L’intelligenza di Albertine mi piaceva perché, per associazione, ridestava in me ciò che io chiamavo la sua dolcezza, nel senso in cui chiamiamo dolcezza d’un frutto una certa sensazione che è solo nel nostro palato. E, in effetti, quando pensavo all’intelligenza di Albertine, le mie labbra istintivamente si protendevano e assaporavano un ricordo la cui realtà preferivo mi restasse esterna e consistesse nella oggettiva superiorità d’un essere. Certamente avevo conosciuto persone di intelligenza più spiccata. Ma l’infinito dell’amore, o il suo egoismo, fa sì che gli esseri che amiamo siano quelli la cui fisionomia intellettuale e morale è ai nostri occhi, la meno oggettivamente definita; li ritocchiamo di continuo a seconda dei nostri desideri e dei nostri timori, non li separiamo da noi, non sono altro che un luogo immenso e vago dove esteriorizzare le nostre tenerezze.
Marcel Proust, Albertine scomparsa I
Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori