Le attrattive della bella passante fuggitiva

La carrozza di Madame de Villeparisis procedeva speditamente. Avevo appena il tempo di scorgere la fanciulla che veniva verso di noi; eppure – poiché la bellezza degli esseri non è come quella delle cose, ma sentiamo che è la bellezza di una creatura unica, cosciente e volontaria – nell’attimo stesso in cui la sua individualità, anima vaga, volontà a me ignota, si dipingeva in una piccola immagine prodigiosamente ridotta, e tuttavia completa, in fondo al suo sguardo distratto, ecco che, misteriosa risposta del polline preparato per i pistilli, io mi sentivo lievitare dentro l’embrione altrettanto vago, altrettanto minuscolo, del desiderio di non lasciar passare quella fanciulla senza far sì che il suo pensiero prendesse coscienza della mia persona, senza impedire che i suoi desideri fluissero verso qualcun altro, senza installarmi nella sua fantasia e impadronirmi del suo cuore. Ma la carrozza proseguiva la sua corsa, la bella fanciulla era già alle nostre spalle e, non possedendo lei di me alcuna delle nozioni che costituiscono una persona, i suoi occhi, che m’avevano appena scorto, già mi avevano dimenticato. Era perché l’avevo solo intravista che mi era parsa tanto bella? Forse. Prima di tutto, l’impossibilità di trattenersi con una donna, il rischio di non incontrarla mai più le fanno acquistare di colpo lo stesso fascino assunto da un paese grazie alla malattia o alla povertà che ci impediscono di visitarlo, o dagli squallidi giorni che ci restano da vivere grazie alla battaglia in cui certo periremo. Così, se non esistesse l’abitudine, la vita dovrebbe apparire deliziosa a creature continuamente minacciate di morte – cioè a tutti gli  uomini. In secondo luogo, se l’immaginazione è stimolata dal desiderio di ciò che non possiamo ottenere, il suo sviluppo, nel corso di questi incontri in cui le attrattive della passante sono di solito direttamente proporzionali alla rapidità del passaggio, non viene limitato da una realtà còlta nella sua interezza. Basta che stia per scendere la sera o la carrozza vada un po’ più in fretta perché, in campagna come in città, non ci sia torso femminile – mutilato come un marmo antico dalla velocità che ci trascina e dal crepuscolo che lo inghiotte – che non scarichi sul nostro cuore, a ogni angolo di strada, dal fondo d’ogni bottega, le frecce della Bellezza, quella Bellezza a proposito della quale si sarebbe a volte tentati di chiedersi se sia, a questo mondo, qualcosa di diverso da quel complemento che la nostra immaginazione sovraeccitata dal rimpianto aggiunge a una passante frammentaria e fuggitiva.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

A una passante

Ero per strada, in mezzo al suo clamore.
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.
Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
d’una scultura antica. Ossesso, istupidito,
bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.
Un lampo… e poi il buio! – Bellezza fuggitiva
che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,
che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t’avrei amata, e so che tu lo sai.

Charles Baudelaire

Baudelaire, A una passante – LetteraTUreStorie