Realtà, gelosia, ignoto

Quando uscivo con Albertine, bastava che lei si allontanasse da me per un istante e subito io mi preoccupavo, figurandomi che, magari, avesse parlato con qualcuno, o semplicemente guardato qualcuno. La realtà non è che l’approccio a un ignoto in direzione del quale non facciamo molta strada. Meglio, allora, non sapere, pensare il meno possibile, non fornire alla gelosia il minimo dettaglio concreto. Purtroppo, in assenza di vita esteriore, incidenti del genere li procura la vita interiore; in assenza di passeggiate con Albertine, gli incontri fortuiti che facevo durante le mie riflessioni solitarie mi fornivano a volte qualcuno di quei piccoli frammenti di realtà capaci di attirare a sé, come una calamita, un po’ d’ignoto, che a partire da quel momento diventa doloroso. Si ha un bel vivere sotto l’equivalente d’una campana pneumatica; le associazioni di idee, i ricordi continuano ad agire.

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Quelle donne che non sanno distinguere la ragione di ciò che provano

Appena entrata in camera mia, Albertine saltava sul letto e, a volte, enunciava qualche definizione del mio genere d’intelligenza, o giurava, con trasporto sincero, che avrebbe preferito morire piuttosto che lasciarmi; erano i giorni in cui, prima di farla entrare, mi ero rasato. Apparteneva a quella categoria di donne che non sanno distinguere la ragione di ciò che provano. Il piacere provocato in loro da un colorito fresco lo attribuiscono alle qualità morali di ciò che sembra prospettare qualche felicità al loro futuro, una felicità che, del resto, è destinata a diminuire e a farsi meno necessaria man mano che ci si lascia crescere la barba.

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Forse amavo Albertine

A volte Albertine faceva fermare lì, e mi chiedeva d’andare da solo a cercare, per consentirle di berlo nell’auto, del calvados o del sidro, dal quale, benché ci assicurassero che non era spumante, venivamo tutti innaffiati. Eravamo stretti l’uno contro l’altra. Quelli della cascina intravedevano appena Albertine nella vettura chiusa, io tornavo a restituire loro le bottiglie; ripartivamo come per continuare quella vita solo nostra, quella vita d’amanti ch’essi potevano attribuirci e di cui quella sosta per bere non sarebbe stata che un momento insignificante; supposizione che sarebbe parsa ancor meno inverosimile se ci avessero visto dopo che Albertine aveva bevuto la sua bottiglia di sidro; sembrava, infatti, che non potesse più sopportare, fra lei e me, una distanza che abitualmente non la infastidiva; sotto la gonna di tela, le sue gambe si stringevano contro le mie, avvicinava alle mie le sue guance ch’erano diventate livide, calde e rosse ai pomelli, con un che di ardente e appassito come nelle ragazze dei sobborghi. In quei momenti, oltre che di personalità, cambiava, e quasi altrettanto rapidamente, di voce; perdeva la sua per prenderne un’altra rauca, ardita, quasi abietta. Cadeva la sera. Che piacere sentirla contro di me, con la sua sciarpa e il suo berretto, ricordandomi che proprio così, fianco a fianco, siamo abituati a vedere gli innamorati! Forse amavo Albertine, ma non osavo darglielo a vedere, cosicché se questo amore esisteva in me, era solo come una verità che non ha alcun valore fin quando non si sia potuto controllarla con l’esperienza; cosa che mi sembrava irrealizzabile, e al di fuori del piano della vita.

M. Proust, Sodoma e Gomorra II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori