Il piacere di Albertine

In ogni caso, qualunque fosse la natura delle modificazioni intervenute da qualche tempo nella sua vita (…), un cambiamento ancora più sbalorditivo si produsse in lei quella stessa sera, non appena le sue carezze m’ebbero condotto alla soddisfazione di cui certo s’avvide e ch’io temetti, anzi, potesse provocarle il piccolo moto di repulsione, e di pudore offeso, avuto da Gilberte in un momento analogo, dietro il boschetto di lauri ai Champs-Èlysées.

Accadde esattamente il contrario. Già nel momento in cui l’avevo fatta sdraiare sul mio letto e avevo cominciato ad accarezzarla, Albertine aveva assunto un atteggiamento che non conoscevo, di buona volontà docile, di semplicità quasi puerile. Cancellando dal suo volto ogni abituale pretesa o preoccupazione, l’attimo che precede il piacere – simile, in questo, all’attimo che segue la morte – aveva, per così dire, restituito ai suoi tratti ringiovaniti l’innocenza della prima età. In effetti, ogni persona il cui talento venga messo improvvisamente in gioco diventa modesta, diligente e incantevole; soprattutto se, grazie a questo talento, sa darci un grande piacere, ne è a sua volta felice, vuole darcelo davvero completo. Ma nella nuova espressione di Albertine c’era qualcosa di più del disinteresse e della coscienza, della generosità professionali: una sorta di dedizione convenzionale e repentina; e non era solo alla propria infanzia, ma più in là, alla giovinezza della sua razza, che aveva fatto ritorno. Ben diversa da me, che non avevo desiderato niente di più che un appagamento fisico, infine ottenuto, Albertine sembrava convinta che sarebbe stato, da parte sua, in un certo senso grossolano credere che il piacere materiale non fosse accompagnato da un sentimento morale e segnasse la fine di qualcosa. Lei che poco prima aveva tanta fretta, adesso – sicuramente perché pensava che i baci implicano l’amore, e che l’amore prevale su ogni altro dovere – quando le ricordavo il suo pranzo rispondeva:

“Ma via, cosa volete che m’importi? c’è tutto il tempo”.

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Le donne un po’ difficili

Abbiamo visto una donna, semplice immagine nello scenario della vita, profilarsi come Albertine sullo sfondo del mare; ed ecco che possiamo, quell’immagine, staccarla, posarla accanto a noi, ed esaminare a poco a poco il suo volume, i suoi colori, come se l’avessimo messa dietro le lenti d’uno stereoscopio. È per questo che solo le donne un po’ difficili, quelle che non riusciamo subito a possedere, che non sappiamo nemmeno, in principio, se potremo mai possedere, sono davvero interessanti. Perché conoscerle, avvicinarle, conquistarle, è far variare di forma, di grandezza, di rilievo l’immagine umana, è una lezione di relativismo nell’apprezzamento d’un corpo, d’una vita di donna, che è bello poi rivedere quando ridiventa una silhouette senza spessore nello scenario della vita. Le donne che incontriamo per la prima volta da una mezzana non sono interessanti, perché rimangono invariabili.

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Il ritorno di Albertine

All’improvviso, senza ch’io avessi sentito suonare, Françoise aprì la porta, introducendo Albertine che entrò sorridente, silenziosa e grassoccia, contenendo nella plenitudine del suo corpo, pronti perché continuassi a viverli, venuti sino a me, i giorni passati in quella Balbec dove non ero più ritornato.

[…]

Ma adesso si faceva fatica a riconoscerla. Liberi dal vapore roseo che allora li alonava, i suoi lineamenti avevano acquistato un risalto scultoreo. Aveva un altro viso o, meglio, aveva finalmente un viso; il suo corpo era cresciuto. Restava ben poco, ormai, della guaina che l’aveva avvolta e sulla cui superficie, a Balbec, la sua forma futura si disegnava appena.

[…]

Contrariamente al normale svolgimento delle sue vacanze, quell’anno Albertine arrivava direttamente da Balbec, e c’era stata, perdipiù, molto meno a lungo del solito. Era parecchio tempo che non la vedevo. E poiché non conoscevo, nemmeno di nome, le persone che frequentava a Parigi, non sapevo niente di lei durante i periodi in cui non veniva a trovarmi.

[…]

Questa volta, tuttavia, certi segnali sembravano indicare che qualcosa di nuovo, nella sua vita, fosse accaduto. Ma, forse, se ne doveva semplicemente inferire che all’età che aveva allora Albertine si cambia molto rapidamente.

[…]

C’erano, in lei, novità più attraenti; sentivo, nella stessa graziosa fanciulla ch’era venuta a sedersi accanto al mio letto, qualcosa di diverso, e nelle linee per il cui tramite, nello sguardo e nei tratti del volto, si esprime la volontà abituale, un cambiamento di fronte, una semiconversione, come se fossero andate distrutte le resistenze contro le quali m’ero schiantato a Balbec, la sera ormai lontana in cui formavamo una coppia simmetrica ma inversa rispetto all’attuale, perché allora era lei ad essere coricata e io accanto al suo letto.

[…]

Certo, non ero affatto innamorato di Albertine: figlia della nebbia che regnava oltre i vetri, poteva solo soddisfare il desiderio dell’immaginazione che il nuovo tempo aveva risvegliato in me e che era una via di mezzo fra i desideri cui vengono incontro le arti della cucina e quelle della scultura monumentale, giacché mi faceva sognare, insieme, sia di mischiare alla mia carne una materia diversa e calda, sia di attaccare in un qualche punto al mio corpo disteso un corpo divergente…

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

David Hamilton | missi

Proust “voyeur”

Che alle finestre della Recherche il Narratore indugi spesso sull’altrui è noto: un’esperienza voyeuristica alla quale difficilmente egli si riesce a sottrarre. Spiare gli interni degli altri è già faccenda peccaminosa di per sé ma, nel romanzo, questo atto dischiude una precisa atmosfera di crimine, effondendo al cuore della narrazione – soprattutto nei volumi centrali – un inconfondibile clima noir, specchio non solo di un genere letterario, ma anche della storia culturale tra l’Otto e il Novecento.

Da principio, dunque, Marcel fa semplici esercizi di voyeurismo, che sono però il preludio all’atmosfera criminosa vera e propria che si avvertirà in seguito. Esempio lampante di questi iniziali atti da voyeur è la scena di Montjouvain. Lì, il Narratore, fermo davanti alla casa del defunto Vinteuil, all’interno vi distingue Mademoiselle Vinteuil con un’ambigua amica. Da subito, le due donne, con reticenze maliziose e falsi scrupoli, discutono dell’opportunità di chiudere la finestra per non essere spiate; il dialogo termina con: «[…] quand même on nous verrait ce n’en est que meilleur […]». E il Narratore vede – spia – attraverso quella finestra la scena di amore lesbico che si correda di sadismo, dal momento che Mademoiselle e l’amica consumano l’atto davanti alla foto del padre Vinteuil messa apposta in bella vista, fantasticando anche di sputarci sopra. Solo allora «Mlle Vinteuil, d’un air las, gauche, affairé, honnête et triste, vint fermer les volets et la fenêtre».

Molti altri potrebbero essere gli esempi di voyeurismo: come quando Marcel – durante il secondo infernale soggiorno nella località marina di Balbec – spia anche l’equivoco Barone di Charlus, mentre flirta e poi consuma l’atto sessuale con Jupien, nella bottega di quest’ultimo. Il Narratore cita la finestra di Montjouvain mentre narra gli atteggiamenti dei due e accenna alle sue proprie affinate tecniche di spionaggio.

Tali atti – che si moltiplicano nel corso della narrazione – iniziano quindi con il piacere di guardare senza essere visto: è questa l’aspirazione ad un esercizio di potere che bene si adatta all’indole possessiva del Narratore, per cui egli prova il «[…] senso di pienezza e di forza che deriva dal constatare che l’altro è in potere del nostro sguardo».

Di lì a poco si consuma la scena allusivamente omosessuale del ballo di Albertine e dell’amica androgina Andrée. Questa volta il Narratore non spia – non vede neanche bene – e la scena è commentata e spiegata dal medico Cottard, che gli fa notare scientificamente i gesti ambigui delle due, ma è sempre con la metafora di un vetro, guadagnato di straforo, che si esprime Marcel: «j’entends la chose vue par moi, de mon côté du verre». Egli cerca, in molte altre occasioni, di catturare occhiate oblique attraverso gli specchi, sprofondato tra vetri e fessure. E, alla fine, egli si siede

[…] près de la fenêtre […]. Je n’avais même pas pensé à fermer les volets […]. Je me rappelai l’exaltation que m’avait donnée, quand je l’avais aperçue du chemin de fer, le premier jour de mon arrivée à Balbec, cette même image d’un soir qui ne précédait pas la nuit, mais une nouvelle journée. Mais nulle journée maintenant ne serait plus pour moi nouvelle, n’éveillerait plus en moi le désir d’un bonheur inconnu, et prolongerait seulement mes souffrances, jusqu’à ce que je n’eusse plus la force de les supporter.

Dalle finestre non entra più alcun paesaggio, né alcuna novità, ma la riedizione ossessiva della scena lesbica di Montjouvain, con l’angoscia di vederci implicata Albertine. La perversione di spiare l’altrui diventa ossessione quando si concentra su di lei. Albertine è la sua amante, sospettata di essere potenzialmente lesbica e traditrice, ma è anche colei che rende più eccitante lo spionaggio, essendo il personaggio sfuggente per eccellenza.

Albertine è un être de fuite, la cui caratteristica base è l’indeterminatezza. Ella ha mille facce, anche animalesche e, in particolar modo, feline, spesso selvagge o, a volte, opportunamente docili; un corredo di indefinizione che si estende ai suoi comportamenti: ha qualità opposte e intercambiabili, spesso entrambe valide, fanciulla di buona famiglia borghese e insieme bugiarda frequentatrice di compagnie equivoche.

A queste metamorfosi non corrisponde una sua evoluzione psicologica, come sarebbe normale: con il procedere della storia, Albertine cambia sempre ma non si sviluppa. Le qualità che la caratterizzano e i volti che mutano non sono il risultato delle sue esperienze e non ci danno indicazioni sul suo pensiero. Ella è una sorta di volto vuoto, pronto a mutare secondo le circostanze, e dunque – di per sé – è un personaggio assente, seppure, paradossalmente, tra i più rappresentati. Alla base di tale assenza c’è un tratto profondo: per tutto il racconto, Albertine non si esprime quasi mai direttamente, molto di rado, infatti, manifesta pensieri ed opinioni e, quando lo fa, non si ha la certezza della verità del suo discorso. Albertine «[…] mente per principio, ed è sincera suo malgrado […]». Ella si sottrae quando ha appena promesso di restare, nega le accuse che le sono mosse, ma non dà la sua parola per promettere il contrario. Con lo svolgersi della trama essa nasconde le proprie azioni, si contraddice, confessa il falso, si traveste per uscire; emblematicamente così, in genere, risponde: «“Albertine pouvez-vous me jurer que vous ne m’avait jamais menti?” Elle regarda fixement dans le vide, puis me répondit: “Oui, c’est-à-dire non […]”». Albertine non c’è e non si può comprendere perché non parla e, quando lo fa, confonde. Ella è il malinteso e il mal detto, lo sfocato, «[…] fille de la brume du dehors […]».

Già nei Guermantes Marcel riconosce che è proprio la fatale inafferrabilità a rendergli Albertine così attraente. E questa attrazione suscita subito il desiderio di vederci chiaro:

On a vu une femme, simple image dans le décor de la vie, comme Albertine, profilée sur la mer, et puis cette image on peut la détacher, la mettre près de soi, et voir peu à peu son volume, ses couleurs, comme si on l’avait fait passer derrière les verres d’un stéréoscope.

Che in tale investigazione lo sguardo giochi un ruolo decisivo è fuori di dubbio. Guardare, d’altronde, è un atto che si adatta perfettamente all’indole ostinata del Narratore e a quella in absentia di Albertine, se ci rifacciamo a queste considerazioni di Starobinski:

Il y a, dans la dissimulation et dans l’absence, une force étrange qui contraint l’esprit à se tourner vers l’inaccessible et à sacrifier pour sa conquête tout ce qu’il possède. […] La fascination émane d’une présence réelle qui nous oblige à lui préférer ce qu’elle dissimule [….]. Notre regard est entraîné par le vide vertigineux qui se forme dans l’objet fascinant.

J. Starobinski, L’œil vivant. Essais: Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, Paris, Gallimar

Dunque il fascino di questo vuoto, che promette senza mantenere, è associato allo sguardo – regard – che

ne désigne pas primitivement l’acte de voir, mais plutôt l’attente, le souci, la garde, l’égard, la sauvegarde, affectés de cette insistance qu’exprime le préfixe de redoublement ou de retournement. Regarder est un mouvement qui vise à reprendre sous garde. L’acte du regard ne s’épuise pas sur place: il comporte un élan persévérant, une reprise obstinée, comme s’il était animé par l’espoir d’accroître sa découverte ou de reconquérir ce qui est en train de lui échapper.

Da tali premesse si sviluppa tutto il rapporto tra il Narratore e Albertine. Vinto dal bisogno di verità e di possesso, davanti alla vertiginosa assenza di lei, corroso dalla gelosia, Marcel spende quasi tutta la sua ricerca che si traduce nel tentativo di possedere totalmente l’amata, apprestandosi a vivere il suo proprio inferno sentimentale e sprofondando in un clima maniacale. Il voyeurismo iniziale è dunque solo l’avvio e l’indizio di un nuovo sguardo che il Narratore posa su Albertine: quello dell’investigazione pura.

Dopo il tormentato soggiorno a Balbec, la convivenza del Narratore e Albertine a Parigi si apre in un’atmosfera torbida in cui Marcel, sostenuto dalla gelosia e spinto dall’ansia di rivelazione e possesso, affina le sue tecniche investigative «[…] dans la voie terrible des investigations, de la surveillance multiforme, innombrable […]».

M. Lavagetto, Ancora sul guardare/essere guardati.

Il Narratore guarda Albertine, e la guarda in modo da volerla bloccare, inquadrare; e così, spesso, la presenza/assenza di lei si muove attorno alle finestre, che incorniciano e che vorrebbero svelarne i segreti o che vorrebbero imprigionarla. Il Narratore è diventato «una spia e una spia che non esita a immaginarsi nei panni di un Boero o di un agente segreto».

Dietro le finestre, Albertine è imprigionata in questo cadre di sospetto, nella casa parigina di Marcel, in cui «[…] c’était une convention de notre vie commune, comme je craignais les courants d’air, qu’on n’ouvrit jamais la fenêtre […] et elle fut persuadée que c’était de ma part une manie […]». Con una finestra chiusa comincia La Prisonnière e, dietro le imposte scure dell’abitazione, la storia assume un sapore poliziesco e delinquenziale.

In quest’atmosfera, i caratteri di Albertine mutano e la gatta selvatica dell’adolescenza sembra diventare qui «comme une bête domestique», ben adattata alle regole del suo padrone che si avvicinano – sadomasochisticamente – alla riduzione in schiavitù. Ella, infatti, vive in semi-segregazione in una stanza a venti passi – il particolare è indice di ossessione – dalla camera del Narratore, dietro tende sempre tirate, e non può più uscire da sola. La precauzione è spiegata con la necessità di difendere la sua onorabilità, visto che la giovane convive con Marcel senza esserne la moglie.

In quanto padrone, Marcel si prende dunque molto sul serio, solo che, nella sottile trama dei suoi calcoli, a sfuggirgli sono cose macroscopiche: permette che Albertine esca proprio con l’amica Andrée, di cui gli pare di essere diventato confidente, arrivando anche a chiedersi, narcisisticamente, se lei non sia innamorata di lui. Mentre si dilunga in interrogatori e, con una certa retorica, sospira sulle possibili menzogne – per cui «[…] il est facile à une femme adroite d’avoir l’air de ne pas voir, puis cinq minutes après d’aller vers la personne qui a compris et l’a attendue dans une rue de traverse, et en deux mots de donner un rendez-vous» – e non si rende conto del fatto lampante che le due non escono per negozi, ma che, con tanto di permesso, vanno alla Butte Chaumont, luogo notoriamente malfamato dell’epoca. Ignaro egli dice anzi d’ «avoir en soi un préfet de police, un diplomate à claires vues, un chef de la Sûreté»; niente meno. Marcel non si rende conto che ha nella sua stessa casa alcuni accessori vistosi e allusivi che compaiono attorno ad Albertine, come i nuovi anelli con simbologie che la legano a qualcuno. Riesce poi quasi a sorprendere la giovane e l’amica Andrée in flagrante – nella sua stessa casa – ma si fa chiudere fuori con una scusa banale e accetta spiegazioni incredibili, il tutto calcando la mano sulla sua propria attitudine di sottile indagatore: «J’en serais réduit pour toujours, comme un juge, à tirer des conclusions incertaines d’imprudences de langage qui n’étaient peut-être pas inexplicables sans avoir recours à la culpabilité».

«Elle usait, non par raffinement de style, mais pour réparer ses imprudences, de ces brusques saute.

È lunga e complessa, per il protrarsi di tutto questo volume, la filologia inquisitiva sul linguaggio di Albertine. È con lucida folle freddezza che il Narratore scompone e compara i discorsi di lei, la quale ogni tanto dà spiegazioni a posteriori sul suo comportamento, ogni tanto glissa facendo l’ingenua. E certamente il picco più alto di questo sistema di indagini – giocato sull’ambiguità linguaggio – lo si ha quando il Narratore comincia a riflettere e a interrogare Albertine sul suo rapporto con l’attrice omosessuale Léa, che aveva sorpreso, a Balbec, in un gioco di sguardi con lei, allo specchio. È stupefacente la scientificità giurisprudenziale con la quale il Narratore analizza la testimonianza di Albertine: «Malheureusement pour moi, quand Albertine émettait une affirmation de ce genre, ce n’était jamais que le premier stade d’affirmations  différentes. Peu après la première, venait cette deuxième […]» e così via, il discorso viene analizzato in quattro fasi distinte in cui egli registra impassibile le contraddizioni. Esperto in procedure d’interrogatorio, sa che, qualora gliele avesse fatte notare, ella avrebbe ancora abilmente cambiato versione. Il Narratore moltiplica questi interrogatori, spesso anche ingegnosamente e prestando attenzione a tutte le particelle del discorso, tendendo tranelli e mentendo lui medesimo. In un vertiginoso gioco di dissimulazione arriva a mettere in scena lucidamente la loro separazione per costringerla, almeno in ultimo, ad ammettere le sue colpe; cosa che non gli riesce mai. E a sostegno dei suoi interrogatori, egli conduce anche – diciamo – indagini sul campo. Marcel nomina esplicitamente la pratica processuale dei recoupements, ovvero dei confronti incrociati per stabilire la verità dei fatti, si avvale delle testimonianze oculari che gli offrono personaggi minori – suoi aiutanti – come la cameriera Françoise o il portiere Aimé di Balbec. Usa le fotografie nella loro funzione strettamente identificativa: dà ad Aimé una foto di Albertine perché sia riconosciuta, per le indagini che gli commissiona a Balbec sul tempo del loro soggiorno là; riceve foto e analizza i vestiti e gli atteggiamenti di coloro che sono ritratti, per cui l’identità si traduce in un «extrait algébrique».

Davanti al lettore che diventa giuria, il Narratore chiede comprensione, cercando di toccare le corde dell’emotività: «Si le lecteur n’en a que l’impression assez faible, c’est qu’étant narrateur je lui expose mes sentiments […]». Egli sa bene che dalla ricerca poliziesca della colpa è passato a compiere il crimine vero e proprio: «[…] cette vie qu’eût reconnue si cruelle pour moi et pour Albertine quiconque eût connu mes soupçons et son esclavage […]»: una schiavitù di cui egli è il principale colpevole. Ed evoca coscientemente gli ambienti chiusi e bui di Delitto e Castigo di Dostoevski, che doveva essere, riflette, un po’ criminale come i suoi eroi, com’è lui stesso.

Quando si consuma questa prima ammissione di colpevolezza, nell’angusta atmosfera della Prisonnière, la fuga di Albertine non può che essere annunciata con il gesto inequivocabile di spalancare la finestra: «Tout à coup, dans le silence de la nuit, je fus frappé par un bruit en apparence insignifiant mais qui me remplit de terreur, le bruit de la fenêtre d’Albertine qui s’ouvrait violemment» e dalla frase: «Cette vie m’étouffe, tant pis, il me faut de l’air!».

D’ora in poi – dopo la scomparsa di Albertine, che prima scappa e poi muore – il Narratore diventa pienamente cosciente della sua stessa immoralità. Non più poliziotto, è egli stesso addirittura denunciato e tenuto sotto controllo dalla polizia per corruzione di minore, una giovane lattaia con cui si è intrattenuto. Tutto il volume di Albertine disparue è una resa incondizionata alla propria natura criminale ed è allora che egli riconosce a sé il fatto di essere stato «[…] le plus apathique quoique le plus douloureux des policiers». È qui, soprattutto dopo la morte di Albertine, che il Narratore scopre le sue proprie incompetenze pratiche nonostante gli interrogatori e le laboriose indagini sulle parole di lei: la verità viene a galla, pezzo dopo pezzo, attraverso lettere rivelatrici e molteplici confessioni altrui. Certo, alla fine, la verità si rivela: è tutto il peggio che si poteva immaginare.

La storia di Marcel ed Albertine è un ammasso di confessioni mancate e colpe, in un generalizzato stato criminale; la rappresentazione di questo amore si svolge attraverso le tappe dell’inquisizione, della punizione, della criminalizzazione, come abbiamo visto. Questo dipanarsi della storia è profondamente legato al mondo reale d’inizio secolo in cui il romanzo nasce, nel quale il controllo, la legalità, la criminalità assumono valori peculiari, anche rappresentati dal nascente genere noir.

Innanzi tutto, nella cultura del periodo, non è una giustificazione di poco conto quella che dà il Narratore per spiegare la segregazione di Albertine, infatti l’irregolarità del loro legame – fuori dal matrimonio – è una condizione avvertita come estremamente disonorevole.

La famiglia è istituzione, pietra di paragone su cui misurare le devianze altrui che spaziano dalla solitudine, specie quella femminile, al concubinaggio. Cellula base dello stato ottocentesco, la famiglia organizza forme di controllo capillare nello spazio della casa, quella del focolare, della proprietà privata: «un microcosmo percorso da tortuose frontiere» e sorretto da usi e costumi comuni che si ispirano alla privacy, al decoro e al pudore. Oggetto fondamentale del controllo dei parenti e poi direttamente dello Stato è l’adolescente, inteso in questo momento come potenzialmente criminale; famoso all’epoca è il testo di Duprat, sintomo di una mentalità diffusa: La criminalité dans l’adolescence. Causes et remèdes d’un mal social actuel (1909). Secondo questo pensiero, l’instabilità dell’adolescenza, il suo «bisogno d’agire irrefrenabile» avvicina il giovane alla possibilità di compiere azioni di ogni tipo, dunque anche delittuose; si diffondono così norme e precetti di controllo da applicare in famiglia. Mentre, a livello più istituzionale, crescono in Francia internati e pensionati in cui i giovani dovrebbero trovare disciplina. L’ideologia della famiglia ottocentesca, del pudore e della modestia, ha come punto centrale il contenimento della vivacità: ciò che si diffonde è una vera e propria “filosofia della segregazione”che se si riversa sull’adolescente – dinamico per eccellenza – e, ancora di più, si stringe attorno all’adolescente di sesso femminile.

Da questo punto di vista, non stupisce che Albertine, adolescente e gatta selvatica di Balbec, dotata del dinamismo della natura e della gioventù, sia ovviamente segregata, controllata in tutte le sue azioni e le sue parole. Se poi aggiungiamo che stiamo parlando di una donna lesbica, allora il senso della prigionia di Albertine è ancora più ovvio. La lesbica è uno spettro inquietante – come nella Fille aux yeux d’or di Balzac – che turba perché oltre ad interrompere la riproduzione umana, e dunque l’evoluzione della specie, è in connessione a pratiche onanistiche, che per la donna rappresentano il vizio assoluto, e contro le quali si scatena un’intensa campagna medica che va dalla prescrizione della biancheria, all’indicazione di essere sempre in compagnia.

Naturalmente la filosofia della segregazione della società francese dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento non si esaurisce in questi celebri aspetti.

Si è detto che ci troviamo di fronte ad un periodo di controllo che si esercita certo – e, spesso, a livello familiare – sull’adolescente e sulla donna. Ma la questione è più ampia e complessa e tocca in modo collettivo l’identità personale. Il periodo tra l’Otto e il Novecento, infatti è, dal punto di vista della definizione dell’identità, di estrema tensione. Se l’esercizio del controllo da parte delle tradizioni collettive si fa forte è anche per ovviare alla confusione identitaria che il nuovo mondo industrializzato, con le sue folle riversate nelle metropoli, provoca. La tensione tra il vecchio mondo, con i suoi caratteri che discendono dal nome della famiglia, si scontra con una crescente massificazione, e tra questi due poli, la definizione dell’io individuale diventa una questione estremamente avvertita, tanto che possiamo affermare che è «durante il xix secolo che si diffonde il sentimento dell’identità personale». Con questo non ci riferiamo tanto a processi psicologici che si sviluppano per ciascuno in ogni epoca, ma ad un vero e proprio fenomeno culturale, per cui al «rischio di anonimia e di confusione, accresciuto dall’urbanizzazione» risponde «l’originalità delle propria denominazione», moltiplicata e ribadita. È, ad esempio, pratica comune ricamare il proprio nome su biancheria e grembiuli: un tentativo di riconoscere se stessi tra la folla.

Anche le istituzioni partecipano alla problematica dell’identificazione, rinnovando le tecniche di registrazione dell’identità personale. Ai rapporti di conoscenza reciproca si sostituiscono forme ufficiali di riconoscimento:

censimenti, liste elettorali, il libretto di lavoro degli operai dei militari e dei domestici, prostitute iscritte nei registri della polizia e dell’amministrazione municipale, trovatelli a cui viene attribuita una piastrina di riconoscimento; i viaggiatori, gli ambulanti, i nomadi devono munirsi di passaporto prima di compiere i loro spostamenti.

Si diffonde, dunque, l’ansia di avere identità e poterla provare attraverso carte e documenti, che non si possono non avere. Se prima della fine dell’Ottocento era possibile non sapere la propria età con certezza, dopo, con l’invenzione dei registri delle nascite, la schedatura comincia appena si viene al mondo. Il panorama che si delinea da qui in poi vede inasprire tali attività istituzionali di controllo.

Fino alla III Repubblica il dato segnaletico che indica l’identità di un soggetto si affida ai segni di riconoscimento: nei e altre particolarità della pelle, ma anche accessori come bracciali e collane. Naturalmente si tratta di un metodo estremamente impreciso che si presta alla falsificazione. A tale approssimazione vengono in aiuto le scoperte tecniche moderne, su tutte, naturalmente, la fotografia. È dal 1876 che la polizia francese comincia ad usare questo sistema identificativo, che impedisce, o rende complicata, la sostituzione di persona. Nel tempo, la foto diventa sempre più comune nelle richieste di identificazione, alla quale presto si aggiunge la necessità di provare le proprie misure del cranio. L’identità diventa così il risultato di un’ispezione, filtrata attraverso segni particolari e fotografia, inclusi nella cosiddetta scheda antropometrica; dal 1888 si aggiungono anche le impronte digitali, per cui «questa prodigiosa estensione della nozione di individualità [si verifica] di fatto attraverso il rapporto con lo Stato e con i suoi organi burocratici e polizieschi».

Lo sforzo descrittivo dell’io si avvale di nuove sinergie, come quella tra la psichiatria e la polizia. Nasce dalla fine del xix secolo l’antropologia criminale, che nel suo scientismo positivista, ha interesse per le devianze psichiche, studiate in relazione ai reati commessi. Questi non sono intesi in quanto atti sbagliati – tale concetto è più recente – ma in quanto emanazione inevitabile di menti di per se stesse – biologicamente criminali; come dire si è delinquenti, non si compiono soltanto degli atti criminali. Questa teoria è esposta, con ampia risonanza nel suo tempo, in L’uomo delinquente (1876) di Lombroso ed influenza molta parte del determinismo biologico ottocentesco a anche novecentesco.

Dunque, ciò che queste forme di controllo fanno risaltare è il problema della definizione dell’identità. È questa un’esigenza che nasce dallo scontro tra la massa e l’io, come abbiamo già detto, e che è anche riconducibile all’ideologia capitalistica: l’individuazione di un nome che corrisponde con certezza biologica ad una persona e, nel caso, la produzione certa di un colpevole, identificato e isolato da chi è biologicamente altro e civile, è sinonimo di efficienza e produttività del sistema. Le prove tangibili diventano un valore in sé.

Che poi questa definizione scientifica dell’identità venga recuperata a scapito dell’altro valore fondamentale del pudore e della privacy, crea una feconda contraddizione che stimola le perversioni del periodo: il voyeurismo, prima di tutto. Per cui, insieme al «timore della violazione dell’io e del suo segreto» c’è anche «il fantasmatico desiderio della decifrazione della personalità che si nasconde e dell’intrusione nell’intimità dell’altro», assistiamo ad un fenomeno tanto privato quanto istituzionalizzato che, da un lato, spinge alla chiusura angusta dietro tende e pareti e, dall’altro, alla sistematica rottura «di un patto di discrezione».

Questa cultura del controllo e dell’identificazione, che si muove sul reperimento di prove certe alla ricerca della produttività di un risultato e sul filo dello spionaggio e del voyeurismo, «si manifesta con l’emergere del personaggio del detective in cerca di tracce». È questa figura la prova «della differente sensibilità, lui che considera come punto nodale dell’azione poliziesca non l’identificazione del colpevole, ma la sua stessa complessa e confusa individualità». Culmine della cultura in cui nasce, il detective è la figura sintomo del tempo moderno che si è descritto, ed è in questo periodo che essa si diffonde nell’immaginario collettivo ed anche nella sua declinazione letteraria.

Anticipato da The murders in the Rue Morgue (1841) di Poe, ambientato in una Parigi criminale, il genere poliziesco prende l’avvio, con Dupin, poliziotto dilettante che dotato di humour e capacità deduttiva risolve i misteri con il puro e semplice procedimento intellettivo, affidandosi unicamente alle potenzialità della logica. L’interesse del genere che comincia con Dupin sta nel fatto, del tutto originale rispetto alle novelle horror, che, invece di soffermarsi sui crimini e sulla loro efferatezza, si diffonde nell’esame del procedimento intellettivo ed investigativo. Dall’americano Poe, anni dopo, prende spunto il francese Gaboriau, che modella sul personaggio reale di Vidocq – un criminale che diventa nel 1811 capo della Sûreté francese – il suo celebre detective Lecoq, nato con L’Affaire Lerouge (1866). Egli conosce il crimine in quanto ex criminale, dotato di precisione e maniacalità nevrotica, diplomatico, opportunista, elegante. Il personaggio ha una fama straordinaria, che riecheggia nel celebre A Study in Scarlet (1887) del geniale Conan Doyle. È questo il primo giallo di una lunga serie che racconta le storie del celebre Sherlock Holmes. In tale intrigante primo racconto delle sue avventure, Holmes è presentato a poco a poco da Watson; in uno dei dialoghi iniziali, egli con audacia sconfessa i suoi stessi padri. Così discorre con il suo aiutante:

A. Conan Doyle, A study in scarlet, (1887), London, Penguin, 2001, p. 5.

Have you read Gaboriau’s works? I asked. Does Lecoq come up to your idea of a detective? Sherlock Holmes sniffed sardonically. Lecoq was a miserable bungler, he said, in an angry voice; he had only one thing to recommend him, and that was his energy. That book made me positively ill. The question was how to identify an unknown prisoner. I could have done it in twenty-four hours. Lecoq took six months or so. It might be made a textbook for detectives to teach them what to avoid.

Si tratta di una sfida, ampliamente vinta dall’inglese Holmes, che è di gran lunga il più lucido ed efficiente dei detective. Egli è dotato del fascino particolare dell’outsider, lui che non è affatto un criminale redento, ma un consulente investigativo che fa uso di mezzi illegali e si prende beffa delle deduzioni elementari della polizia ufficiale. Ruvido, selvatico e solitario, per niente dotato di capacità di mediatore, Holmes cita Goethe e maneggia esplosivi, si traveste in ogni modo, ma mantiene sempre l’aria distaccata del gentleman. Conosce la giurisprudenza e adotta abili interrogatori investigativi. È depresso quando non lavora, parla poco e con logica ferrea; è cocainomane e morfinomane. Un po’ gelida e produttiva macchina del controllo, un po’ criminale affine alle devianze in cui si muove, Holmes è un chiaro esempio della cultura dell’epoca.

Da questi archetipi che rimbalzano tra Francia e Inghilterra si sviluppa un genere, che va ad arricchirsi negli anni, di accattivanti figure che spaziano da altri detective ad altri criminali: dall’invenzione di Lupin di Leblanc del 1905 a Fantômas del 1911 di Marcel Allain e Pierre Souvestre, da Joseph Rouletabille di Leroux del 1907 a Poirot di Agata Christie nel 1920, il campo si anima di figure tanto note – e diffuse anche poi dalle versioni televisive – che farne una presentazione è pressoché inutile.

Anche se molte potrebbero essere le sue categorie – dal noir all’hard boiled novel – il genere, di regola e alle sue origini, si distingue per la deviazione dalla linearità della trama dovuta alle false piste e agli indizi diversi. Si caratterizza per i travestimenti e per le opacità alluse nonché per l’ossessiva, monomaniacale, idea del detective di risolvere l’inganno, per la logica stretta che mette in atto, e per il fluttuare dell’identità del sospettato, che fa parte di una «categoria in movimento per eccellenza», quanto basta per raccogliere su di sé i sospetti senza confermarli, dipanando la trama in un clima di dubbio20.

Summa della cultura dell’epoca del controllo e dell’indagine, che assume contorni spesso perversi e illegali, il rapporto tra detective e sospettato nasce e si diffonde nell’immaginario collettivo. La situazione – con le sue forme di controllo poliziesche, con la sua ossessione investigativa e la sua ricerca di un oggetto dall’identità assente – è il risultato di un periodo storico; ne è una sorta di simbolo culturale. Quanto questo simbolo sia legato ai volumi centrali della Recherche è cosa che ci pare quasi superfluo far notare, per quanto lampante è la sua articolazione in ogni sfaccettatura accennata.

Già riferendosi a Dostoevski, il Narratore indica un elemento fondamentale nella costruzione della trama fatta di indizi: la presentazione degli effetti da cui si deve partire per ricostruire la vicenda e le cause:

comme Dostoïevski, au lieu de présenter les choses dans l’ordre logique, c’est-à-dire en commençant par la cause, nous montre d’abord l’effet […] C’est ainsi que Dostoïevski présente ses personnages. Leurs actions nous apparaissent aussi trompeuses […] nous sommes tout étonnés après d’apprendre que cet homme sournois est au fond excellent, ou le contraire.

Il particolare è qui tecnico, ma indica un collegamento chiaro con la cultura del suo tempo che si muove per indizi.

Albertine è giovane – vigorosa – e lesbica dunque segregata come vuole la norma di comportamento culturale diffusa. Ella è senza identità quanto la massa indistinta. Il Narratore, attratto dall’enigma dell’identità di Albertine, su di essa esercita tutte le forme del controllo che la sua epoca gli mette a disposizione: è poliziesco, conosce le pratiche processuali, ne mima il linguaggio, usa il processo deduttivo per ricostruire la verità delle situazioni. Egli si avvale dei nuovi strumenti di controllo dell’identità: le foto – lo abbiamo già citato – che misurano algebricamente l’essere di ciascuno e che richiamano così anche le schede antropometriche, ben note e polemicamente attaccate dai dreyfusardi. Ossessivamente ostinato a guardare Albertine, a spiarne i segreti da sveglia e nel sonno, egli è voyeur fin nelle sue viscere, «pire que les rayons X […] qui voient ce que vous avez dans le cœur». E come i celebri detective che simboleggiano la cultura dell’epoca, Marcel è poliziotto – anche avvocato e anche giudice e giustiziere – ma soprattutto, incarna perfettamente anche l’altra faccia: quella del criminale.

La storia del Narratore e di Albertine è poliziesca perché a partire dalla tracce cerca di risolvere l’enigma, e, quando Marcel smette di vagheggiarsi capo della Sûreté e si arrende alla sua natura criminale, essa sprofonda nella più torbida atmosfera noir.

Il suo percorso è inverso a quello di Lecoq, ed è affine per stretto metodo deduttivo e per i mezzi illegali, che qui certo sono portati alle conseguenze estreme, a Holmes. Quest’ultimo parallelo non è azzardato, nonostante la distanza – soprattutto nei risultati – che c’è tra il lucido inglese e la follia maniacale del Narratore. Ma è Proust stesso che si richiama al detective outsider, per bocca di Albertine, in uno dei rari passaggi in cui lei in persona si esprime ribellandosi alle indagini di Marcel: «Je ne réponds pas à ce que vous me dites de prétendues propositions que Saint-Loup […] aurait faites à votre tante. C’est du Sherlock Holmes». Roba da Sherlock Holmes, certo. Ora, è vero che Holmes e gli altri detective, in generale, sono molto meno logorroici e nevrotici di Marcel, e certo non perdono i fatti macroscopici dietro le speculazioni. Ma è anche vero che da un lato, il Narratore è innamorato e questo fatto ha tradito persino Sherlock Holmes in Boemia, quando, invaghito di Irene Adler, non è riuscito a risolvere il caso. D’altro lato, invece, il fatto che il detective Marcel sia un po’ inconcludente è una bella forma di ironia di Proust nei confronti della sua stessa cultura.

La cultura del crimine tra Otto e Novecento riecheggia così nel testo di Proust che le concede una fedele rappresentazione e insieme ci spende sopra un sorriso consapevole.

Paola Cerutti, Crimini alla finestra. Proust e il clima “noir” d’inizio secolo