Piovosa e rapida, provocante e diafana

Come era potuta apparirmi morta se adesso, per pensare a lei, avevo a disposizione le stesse immagini che rivedevo, ora l’una ora l’altra, quando era viva: svelta e china sulla ruota mitologica della sua bicicletta, stretta, i giorni di pioggia, nella tunica guerriera dell’impermeabile che faceva risaltare i suoi seni, la testa inturbantata e fitta di serpenti, seminava il terrore nelle strade di Balbec; le sere che ci eravamo portati dello champagne nei boschi di Chantepie, provocante e mutata la voce, aveva in viso quella fiamma livida, arrossata solo ai pomelli, che – distinguendola male nel buio della vettura – avvicinavo al chiaro di luna per vederla meglio, e che adesso cercavo invano di ricordare, di rivedere in un buio che non sarebbe mai finito. Piccola statuetta nella passeggiata verso l’isola, calma figura massiccia di grana grossa davanti alla pianola, era così, volta a volta, piovosa e rapida, provocante e diafana, immobile e sorridente, angelo della musica. Ciascuna, così, era legata ad un momento, alla cui data mi trovavo nuovamente incasellato quando rivedevo quella certa Albertine. E questi momenti del passato non sono immobili; serbano, nella nostra memoria, il movimento che li trascinava verso l’avvenire – verso un avvenire divenuto a sua volta il passato – trascinandovi anche noi. Mai avevo accarezzato l’Albertine in impermeabile dei giorni di pioggia, volevo chiederle di togliersi quell’armatura, così avrei conosciuto assieme a lei l’amore dei campi, la fraternità del viaggio. Ma non era più possibile: era morta.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Non si è che grazie a ciò che si possiede

Non si è che grazie a ciò che si possiede, non si possiede che quel che ci è realmente presente, e quanti dei nostri ricordi, dei nostri umori, dei nostri pensieri se ne vanno in viaggio lontano da noi, dove li perdiamo di vista! Non riusciamo più, allora, a metterli in conto a quel totale che è il nostro essere. Ma essi hanno, per rientrare in noi, sentieri segreti. E certe sere che mi ero addormentato senza rimpiangere, quasi, Albertine – non si può rimpiangere ciò che non si ricorda -, trovavo al risveglio come una flotta di ricordi venuti ad incrociare dentro di me, nella piena chiarezza della coscienza, dove li distinguevo a meraviglia. Piangevo allora quel che vedevo così bene e che il giorno prima, per me, non era che il niente. Il nome di Albertine, la sua morte avevano cambiato senso; i suoi tradimenti avevano ripreso di colpo tutta la loro importanza.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Il ritorno dei grandi freddi

Così, quelle sere di gennaio in cui lei veniva, e che per questo m’erano state tanto dolci, adesso con la loro brezza pungente m’avrebbero ispirato un’inquietudine che allora non conoscevo, riportandomi -divenuto però pernicioso – il primo germe del mio amore conservato nel loro gelo. E pensando che avrei visto il ritorno di quel freddo che da Gilberte e dai miei giochi ai Champs-Élysées in poi m’era sempre parso così triste; quando pensavo che sarebbero tornate sere simili a quella sera di neve in cui, per tutta una parte della notte, avevo aspettato invano Albertine, allora, come un malato – dal punto di vista, lui, del corpo – per il suo petto, ciò che io, moralmente ancor di più temevo per il mio dolore, per il mio cuore, era il ritorno dei grandi freddi, e mi dicevo che il più duro da passare sarebbe stato, forse, l’inverno.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori