra Den, dove nel 1991 pubblicò il suo manifesto: ‘La grande guerra dei Continenti’. Teorizza che la Russia sia «un’eterna Roma» che ha il compito di combattere il materialismo e l’individualismo dell’Occidente, «eterna Cartagine» da radere al suolo. Poi fondò il partito nazional-bolscevico, assieme al rocker della letteratura russa Eduard Limonov, un mix di elementi ideologici fascisti e comunisti per superare entrambi. Tanto che la bandiera dell’organizzazione era una falce e martello in un cerchio bianco su sfondo rosso, una sorta di svastica comunista insomma.
Nel 1997 il suo ‘The Foundations of Geopolitics: The Geopolitical Future of Russià diventa un bestseller, così popolare da essere venduto anche nei supermercati. Indica, aprendo la strada agli ingegneri del caos, gli strumenti per destabilizzare l’Occidente, Stati Uniti in testa: disinformazione e soft power. «L’Eurasia e il cuore della Russia rimangono teatro di una nuova rivoluzione. Il nuovo impero euroasiatico verrà costruito sulla base del principio fondamentale del nemico comune: il rigetto dell’atlantismo, del controllo strategico americano, il rifiuto di consentire ai valori liberali di dominarci», scriveva.
Nel 2002, due anni dopo l’ascesa di Putin al Cremlino, battezza la nascita del partito ‘Eurasia’, che attira molti esponenti dell’entourage del nuovo zar. Nel 2014 è in prima linea nel sostegno ai separatisti filorussi del Donbass, ma i suoi proclami incendiari sono giudicati all’epoca eccessivi, soprattutto quando fa appello al «massacro» degli ucraini, e gli costano un ruolo prestigioso all’Università statale di Mosca, dalla quale viene cacciato. Ciononostante, Dugin diventa ospite fisso dei talk-show in tv, la prova secondo molti dell’ampio consenso di cui gode ai piani più alti del Cremlino.