Il monocolo di Bloch

Ma torniamo, dopo questa anticipazione, a tre anni prima, cioè al ricevimento cui ci troviamo in casa della principessa di Guermantes. Stentai a riconoscere il mio compagno Bloch. […] In effetti, un’eleganza inglese aveva completamente trasformato la sua figura, e passato la pialla su tutto ciò che era possibile portarne via. I capelli, un tempo riccioluti, erano pettinati lisci con la riga in mezzo, e luccicavano di brillantina. Il naso era ancora robusto e rosso, ma sembrava più che altro tumefatto da una sorta di raffreddore perpetuo che poteva spiegare l’accento nasale con cui snocciolava pigramente le sue frasi, giacché aveva trovato, oltre che una pettinatura adatta al suo colorito, anche una voce per la sua pronuncia, in cui la rinolalia d’un tempo prendeva la sfumatura di un disdegno d’articolare che s’accordava con le pinne del suo naso. E grazie alla pettinatura, all’eliminazione dei baffi, all’eleganza, al tipo, alla volontà, quel naso ebreo scompariva, così come una gobba ben aggiustata sembra quasi dritta. Ma a cambiare il significato della sua fisionomia era soprattutto, al primo apparire di Bloch, un minaccioso monocolo. L’elemento di meccanizzazione che quel monocolo introduceva nel volto di Bloch lo dispensava da tutti gli ardui doveri cui un volto umano è soggetto, dovere d’essere bello, d’esprimere intelligenza, benevolenza, forza. La sola presenza di quel monocolo dispensava a priori dal chiedersi se il volto di Bloch fosse bello oppure no, come davanti agli oggetti inglesi di cui il commesso d’un negozio dice che sono “estremamente chic“, dopo di che non abbiamo più il coraggio di chiedere a noi stessi se ci piacciono.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Bloch invecchiato

E sul suo volto vidi in effetti sovrapporsi quell’aspetto cagionevole e annuente, quel debole tentennare del capo che trova così presto la sua tacca d’arresto, in cui avrei ravvisato la dotta stanchezza d’un amabile vegliardo se, d’altra parte, non avessi riconosciuto davanti a me il mio amico e se i miei ricordi non l’avessero animato di quel piglio giovanile e ininterrotto di cui appariva attualmente sprovvisto. Per me che l’avevo conosciuto alle soglie della vita e non avevo mai smesso di vederlo, era il mio compagno, un adolescente di cui misuravo la giovinezza su quella che, avendo creduto di viverla da allora, attribuivo inconsciamente a me stesso. Sentii dire che dimostrava la sua età, notai con stupore sul suo volto alcuni dei segni che sono perlopiù le caratteristiche di chi è vecchio. Capii che così avveniva perché in effetti lo era, e che degli adolescenti che campano molti anni la vita fa appunto dei vecchi.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori