Le sole persone davvero inconoscibili sono quelle che amiamo

Mi sono sempre chiesto se non sia la natura claustrofobica della relazione cui il Narratore la costringe a rendere Albertine Simonet un personaggio non del tutto riuscito. Dopo averlo scritto (non senza imbarazzo) mi accorgo che tale giudizio non tiene abbastanza conto delle circostanze: è evidente che per raccontare gli strazi provocati dalla convivenza con Albertine, Proust non avrebbe potuto agire altrimenti. Inoltre, Albertine fatica a liberarsi della sua essenza di “fanciulla in fiore“, di emissaria della “piccola banda” di ragazze che sulla spiaggia di Balbec ha suscitato la curiosità erotica del Narratore. Resta il fatto che a fronte di tante altre eroine della Recherche – da Odette a Oriane de Guermantes, da Gilberte a Madame Verdurin -, Albertine non soddisfa fino in fondo i nostri appetiti romanzeschi. Il momento in cui sembra più viva è quando dorme. Ma anche allora Proust la paragona a una pianta o a un gatto. C’è chi ha visto nella reticenza con cui Proust evita di fornirci dettagli croccanti sulla sua personalità il goffo tentativo di dissimulare il modello reale, probabilmente maschile. Credo che tale spiegazione non sia soddisfacente, e non renda merito alla straordinario talento proustiano nel trasfigurare qualsiasi elemento ricavato dalla realtà. Sono più portato a credere che il trattamento omertoso riservato ad Albertine derivi dall’intenzione di Proust di demolire una volta per sempre qualsiasi ideale romantico, dal desiderio di mostrare al lettore che le sole persone davvero inconoscibili sono quelle che amiamo.

Alessandro Piperno, Proust senza tempo

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Proust non credeva nell’amore

Si sa, Proust non credeva nell’amore. (…) O per meglio dire, nel cosiddetto amore romantico. Immagino che, chiamato a pronunciarsi sulla faccenda, avrebbe mostrato maggiore comprensione per il suicidio di Ofelia che per quello di Giulietta. Proust considerava l’amore la forma di autoinganno più subdola che la natura avesse messo a disposizione della specie umana, almeno in questo molto più disgraziata di tutte le altre. (…)

Che non basti questo a spiegare la monotonia con cui le dinamiche amorose nella Recherche si ripetono, ossessivamente, sempre uguali a se stesse. Il Narratore, per l’occasione epurato dall’onta dell’omosessualità e dai quarti di sangue ebraico, è un eterosessuale di origini cattoliche, collezionista di delusioni affettive. Ciò lo induce a postulare generalizzazioni sull’amore che troppo spesso scantonano nel partito preso. Un disfattismo sentimentale inasprito dai fallimenti, certo – che si rifrange sugli eroi del romanzo: Swann, Charlus, Saint-Loup -, ma anche da un pregiudizio filosofico. Sulla scorta di Constant e Schopenhauer, Proust identifica la passione amorosa con la smania di possesso. I soli individui capaci di rubarci il cuore sono gli esseri in fuga.

Non a caso Swann si scopre innamorato di Odette quando non la trova in casa Verdurin: da lì il sospetto che lei possa avere una vita autonoma che lo trascende. Un’esperienza analoga toccherà al Narratore, prima con Gilberte poi con Albertine. Il desiderio di imprigionare quest’ultima, attraverso una ragnatela di ricatti economici e morali, non deriva dal piacere di passare la maggior parte del tempo con lei, ma dal gretto intendimento di sottrarla alla compagnia di chiunque altro, donna o uomo che sia. Neppure il sesso è appagante, se non per le solite ragioni meschine: “Amare carnalmente voleva dire, per me, godere di un trionfo su tanti concorrenti”.(La prigioniera).

Alessandro Piperno, Proust senza tempo

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MARCEL PROUST Qualcosa che adesso so di lui (e di me)

Alessandro Piperno | Dialoghi di Pistoia

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Allora ripensi ai romanzi. Ti chiedi se la passione che da sempre ti ispirano non sia valsa da esorcismo, se non addirittura da profezia. Un interrogativo che basta a mettere in crisi le poche convinzioni estetiche di cui disponi. Dopotutto, hai sempre avversato l’idea che il tuo amore per la narrativa potesse avere degli scopi, a meno di non considerare tali il piacere prodotto dalla finzione, il conforto offerto dalla forma, lo strazio inflitto dalla verità.

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È di lui che vorrei parlarvi. Della sua centralità nella vita di tanta gente come me, di come ha contribuito a cambiarcela, ma anche di come è riuscito ad avvelenarla ben benino e per sempre. Perché, occorre esserne consapevoli, quando ti entra dentro non ti lascia più in pace. Si ha un bel festeggiare i centocinquant’anni della sua nascita, o commemorarne la morte avvenuta un secolo fa, la verità è che leggere Marcel Proust, assorbirne fino in fondo lo stile, punto di vista e ragione morale significa imparare a  non attribuire al Tempo alcuna rilevanza retorica.

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Ero all’ultimo anno di liceo quando un amico mi regalò per Natale un librone dall’aria minacciosa. Per un attimo pensai che fosse uno scherzo: rilegato in similpelle blu navy con intarsi dorati, se non fosse stato per il faccione pallido e baffuto stampato sulla custodia lo si sarebbe potuto scambiare per una Bibbia da motel. Si trattava, invece, del primo volume di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust tradotto da Giovanni Raboni per i Meridiani Mondadori.

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Roberto era un nobile di origini austriache: bastava questo a rendere il suo mondo sideralmente lontano da quello in cui ero cresciuto.

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Considerando le competenze letterarie del mio amico, a dir poco lacunose, non poteva certo sapere che uno dei temi cardine del librone che mi aveva regalato fosse lo snobismo: ossia, l’impulso che mi aveva spinto a diventargli amico. Ci avrei messo ancor di più a notare, non senza divertimento, che il mio amico condivideva il nome di battesimo con Saint-Loup, uno dei personaggi più affascinanti della Recherche; e ora che ci penso, non solo il nome, ma anche il garbo, la buona educazione e la tenerezza che era in grado di suscitare negli altri. Questo è solo uno dei tanti indizi – immagino che ogni lettore devoto ne serbi di analoghi – che provano come la Recherche, per sedurti, faccia un uso subdolo di piccoli pezzi della tua vita, per così dire, nobilitandoli.

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A fronte di tante iniziali difficoltà, a conquistarmi fu la natura amorfa e passiva del protagonista. Sì, insomma, Marcel, colui che dice “io”, il Narratore, o come diavolo volete chiamarlo, non sembrava l’individuo che era logico aspettarsi. Era il contrario dell’uomo d’azione, una creatura sedentaria che faceva del proprio ozio di infermo una specie di ragione di vita. Del resto, chi altri, se non un essere così indolente, introflesso e inoffensivo, avrebbe potuto iniziare le sue memorie con una lunga digressione sul dormiveglia? Era come se il vitalismo del tipico eroe romanzesco avesse ceduto il passo a una specie di perplessità di vivere. Questo tizio senza nome aveva un modo tutto suo – un modo davvero elegante – di esercitare la nobile arte dell’autodenigrazione. Senza petulanze dostoevskiane, con il garbato understatement di Montaigne, sembrava non vedere l’ora di sbatterti in faccia le tante cose che gli erano precluse: la salute, la lealtà filiale, la memoria, il talento letterario…Che non fosse questa inettitudine a spogliarlo, se non proprio di credibilità, di ogni autorevolezza? Da qui l’impressione che il libro si andasse scrivendo da sé, pagina dopo pagina, e proprio sotto i miei occhi. D’altronde, a dispetto dei dubbi dello stesso Narratore in merito alla genuinità della sua vocazione artistica, ogni nuovo capoverso si rivelava più incisivo e conturbante del precedente.

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Avevo passato al setaccio – come avviene nell’età delle grandi scoperte artistiche – i russi, i vittoriani, i realisti francesi. Benché nei casi migliori avessi vissuto esperienze estetiche travolgenti, nessun’opera narrativa, per quanto toccante e maestosa, mi aveva procurato sentimenti che andassero oltre l’ammirazione e il conseguente mimetismo.

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L’esperienza che mi stava regalando l’immersione nella Recherche era di tutt’altra natura. Come se la sua lenta, fatale, velenosa assimilazione titillasse un senso che non sapevo neppure di avere. Prova ne sia che non tutte le sue frasi lunghe e complesse mi risultavano immediatamente intellegibili. Il processo ricordava parecchio quello dell’ipnosi: la fitta pagina proustiana mi ondeggiava davanti agli occhi come un pendolo, provocando una specie di trance: la fusione tra me e il testo era talmente promiscua da favorire il dubbio un po’ bizzarro che ciò che stavo leggendo lo conoscessi già. L’aria di famiglia che respiravo era l’effetto di un trucco, lo sapevo, ma per quanto stessi lì a ripetermelo continuavo a sospettare di non essere alle prese con un nuovo libro da leggere ma con un flusso di cose già presenti in me, che quei segnetti sulla pagina contribuivano a far riemergere in superficie nel modo più libero e commovente.

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Se credessi in certe sciocchezze, potrei azzardare un’interpretazione metafisica: una sorta di comunione delle anime che solo l’arte è in grado rivelare. Ahimè, un desolato immanentismo mi vieta di formulare ipotesi trascendenti. E allora cosa? A pensarci bene, ho solo risposte empiriche, e quindi insoddisfacenti. Mi consola sapere che ciò che io provai allora, leggendo per la prima volta la Recherche, non sia troppo diverso da ciò che hanno provato migliaia di altri lettori nel corso dell’ultimo secolo, assorbendo un’opera concepita in modo da contagiarti come un virus endemico. Anche in virtù di questa constatazione, non mi resta che chiamare in causa lo stile. Non c’è scrittore che all’alba della sua vocazione non sogni di possederne uno già pronto per l’uso. L’esperienza insegna che la disinvoltura che ogni stile reclama non è mai naturale: è il frutto di un periglioso cammino di consapevolezza, qualcosa di non troppo diverso da un esercizio spirituale, o dalle pratiche care al monaco buddhista che passa la vita a imparare a respirare in modo più pieno e soddisfacente.

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Quando Proust scrive, in chiara polemica con l’odiato Sainte-Beuve, che “i veri libri devono essere figli non della piena luce e delle chiacchiere, ma dell’oscurità e del silenzio” non fa che fornirci la ricetta magica per dare vita a uno stile. Esso, si sbriga ad aggiungere, deve essere “come il colore per il pittore”: non questione di tecnica, ma di visione. Non oso neppure immaginare l’immane sforzo da lui profuso per dare forma a una visione capace di ricreare in modo così preciso il ritmo della vita interiore. Non so se Proust sia il massimo romanziere di sempre – talvolta, mettendo tra parentesi i suoi difetti, sono portato a crederlo – ma sono certo che nessun altro scrittore, dopo Shakespeare, abbia saputo descrivere con altrettanta pazienza e precisione i moti tellurici dei nostri cuori in subbuglio.

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Una cosa resta ancora in sospeso: la mia percezione della Recherche è la stessa di tanti anni fa? Direi proprio di no. Come potrebbe? Dopotutto, le cose cambiano, ed è giusto che lo facciano. Non è forse la Recherche a mostrarci come niente sia più volubile del gusto di un essere umano? Non posso dire se la grande epopea proustiana mi avvinca più o meno di un tempo. Quello che so è che i lunghi periodi di cui è composta – alcuni dei quali conosco a menadito, come se li avessi scritti io in un’epoca della vita prolifica e avventurosa – mi suscitano la stessa insofferenza che mi provoca abbandonarmi a certi vizi sclerotizzati. Talvolta, leggendo una di quelle proposizioni monstre disseminate di parentesi e incisi, di improvvisi cambi di passo e di rotta mi spazientisco al punto da sussurrare tra me e me: e su, dài, arriva al punto!

(…)

La sensazione che oggi mi assale quando apro uno dei quattro volumi della Recherche – segnati da uso e intemperie, con le pagine lise, livide, cosparse di sghembe sottolineature e di chiose entusiaste – non somiglia affatto alla commozione che coglie il Narratore nella biblioteca Guermantes quando si ritrova tra le mani il volume di François le Champi di George Sand. Se l’emozione di Marcel è affidata alla riscoperta di un libro che appartiene agli anni remoti dell’infanzia, la mia è legata a una lunga consuetudine matrimoniale, e dunque esposta alle intermittenze del cuore e minata dal cinismo e dal disincanto, ma anche dall’inesauribile tenerezza che si prova per una mamma invecchiata. Con ciò non voglio dire che, frattanto, la figura di Proust sia ingrigita, come certi coniugi incapaci ormai di sorprenderci; tutt’altro. Diciamo che con il trascorrere degli anni è cambiata la natura dello stupore che mi provoca: se è raro che m’imbatta in un passo che non ricordavo di aver letto, è sempre più frequente che una frase, un’immagine, un’idea da me colpevolmente sottostimate prendano finalmente vita, mi parlino con inflessione nuova, come se la mia mente e il mio cuore avessero raggiunto la maturazione indispensabile a comprenderle. Ho pressappoco l’età in cui Proust morì. E mi chiedo se tale coincidenza non basti a donarmi la saggezza e il distacco per capire ciò che per tanti anni mi sono limitato ad amare. Ecco, forse l’idolatria è venuta meno, sostituita da sentimenti solo apparentemente più blandi, come l’affetto, la lealtà, la comprensione. Ne ho avuta una dimostrazione plastica non troppo tempo fa, in una circostanza non del tutto appropriata. Ma si sa, le grandi rivelazioni ti colgono nei momenti più inopportuni. Ero sul palco di un teatro in una delle città d’arte italiane tanto amate sia da Stendhal che da Proust. (…) Ero stato invitato a tenere una conferenza sulla Recherche.

(…)

Avendo già consumato il tempo che mi ero imposto – l’esperienza mi ha insegnato che non bisogna infliggere al prossimo prolusioni più lunghe di tre quarti d’ora – ero pronto a concludere. Non senza goffaggine stavo cercando di dare corpo allo spettro di cui Proust parla alla fine del suo ultimo libro: l’idea della morte. Non disponendo degli strumenti dialettici indispensabili all’impresa, avevo già deciso che avrei lasciato la parola al vero protagonista della serata. È ciò che feci. Iniziai a leggere un passo che conoscevo talmente bene che avrei potuto quasi recitarlo a memoria. Si trova a pochi capoversi dalla fine, e in qualche modo racchiude il senso dell’opera intera:

“Questa idea della morte si insidiò definitivamente dentro di me come fa un amore. Non che amassi la morte; la detestavo. Ma dopo averci pensato di tanto in tanto come si pensa a una donna che ancora non si ama, adesso il suo pensiero aderiva così completamente allo stato più profondo del mio cervello che non potevo occuparmi d’una cosa senza che questa cosa attraversasse innanzitutto l’idea della morte, e anche se non mi occupavo di niente e rimanevo in un riposo completo, l’idea della morte mi teneva una compagnia non meno incessante dell’idea di me stesso”.

Se in questa sede, com’è naturale che sia, non ho avuto problemi a trascrivere la citazione nella sua interezza, non altrettanto facile è stato, quella sera, di fronte a tanti sconosciuti, leggerla fino in fondo. D’un tratto, a metà del passo, la mia voce ha vacillato, tradita dal groppo di commozione che inaspettatamente mi si era piazzato lì, in mezzo alla trachea. Lo so, non c’è niente di più riprovevole che lasciarsi andare a certe melensaggini in pubblico, come quelle défaillance in cui incorre il regista in pensione quando, ricevendo un premio alla carriera, si lascia sommergere dal ricordo di imprese ormai sempre più remote. Ho fatto appello a tutto il mio self-control per nascondere quel montante turbamento. Per dissimulare ho bevuto un sorso d’acqua. Tutto pur di non fare la figura della Madame Verdurin che enfatizza le proprie esperienze estetiche somatizzandole. Solo più tardi, a pericolo scampato, riacquistata la lucidità necessaria a leggersi dentro, ho capito cosa fosse avvenuto. Era come se d’un tratto avessi afferrato una verità che apparentemente era stata sempre lì, a portata di mano, ma che l’immaturità mi aveva impedito di intendere. Fino a quella sera avevo avuto la tentazione di identificare “l’idea della morte” di cui parla Proust con l’ipocondria che da sempre mi affligge, e quindi con la paura di morire. Che madornale errore! Eppure, ribadisco, era tutto lì. Non c’era alcuna possibilità di equivocare. C’è un momento nella vita in cui l’idea della morte ti entra dentro e non molla più l’osso. Tutto quel che hai intorno ti parla di fine: i ricordi, i luoghi, gli amici di una vita, gli amori lontani, le ambizioni tradite, i genitori invecchiati o estinti. Peccato che per comprendere una verità così essenziale non basti l’immaginazione, peccato che per capirla occorra innanzitutto lasciarsene contagiare.

Alessandro Piperno