Bergotte

Avevo sentito parlare per la prima volta di Bergotte da un mio compagno più grande di me e per il quale nutrivo una grande ammirazione, Bloch. […] Non ero certo il solo ad ammirare Bergotte; era anche lo scrittore preferito di un’amica, molto letterata, di mia madre; per leggere il suo ultimo libro appena pubblicato, il dottor du Boulbon faceva attendere i suoi pazienti, e fu dallo studio dove egli visitava, e da un parco vicino a Combray, che presero il vento alcuni dei primi semi di quella predilezione per Bergotte – specie allora così rara, oggi universalmente diffusa – di cui si ritrova ovunque in Europa, in America, fin nel più piccolo villaggio, il fiore ideale e comune. Ciò che l’amica di mia madre e, credo, il dottor du Boulbon amavano sopra ogni altra cosa, come me, nei libri di Bergotte, era quel flusso melodico, erano quelle espressioni antiche, a volte anche semplicissime e conosciute, ma disposte e lumeggiate in un modo che sembrava rivelare in lui un gusto affatto particolare; infine, nei brani tristi, una certa rudezza, un accento quasi rauco. […] Così, intuendo quante parti dell’universo sarebbero rimaste ignote alla mia debole percezione se lui non me le avesse avvicinate, avrei voluto possedere una sua opinione, una sua metafora su ogni cosa, soprattutto su quelle che avessi anch’io l’occasione di vedere e, fra quelle, particolarmente sugli antichi monumenti francesi e su certi paesaggi marini, poiché l’insistenza con cui li citava nei suoi libri provava che erano ricchi, ai suoi occhi, di significato e di bellezza. Disgraziatamente, su quasi tutto ignoravo la sua opinione. Ero certo che fosse completamente diversa dalle mie, giacché scendeva da un mondo sconosciuto verso il quale io cercavo di innalzarmi: persuaso che i miei pensieri sarebbero parsi una pura inezia a quello spirito perfetto, ne avevo fatto tabula rasa a tal punto che quando, per caso, mi capitava di incontrarne, in qualche suo libro, uno che anch’io avevo avuto, il mio cuore si gonfiava come se un dio, nella sua bontà, me l’avesse restituito dichiarandolo legittimo e bello. Succedeva a volte che una sua pagina diceva le stesse cose che spesso scrivevo di notte alla nonna e alla mamma quando non mi riusciva di dormire, così che quella pagina di Bergotte si configurava come una raccolta di epigrafi da mettere in testa alle mie lettere. […] Basandomi sui suoi libri mi figuravo Bergotte come un vecchio debole e deluso che avesse perduto dei figli e non se ne fosse mai consolato. Così leggevo, cantavo dentro di me la sua prosa più dolce, più lento*, forse, di come era stata scritta, e anche la più semplice delle frasi giungeva a me con un tono di tenerezza. […]

Una domenica, durante la mia lettura in giardino, fui disturbato da Swann che veniva a far visita ai miei parenti.

– Cosa state leggendo, si può vedere? Ma guarda, un Bergotte… Chi ve ne ha parlato, dei suoi libri?

Gli dissi che era stato Bloch. […] Nel modo in cui Swann mi parlò di Bergotte, d’altra parte, mi colpì anche qualcosa che non gli era peculiare ma, al contrario, era comune allora a tutti gli ammiratori dello scrittore, all’amica di mia madre, al dottor du Boulbon. Anche loro, come Swann, dicevano di Bergotte: “È un ingegno affascinante, così particolare, ha un modo tutto suo di dire le cose, un po’ ricercato ma talmente gradevole. Non c’è bisogno di vedere la firma, si capisce subito che è la sua penna”. Ma nessuno si sarebbe azzardato a dire: “È un grande scrittore, ha un grande talento”. Non lo dicevano perché non lo sapevano. Impieghiamo molto tempo a riconoscere nella fisionomia particolare di un nuovo scrittore il modello che reca l’etichetta “grande talento” nel nostro museo delle idee generali. Proprio perché si tratta di una fisionomia nuova, non riusciamo a scorgervi una completa somiglianza con ciò che chiamiamo talento. Diciamo piuttosto originalità, fascino, delicatezza, forza; e poi, un giorno, ci rendiamo conto che il talento è appunto tutte queste cose.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 110-116-117-118-119-121

*In italiano nel testo

Bergotte

Stéphane Heuet, Bergotte

Bergotte, che trasmutava l’oro in carezze e le carezze in oro

Appresi che, quel giorno, era sopravvenuta una morte per me molto dolorosa, quella di Bergotte. (…) Erano anni che Bergotte non usciva più di casa. D’altronde, non gli era mai piaciuto andare in società, o forse un solo giorno, per disprezzarla come tutto il resto e nello stesso modo che gli era caratteristico, cioè disprezzando non perché non si può ottenere, ma non appena si è ottenuto. Viveva con tanta semplicità che nessuno sospettava quanto fosse ricco, e d’altra parte, se lo si fosse saputo, si sarebbe caduti in un altro equivoco, quello di crederlo avaro, mentre mai nessuno fu così generoso. Lo era soprattutto con le donne o, per meglio dire, con le ragazzine, che si vergognavano di ricevere tanto in cambio di così poco. Lui se ne scusava con se stesso perché sapeva di non poter mai produrre tanto bene come nell’atmosfera creata dal sentirsi innamorato. L’amore – no, è troppo; il piacere conficcato un po’ a fondo nella carne è propizio al lavoro letterario perché annienta altri piaceri, per esempio i piaceri mondani che sono gli stessi per tutti. E anche se comporta, questo amore, qualche delusione, perlomeno, in tal modo, agita la superficie dell’anima, che altrimenti rischierebbe di diventare stagnante. Il desiderio, dunque, non è inutile per lo scrittore, innanzitutto perché lo allontana dagli altri uomini e lo distoglie dal conformarsi ad essi, e poi perché restituisce un po’ di moto a una macchina spirituale che, passata una certa età, tende a immobilizzarsi. Non si arriva fino al punto di essere felici, ma si fa qualche scoperta sulle ragioni che ci impediscono di esserlo, e che ci sarebbero rimaste invisibili senza questi bruschi spiragli aperti dalla delusione. I sogni, si sa, non sono realizzabili; ma non ne faremmo, forse, senza il desiderio, e farne è utile perché li vediamo crollare e il loro crollo risulta istruttivo. Così, Bergotte si diceva: “Spendo, per delle ragazzine, più di un multimilionario, ma grazie ai piaceri o alle delusioni che mi procurano riesco a scrivere un libro che mi fa guadagnare del denaro”. Ragionamento economicamente assurdo; ma è probabile che Bergotte trovasse una qualche attrattiva nel trasmutare l’oro in carezze e le carezze in oro. E poi, abbiamo visto, al momento della morte di mia nonna, che la sua vecchiaia affaticata amava il riposo. Ora, in società non c’è altro che la conversazione. È una conversazione stupida, ma che ha il potere di sopprimere le donne, riducendole a domande e risposte. Al di fuori della società, le donne ridiventano qualcosa di riposante per il vecchio stanco: un oggetto di contemplazione.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

David Hamilton - Edition Agep - LastDodo

Bergotte e le sue opere

Ma frattanto, e inversamente, l’insieme delle sue opere – conosciute solo dai letterati all’epoca in cui Madame Swann ne patrocinava i timidi sforzi di disseminazione, ora cresciute e forti agli occhi di tutti – aveva assunto presso il vasto pubblico uno straordinario potere espansivo. Succede, certo, che uno scrittore diventi celebre solo dopo la sua morte. Ma Bergotte era ancora in vita e, mentre stava percorrendo il suo lento e inconcluso cammino verso la morte, assisteva a quello delle sue opere verso la Fama. Un autore morto, almeno, non fa nessuna fatica a essere illustre. L’irraggiarsi del suo nome si ferma alla pietra della sua tomba. Nella sordità del sonno eterno, la Gloria non può importunarlo. Ma, per Bergotte, l’antitesi s’era costituita solo in parte. Egli insisteva ancora abbastanza per soffrire del tumulto. Si muoveva ancora, sia pur penosamente, mentre le sue opere, scattanti come figlie che amiamo, ma che ci stancano con la loro impetuosa giovinezza e i loro svaghi chiassosi, trascinavano ai piedi del suo letto, giorno dopo giorno, nuovi ammiratori.

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

David Richardson — Proust Ink

David Richardson, Bergotte

(La morte di Bergotte)