Andrea

I gradini smussati dall’uso secolare portavano al piano nobile di un edificio risalente ai primi del Novecento, suddiviso in due appartamenti e un seminterrato nascosto alla curiosità di chi vi si recava in visita. Ai miei occhi il punto di forza dell’intero stabile era costituito dal terrazzo che s’apriva su uno scenario mozzafiato; singolare, poi, che quel fazzoletto di mattoni non si adombrasse fino al tramonto, sfidando la logica che avrebbe richiesto una reazione contraria, giacché più edifici lo tiranneggiavano su due lati. Per una decina d’anni, quando il tepore invernale del primo pomeriggio era ispessito dalla mollezza dell’afa, presi l’abitudine di passare da Andrea per il caffè. Ricordo che a volte, mentre mi inerpicavo su per le scale, mi raccomandava di lasciare fuori la diffidenza metafisica, ma in realtà avrebbe potuto risparmiarmi l’afflato affettuoso giacché in sua presenza mi abbandonavo ad audacie discorsive indifferenti alla logica.

“Non è già abbastanza portare questa immagine di cui ci ha rivestito la natura? Bisognerà anche permettere che di questa immagine rimanga un’altra immagine, più duratura della prima, quasi si trattasse di una cosa degna di essere vista?”

Andrea non era un uomo brusco però si sa, in un mondo governato dalle convenzioni, chiunque abbia l’ardire di manifestarsi senza orpelli è considerato un arrogante, uno da blandire. Quando lo conobbi, in una sera d’estate che aveva l’aria di passare sotto traccia, come ogni anno si era trasferito nella masseria di famiglia dove riceveva gli amici, e gli amici degli amici, a ogni ora del giorno riuscendo ad assemblare tipologie umane che, fuori contesto, avrebbero inalberato un vessillo di scoraggiante altezzosità pur di assicurarsi la tutela del proprio status. In una delle leggendarie cene al chiaro di luna arrivai con la faccia di chi presenzia non per convinzione ma per irresolutezza; niente lasciava presagire quello che sarebbe avvenuto di lì a un mese: diventammo amanti, forse per una banale combinazione astrale o forse per l’ingerenza di una deità in vena di conciliare personalità contrapposte.

***

In autunno, prima che la luce del pomeriggio cedesse al metamorfico delle tenebre, quando eravamo liberi dagli impegni di lavoro passeggiavamo per il centro storico di Noto le cui facciate barocche, altere nella loro fissità, sembravano farsi un punto d’onore di non partecipare al flusso di vita che precedeva l’ora di cena. Quell’intimità pomeridiana con Andrea mi era più cara di quanto non lo fossero le notti traslucide di umori e parole della cui infruttescenza dubitavo: aveva goduto allo stesso modo con le altree per quanto tempo avrebbe trovato la mia sensualità imprescindibile? Non era un domandare ozioso perché il sesso, a cui siamo tutti debitori per il solo fatto di essere al mondo, ha un modulato che lo apparenta alla transitorietà, mentre la comunione di coscienze, quali eravamo noi due durante quelle passeggiate, non presenta alcun carattere di indefinitezza essendo in tutto simile a un monolito consacrato da liturgia millenaria.

Andrea parlava molto e io rapita lo stavo ad ascoltare come succede sempre quando qualcuno ti tocca il cuore; tuttavia, di tanto in tanto, mi estraniavo a fantasticare, ma rinserravo le fantasie più audaci in un angolo della mente perché è di pudore che s’ammantano i sogni.

***

La drammatizzazione nel sangue e la leggerezza nel cuore: questo eravamo stati fino all’alba dei quarant’anni Andrea ed io. Ci eravamo nutriti di schermaglie cervellotiche e di notti di eccessi di cui il giorno dopo parlavamo con levità, al riparo da interpretazioni simil-freudiane che lasciavamo a chi non ne aveva di proprie. Ma su un punto ci eravamo giurati intransigenza: poiché era la transitorietà la cifra del nostro rapporto dovevamo tenerlo a mente. Infatti, il nostro fu un addio sobrio. Riuscimmo perfino a sorridere.

Andreaultima modifica: 2024-05-02T12:13:13+02:00da piovepiano

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